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L’articolo si propone di indagare la criminalizzazione dell’immigrazione in Italia e in particolare il «lavoro culturale» che naturalizza lo status di un gruppo come «criminale», esaminando il modo in cui le rappresentazioni influenzano le politiche e, viceversa, le politiche mettono in scena delle rappresentazioni. Ripercorrendo i momenti cardine che hanno portato nell’arena pubblica le varie «crisi dell’immigrazione», e basandosi su alcuni studi di caso, si ricostruisce la logica dei processi di criminalizzazione e la loro storia. Viene mostrato come il framework di Schengen, improntato alla sicurezza dei confini, sia alla radice della criminalizzazione del «clandestino». Il «paradigma della sicurezza» che ne deriva diventa così un principio di comprensione e intervento sulle dinamiche urbane che sfocia in cicli politici di «rivendicazione e criminalizzazione». A sua volta, il regime letale di controllo delle frontiere giustificato dalle «politiche dell’assedio» richiede una deresponsabilizzazione morale che si nutre della costruzione continua del pericolo portando a una ulteriore criminalizzazione dei migranti e dei loro «fiancheggiatori».
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L’ambito territoriale proprio degli enti locali è la principale dimensione spaziale dei processi di integrazione degli immigrati e la spesa che i comuni sostengono per l’implementazione dei servizi sociali rappresenta lo strumento fondamentale per la loro attivazione e per il governo dei processi di inclusione degli immigrati. La retorica politica anti-immigrati denuncia l’esistenza di una presunta spesa sociale per la popolazione immigrata che drena risorse agli italiani. Ma la valutazione della spesa sociale indirizzata agli immigrati mostra tutt’altra realtà. Non esiste nessuna linea preferenziale e nemmeno un travaso di risorse dalla spesa sociale complessiva verso quella dedicata agli immigrati. Al contrario, è ancora ispirata da una gestione emergenziale dell’immigrazione, concentrata prevalentemente sulla spesa per le strutture di prima accoglienza. Insomma, la spesa sociale per l’immigrazione sembra essere ancora attardata rispetto ai cambiamenti della presenza immigrata e ai suoi nuovi bisogni.
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Come si coniugano gli interventi professionali volti al benessere delle persone in stato di necessità con le funzioni di controllo ed espulsione contenute nel «Decreto sicurezza»? Quali i rischi di pratiche discriminatorie nell’intervento sociale all’interno dei centri di accoglienza? Questi alcuni dilemmi che si trovano ad affrontare gli operatori delle strutture di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati e in particolare gli assistenti sociali, come professionisti dell’aiuto, espressione della solidarietà della società. Per comprendere quali effetti sta portando la nuova normativa e come affrontare la complessità dell’aiuto in presenza del decreto all’interno della professione vengono riprese nell’articolo sia le analisi delle recenti modificazioni normative nel sistema di accoglienza, sia le riflessioni su quanto le stesse normative incidano sul rapporto tra «aiuto» e «controllo» e sulla capacità di voice degli operatori sociali.
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Seguendo il recente percorso di evoluzione dell’associazionismo migrante a Napoli, questa analisi riporta due casi studio che descrivono un viaggio di ritorno compiuto dai leader senegalesi di due associazioni miste verso il loro paese di origine, attraverso la cooperazione allo sviluppo. Da un punto di vista metodologico, la ricerca si avvale degli strumenti propri delle scienze sociali, con riferimento all’indagine qualitativa, facendo uso di osservazione diretta e interviste approfondite condotte alle associazioni di immigrati a Napoli, con un’attenzione particolare a quelle di recente costituzione.
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Il saggio tematizza la configurazione dei confini e dei processi di confinamento e segregazione nel vigente regime migratorio, nella connessione tra politiche di regolazione dell’accesso e dell’insediamento nello spazio nazionale. Nel mutato scenario migratorio, nell’evoluzione del discorso pubblico e delle retoriche sulle migrazioni l’Europa protegge i propri confini. Le misure adottate in materia di migrazioni dal governo Lega5Stelle mostrano, pur nella coniugazione particolarmente autoritaria e razzista, la continuità con il management della mobilità umana, sia europeo sia nazionale (precedente ministro Minniti). La ricostruzione di due vicende paradigmatiche (Diciotti e Riace) consente l’individuazione dei processi di securizzazione delle frontiere e dei territori come dimensioni centrali delle strategie adottate nella costruzione del regime interpretativo sui fenomeni migratori e sul loro governo. La criminalizzazione e la smobilitazione del sistema di seconda accoglienza, l’inasprimento del controllo selettivo e l’esternalizzazione delle frontiere, la marginalizzazione e la criminalizzazione dell’intervento delle Ong, la «chiusura dei porti» e l’affidamento degli interventi di soccorso e salvataggio a paesi «amici» mostrano l’inclinazione autoritaria e razzista che, ponendosi «oltre» la sfera giuridica e costituzionale, disvela la deriva antiumanitaria delle politiche del ministro Salvini.
