• La contrattazione collettiva territoriale presenta aspetti nuovi, oltre il tradizionale sistema di relazioni industriali. Così è per i contratti di distretto industriale o di bacino produttivo nati dal basso con lo scopo di ricondurre a unità situazioni diverse entro un progetto di sviluppo locale. Ci sono poi i patti di sviluppo intersettoriali e la concertazione sociale con le istituzioni pubbliche. Il bilancio delle esperienze è positivo per i contratti di distretto; è invece problematico per gli altri dove prevale la grande frammentazione degli interventi e l’assenza di progettazione. Di qui la necessità di una nuova strumentazione e di nuovo insediamento del sindacato nel territorio.
  • L’attività negoziale del sindacato italiano si è confrontata a partire dal dopoguerra con i temi del welfare e della protezione sociale. A partire dagli anni settanta del Novecento tali iniziative si sono articolate nel rapporto tra livello nazionale e locale, tra diritti sociali e società civile. La «contrattazione sociale» si è posta in relazione con l’evoluzione del sindacato in una sua fase cruciale (tra 1989 e 1991, sotto la guida di Bruno Trentin) ed è stata influenzata dall’evoluzione istituzionale, amministrativa e delle politiche sociali degli anni novanta. Gli attuali anni di crisi economica chiamano la contrattazione sociale a nuovi sviluppi: verso i temi della giustizia sociale e della povertà, l’incontro con la contrattazione collettiva, un welfare partecipato, la riforma della pubblica amministrazione, oltre a sfidare lo stesso sindacato sui temi dell’organizzazione e della rappresentanza.
  • Il contributo contiene i risultati di una ricerca empirica sull’andamento della contrattazione collettiva territoriale e della concertazione sociale nella Regione Campania che è stata condotta in due tempi. Dapprima con l’analisi del dato statistico che ha evidenziato un’attività di contrattazione collettiva sul territorio alquanto modesta incentrata sulla detassazione del salario di produttività e una concertazione sociale di livello regionale e subregionale più significativa nell’ambito delle politiche del lavoro giovanili e in alcuni settori del welfare. L’indagine è proseguita nel dialogo con alcuni rappresentanti dei rispettivi organi associativi, sindacale e datoriale le cui posizioni sono riportate nell’ultima parte dello scritto.
  • L’articolo analizza la dimensione territoriale della Sozialpartnerschaft trentina. In particolare, si delineano i caratteri del collegamento tra concertazione territoriale e sviluppo della contrattazione decentrata, a partire dagli anni settanta fino ai più recenti interventi. Come rilievi conclusivi, vengono svolte alcune considerazioni sugli sviluppi attuali della contrattazione bilaterale (e non solo) su impulso della concertazione territoriale trilaterale.
  • L’articolo analizza le politiche per il sostegno alla competitività e all’inclusione sociale del distretto industriale di Prato. Sono stati quindi descritti, con particolare attenzione al ruolo del sindacato, la genesi, le caratteristiche e i risultati di tre interventi promossi dalla Regione Toscana. Il panorama che emerge è tuttavia ambiguo. Nonostante l’innovatività delle soluzioni proposte, che rendono il distretto un laboratorio di rilevanza non soltanto regionale, i risultati non mostrano infatti significativi avanzamenti.
  • Il welfare aziendale è diventato uno dei terreni più interessanti per la contrattazione di secondo livello ed è potenzialmente in grado di svilupparla in direzione di un equilibrio virtuoso tra interessi aziendali di competitività e interessi sindacali di miglioramento della qualità della vita dei lavoratori. Sulla scorta di queste premesse, l’articolo discute del welfare aziendale e contrattuale attingendo ai dati dell’Osservatorio sulla contrattazione di Cisl Lombardia. Più in particolare, delle intese aziendali sottoscritte tra il 2005 e il 2013 in imprese lombarde di dimensioni medio-grandi l’articolo propone un’analisi interpretativa, e non meramente descrittiva, che intende dare conto delle misure implementate e delle relative finalità, come pure delle strategie e delle dinamiche (sindacali, manageriali, datoriali) sottostanti. Obiettivo dell’approfondimento proposto è quello di affrontare in modo critico la relazione emergente tra welfare integrativo e assetti delle relazioni di lavoro e di offrire spunti di discussione per comprendere come si vada modificando la natura del rapporto tra capitale e lavoro e quale sia, al suo interno, il ruolo della rappresentanza.
  • Per due secoli il lavoro è stato al centro della storia sociale, economica e politica. Ora non è più così. Da quando gli studiosi hanno avvertito che la classe operaia non era il soggetto destinato a cambiare il mondo, hanno smesso di studiare il lavoro (Axel Honneth). Sarebbe invece il momento di studiarlo di più, dati i grandi mutamenti intervenuti, sia per elaborare un’idea più attuale di lavoro, sia perché il movimento dei lavoratori rimane un soggetto essenziale, anche se non unico, per trasformare la società. Nella nuova situazione profondo è il cambiamento richiesto al sindacato. Il rallentamento della crescita appanna il suo ruolo di distributore della ricchezza, spingendolo a impegnarsi maggiormente sul versante della produzione. Più problematica diventa la redistribuzione del reddito e del lavoro sia tra le classi, sia tra i lavoratori stessi. È necessaria una nuova solidarietà sociale, che richiede anche un’organizzazione del sindacato che dia più ruolo ai lavoratori.
