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L’impoverimento delle famiglie è anche povertà crescente per tanti bambini. A fronte della drammaticità dei dati statistici l’indagine nazionale rivolta agli assistenti sociali che operano nell’area bambini 0-6 anni (Fondazione Zancan, 2015b), di cui si dà conto nell’articolo, si interroga su chi sono, come vivono, quali sono i bisogni prioritari, perché l’accesso alle risposte non è tempestivo, perché vengono penalizzati i più piccoli (0-3). Assistenti sociali che affrontano quotidianamente questi problemi hanno evidenziato ciò che aiuta e non aiuta, quello che viene erogato e non erogato, se e come combinare trasferimenti e servizi, quanto le mancate integrazioni creano vuoti operativi, se e come la formazione può consentir loro di meglio operare. I risultati sono preziosi perché vengono dalla conoscenza diretta dei problemi, dall’esperienza professionale, dalle condizioni di utilità della loro azione malgrado la ristrettezza delle risorse e delle disfunzioni organizzative.
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Le politiche per gli anziani non autosufficienti stanno vivendo in Italia una fase segnata da una profonda incertezza e non è affatto chiaro quale traiettoria seguiranno nel prossimo futuro. Se si vuole passare dall’attuale età dell’incertezza a una stagione di rinnovato sviluppo del settore si devono, innanzitutto, ridefinire i termini del dibattito, partendo da uno sguardo sulla realtà del nostro paese. Bisogna, in altre parole, fermarsi a chiedersi quali sono gli ostacoli da superare per costruire un sistema di sostegno agli anziani non autosufficienti, e alle loro famiglie, adatto alla società attuale e futura. È ciò che prova a fare questo articolo, dedicandosi ad alcuni nodi di fondo: la scarsa attenzione dedicata dalla politica; l’accompagnamento di anziani e famiglie nel loro percorso come obiettivo molto dichiarato ma poco raggiunto; la necessità di articolare maggiormente la rete delle risposte a livello locale; il legame sempre più stretto tra non autosufficienza e impoverimento; la radicata immobilità sulla riforma dell’indennità di accompagnamento; l’esigenza di trovare nuovi mix tra il finanziamento pubblico, primario, e quello privato complementare.
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L’assistenza agli anziani non autosufficienti è ancora in larga parte in carico alle famiglie, che vi fanno fronte con un ampio ricorso alle assistenti familiari. La frammentazione delle competenze tra Stato, Regioni ed enti locali e le difficoltà di integrare le varie fonti di finanziamento fanno affermare che non basta aumentare le risorse. Il rifinanziamento pluriennale del Fondo nazionale per la non autosufficienza lo rende strutturale e permette di avviare la definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni sociali. Per essere efficace il Fondo deve far convergere le politiche molto diversificate che le Regioni hanno avviato, puntando sulla qualità della presa in carico, dei piani individuali di assistenza e dell’a integrazione socio-sanitaria. Il prevalere dei trasferimenti monetari non aiuta il decollo di una rete integrata e qualificata di servizi orientati alla domiciliarità. È sempre più urgente una legge quadro nazionale per superare la frammentazione delle competenze, rapportare l’assegno di accompagno al fabbisogno assistenziale e ricondurlo al piano di assistenza individuale. In attesa della legge lo Spi ha deciso di costituire un Osservatorio nazionale sulle residenze per anziani.
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Nel passaggio dalla prevalenza di malattie acute alla maggiore incidenza di malattie croniche si sono rese evidenti le difficoltà del campo medico e di quello sociale nell’affrontarne la gestione e le ricadute sociali. Nel caso di patologie come le demenze o l’Alzheimer la scarsa visibilità nel dibattito pubblico appare una spia della difficoltà di affrontarne la gestione, nonostante le stime ipotizzino un loro aumento consistente nei prossimi decenni e, attualmente, si contino circa un milione e mezzo di pazienti, quasi la metà dei quali con Alzheimer. L’articolo ricostruisce l’attenzione altalenante alla condizione della non autosufficienza e delle demenza in Italia per riflettere sulle possibili ragioni di quanto accade e sui rischi che tale rimozione può determinare nella gestione sociale di questo articolato insieme di patologie.
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Il contributo sviluppa una riflessione sulle prospettive di sviluppo dei diversi modelli di capitalismo europei di fronte alle grandi sfide contemporanee. Muovendo dall’importante contributo di Burroni (2016), gli autori discutono all’interno di un quadro teorico di impronta polanyiana il concetto di «sviluppo insostenibile» come elemento intrinseco del capitalismo. Il capitalismo in generale, ma in modo ancora più evidente quello europeo, si dimostra sempre più in difficoltà nel rendere compatibili esigenze diverse ma essenziali come la crescita, la protezione sociale, la partecipazione democratica. Gli autori approfondiscono poi il caso italiano, mostrando le difficoltà di rigenerazione del sistema sociale ed economico di un paese caratterizzato da limiti intrinseci del proprio sviluppo, a partire dal dualismo Nord/Sud.