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Il percorso con cui si sta cercando di dare attuazione al regionalismo differenziato, per Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, è un percorso in grado di modificare significativamente l’assetto istituzionale del nostro paese, totalmente privo di trasparenza, che espropria il Parlamento dalle sue prerogative, e che è in larga parte irreversibile. La domanda di un regionalismo differenziato appare motivata soprattutto dalla volontà di alcune regioni del Nord di potere gestire una quota crescente del gettito dei tributi erariali maturato sul proprio territorio. Attraverso questo processo si affrontano problemi reali, che riguardano tutte le regioni (certezza delle risorse, possibilità di programmare, maggiori e meglio definiti spazi di autonomia), proponendo però la scorciatoia di più risorse e più autonomia solo per alcune di esse. Si ricorre all’articolo 116 comma terzo della Costituzione, che riguarda il trasferimento di competenze legislative, per poter ottenere spazi maggiori di autonomia amministrativa, che potrebbero essere invece riconosciuti con strumenti più appropriati e flessibili, quali il decentramento amministrativo delle funzioni, secondo il criterio di differenziazione, previsto dall’articolo 118 comma primo. Nel complesso, questo regionalismo differenziato, se realizzato, aggraverà, e non solo finanziariamente, la situazione di tutte le altre regioni a statuto ordinario e del paese nel suo complesso.
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L’articolo descrive l’iter di attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione, per richiedere ulteriori forme di autonomia regionale, a partire dalle procedure intraprese dalle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, ripercorrendo le tappe del processo avviato nel 2017 e sottolineandone le implicazioni istituzionali e politiche. Si evidenziano le criticità e le valutazioni espresse dalla Cgil, con particolare riferimento al pericolo che tale procedura possa provocare la definitiva rottura del pieno e uniforme riconoscimento dei diritti civili e sociali fondamentali, aumentando le disuguaglianze già oggi esistenti.
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Nel suo ultimo libro Laura Pennacchi tira le fila del suo impegno intellettuale e politico di una vita. L’autrice insiste nella sua critica di lunga lena all’ideologia dell’homo oeconomicus e della razionalità strumentale: l’uno e l’altro precludono una discussione sui fini e sui valori. L’approccio di Pennacchi favorisce un umanesimo rinnovato e un’etica trascendentale, entrambi messi in relazione con un femminismo che si prende cura del mondo e con un marxismo dell’alienazione. Ci pare di dover sollevare delle obiezioni a questa visione, e però al tempo stesso non possiamo non rinvenire un filo alternativo di discorso nel volume, nascosto nel rimando ad Adorno e al Marcuse dell’Uomo a una dimensione, come anche al femminismo di Joan Tronto e alla psicoanalisi. Questa seconda è una prospettiva dove però la critica al capitalismo non può fare a meno del Marx di Das Kapital, delle contraddizioni immanenti, e di una definizione non «umanista» degli esseri umani come individui-in-relazione, qui e ora, lontano da ogni trascendenza. Questa prospettiva consente di porre in termini nuovi la questione di come e perché rompere con la logica del capitale.
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Partendo dal peana avvincente e accalorato alla necessità di riportare i valori e la discussione pubblica su di essi al centro della vita umana sviluppato da Pennacchi, il contributo porta l’attenzione sulla sottovalutazione dei valori insita nella visione del mercato quale luogo naturale di libertà. La tesi presentata è che, contro tale visione, il mercato sostiene solo un sotto-insieme di libertà e le libertà di mercato contengono una dimensione inevitabile di potere. Riconoscere questa realtà è fondamentale per contrastare la riduzione delle libertà alle libertà di mercato e la legittimazione di diritti di proprietà iniqui. In ogni caso, qualsiasi riflessione seria su mercato e valori deve abbandonare la metafora astratta e atemporale del mercato per tenere conto della realtà del capitalismo finanziario odierno.
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Scopo dell’articolo è quello di proporre alcune riflessioni attorno al volume di Laura Pennacchi, De valoribus disputandum est. Secondo Pennacchi la prospettiva della giustizia sociale deve essere integrata con una riflessione sulla questione della «vita buona», che può essere sviluppata partendo dalla tradizione della teoria critica, da Marcuse a Honneth e Jaeggi. Prendendo le mosse da questo orizzonte teorico, l’obiettivo è quello di proporre un nuovo modello «umanistico» di società.
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La recente riforma del Terzo settore (L. n. 106 del 6 giugno 2016) costituisce un punto di arrivo di un mutamento del mondo associativo avvenuto negli ultimi decenni ma anche il punto di partenza di un processo attuativo che si produrrà nel corso dei prossimi anni. Il presente articolo presenta le caratteristiche salienti della riforma, ne indica alcune delle principali sfide aperte e opportunità e ne mette in luce alcuni possibili rischi, in particolare riguardo al rapporto con il welfare pubblico, al centralismo della governance del nuovo sistema e delle forme di rappresentanza. L’esito di questa sfida dipenderà da quanto gli attori istituzionali chiamati ad attuarla, in particolare governo centrale ed enti locali e quelli dello stesso Terzo settore, sapranno bilanciare il processo di ibridazione col mercato con il mantenimento del radicamento territoriale e culturale del Terzo settore.
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La recente riforma del Terzo settore (L. n. 106 del 6 giugno 2016) costituisce un punto di arrivo di un mutamento del mondo associativo avvenuto negli ultimi decenni ma anche il punto di partenza di un processo attuativo che si produrrà nel corso dei prossimi anni. Il presente articolo presenta le caratteristiche salienti della riforma, ne indica alcune delle principali sfide aperte e opportunità e ne mette in luce alcuni possibili rischi, in particolare riguardo al rapporto con il welfare pubblico, al centralismo della governance del nuovo sistema e delle forme di rappresentanza. L’esito di questa sfida dipenderà da quanto gli attori istituzionali chiamati ad attuarla, in particolare governo centrale ed enti locali e quelli dello stesso Terzo settore, sapranno bilanciare il processo di ibridazione col mercato con il mantenimento del radicamento territoriale e culturale del Terzo settore.