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A partire dalla ricostruzione che Burroni (2016) opera sul piano storico ed empirico di quattro modelli di capitalismo, il contributo riflette sulla drammatica esigenza di una «riforma del capitalismo». Ridare legittimità al dibattito sui vari «tipi di capitalismo» consente di portare l’attenzione alle caratteristiche di strutture economiche alternative e di contrastare l’idea di una ineluttabile convergenza verso un unico modello economico. Il contributo si sofferma sulla questione cruciale della riformabilità del capitalismo di cui si confermano assi fondamentali occupazione e investimenti. Al centro debbono, quindi, tornare le domande sul ruolo del «lavoro» e sui «fini» di un «nuovo modello di sviluppo» che rilanci la piena e buona occupazione, soddisfi bisogni trascurati, produca beni pubblici, beni comuni, beni sociali, nella consapevolezza che tali beni sono fragili e hanno bisogno di istituzioni che se ne prendano cura.
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Che cosa deve fare il sindacato per essere ancora, nello straordinario mutamento di fase che si è aperto con la crisi del 2008, un attore sociale e istituzionale di prima grandezza? Da tempo svariati movimenti neopopulisti insidiano, in vario modo e con diversi argomenti, la pretesa del sindacato di rappresentare monopolisticamente gli interessi generali dei governati e, persino, quelli particolari dei lavoratori. Per far fronte a questa sfida esistenziale, il sindacato è chiamato, prima di tutto, a comprendere il nucleo di verità sotteso alle domande di sicurezza patrimoniale e identitaria di cui i neopopulismi sono espressione. Le pericolose derive sovraniste, nazionaliste, xenofobe del neopopulismo possono essere combattute solo radicalizzando il loro contenuto e portando il conflitto a una nuova fase costituente.
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Al fine di aumentare la competitività diversi paesi hanno recentemente rafforzato la contrattazione decentrata, legando l’andamento dei salari con quello della produttività: in Francia, si è aumentata la possibilità per le imprese di discostarsi dalla stringente contrattazione centralizzata, in Portogallo, Grecia e Spagna, quello aziendale è ora il livello privilegiato per la contrattazione. In Italia, nelle ultime due Leggi di stabilità (per il 2016 e per il 2017), sono stati inseriti importanti interventi in materia di detassazione di premi di produttività e welfare aziendale. L’obiettivo primario di questa norma è quello di favorire la contrattazione decentrata, costruendo le condizioni fiscali favorevoli affinché aziende e lavoratori negozino salari integrativi; il risultato è stato anche quello di aumentare i salari netti di un gran numero di lavoratori. In secondo luogo si è permesso ai singoli lavoratori di scegliere liberamente se fruire di premi in denaro o in welfare benefits (condizionatamente alla presenza di un piano di welfare contrattato nell’accordo sindacale). In questo modo si è creato un incentivo ulteriore a negoziare in azienda. Ma si è anche sollevato un problema di potenziale sostituibilità del welfare nazionale con quello aziendale.
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Nell’arena pubblica è diffusa la tendenza a considerare le agevolazioni fiscali al welfare aziendale una win-win solution, una misura che produce benefici senza causare costi. Obiettivo dell’articolo è mettere in discussione questa posizione, focalizzando l’attenzione sulla sanità complementare. La tesi è che le agevolazioni fiscali alla sanità complementare, lungi dal rappresentare una win-win solution, comportino due insiemi di costi. Da un lato, creano iniquità fra coloro che ne beneficiano e coloro che, pur non beneficiandone, devono contribuire al loro finanziamento. Dall’altro lato, potrebbero generare ripercussioni negative sul Ssn.
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Con le novità introdotte dalle Leggi di stabilità 2016 e 2017 i lavoratori hanno la possibilità di convertire l’importo del premio di risultato in beni e servizi di welfare. La conversione è favorita da agevolazioni fiscali e contributive, vantaggiose sia per i dipendenti sia per le aziende. In particolare, alle somme convertite in welfare non si applica l’obbligo di versamento dei contributi previdenziali. L’articolo si pone come obiettivo l’analisi di vantaggi e svantaggi, per dipendenti e datori di lavoro, di tale provvedimento attraverso l’elaborazione di un calcolo della «perdita previdenziale» che il lavoratore subirà, una volta pensionato, a seguito della conversione annuale di tutto o parte del premio in welfare.