  • Il volume di recente pubblicazione «Laws against strikes, The South African experience in an international and comparative perspective», curato da B. Hepple, R. le Roux e S. Sciarra, ci rivela l’importanza di preservare e sostenere azione collettiva e libertà di associazione per promuovere le istanze di giustizia sociale. A partire dalle considerazioni suscitate dalla lettura di questo testo, l’Autore cerca di ricostruire brevemente ragion d’essere e pratica della libertà di azione collettiva e dei diritti di sciopero in rapporto a un periodo di crisi economica e sociale. In questa luce egli individua altresì in sintesi critica i più rilevanti cambiamenti connessi alle innovazioni interne al diritto dell’Unione Europea, ad alcuni degli accordi bilaterali e regionali di libero scambio (come la partnership trans-pacifica e quella trans-atlantica) e interni al sistema di risoluzione delle controversie del Gatt/Wto.
  • I contributi di Carlo Ghezzi, Laura Pennacchi e Andrea Margheri ricostruiscono la figura di Silvano Andreani, politico ed economista italiano, e sono il frutto di un seminario organizzato dalla Cgil nazionale nel gennaio 2014. Se nell’intervento di Carlo Ghezzi emerge la ricchezza del profilo biografico e della sua biografia politico-sindacale; la testimonianza di Laura Pennacchi, nel ripercorrere gli anni della sua collaborazione al Cespe, analizza i tratti innovativi della sua cultura economica. Ai molteplici temi al centro delle sue riflessioni come militante e intellettuale è, invece, dedicato l’intervento di Andrea Margheri a partire dalle sue analisi geopolitiche, sino alle riflessioni sulla questione settentrionale, e alla crisi della rappresentanza democratica.
  • Serve il Jobs act? A due anni dalla riforma Fornero si interviene ancora una volta sulla flessibilità in uscita e non si affrontano i nodi veri che determinano dualismi e discriminazioni nel mercato del lavoro, slegandolo da una politica di sostegno all’occupazione strutturale. L’obiettivo del contributo è mettere in luce alcuni caratteri del mercato del lavoro italiano e la necessità di ricollegare le politiche di regolamentazione a un quadro che abbia a riferimento l’esigenza di rilanciare una politica per l’occupazione, una politica economica espansiva caratterizzata da investimenti nell’innovazione e nelle competenze dei lavoratori, una regolazione a supporto di nuove relazioni industriali e assetti contrattuali che vedano nella legislazione uno strumento di universalizzazione di tutele e di limitazione delle discriminazioni. In questi anni la crescita delle disuguaglianze sociali, la crisi dei settori produttivi e la crescita del lavoro debole contrattualmente e povero salarialmente hanno cambiato la funzione della legislazione del lavoro con una sempre maggiore invasività sull’autonomia collettiva, che con il Jobs act ribalta totalmente il paradigma: la legislazione non sostiene più il soggetto cedevole, cioè il lavoratore, bensì l’impresa; e la funzione della contrattazione e quella della rappresentanza sono direttamente condizionate da questo cambio di prospettiva. In questo scenario, contenzioso giudiziario, consolidamento del T.u. sulla Democrazia e rappresentanza e sua estensione a tutti i settori, Piano del lavoro sono le risposte utili a contrastare il declino, l’ulteriore svalutazione del lavoro e svalorizzazione della funzione della contrattazione collettiva.
  • L’articolo si interroga sui possibili effetti delle recenti riforme del mercato del lavoro; e lo fa focalizzandosi su alcune peculiarità e tendenze del contesto italiano, in comparazione con altri paesi europei. Attraverso i dati di due ricerche dell’Associazione Bruno Trentin, esplora, da un lato, l’anomalia rappresentata da un elevato tasso di inattività e dall’altro le crescenti situazioni di disagio e sofferenza occupazionale (disoccupazione, cassaintegrazione, lavoro temporaneo involontario, part-time involontario).
  • L’articolo racconta il percorso delle recenti riforme del mercato del lavoro, in particolare del Jobs act, a partire dalla sua prima versione, discussa all’interno del Pd, descrivendo il progressivo cambiamento della filosofia, dell’approccio, dei contenuti della proposta. L’esito finale è un ulteriore allentamento dei vincoli per l’uso dei contratti a termine, nessuna riduzione della tipologia di rapporti atipici, la sperimentazione di un modesto ampliamento degli ammortizzatori sociali; la sostanziale eliminazione dell’art. 18 per i nuovi assunti. La riforma rischia allora di rafforzare dualismi e disuguaglianze già esistenti; sicuramente non appare in grado di affrontare in modo efficace il problema della precarietà.
  • L’articolo propone un’analisi dell’ultima riforma italiana del mercato del lavoro, denominata «Jobs act». Il percorso della riforma è iniziato a marzo del 2014 e non è ancora completo, ma gli obiettivi sono già chiaramente delineati nei provvedimenti approvati finora. La riforma si colloca nel solco delle due precedenti, tese ad accelerare ed estendere la sostituzione dell’occupazione standard con i «lavori», consolidando il modello di flessibilità basato su forme di temporaneità della prestazione lavorativa interamente controllate dalle imprese. Attraverso la quasi totale eliminazione dei vincoli al licenziamento (resta fuori solo il pubblico impiego), la riforma rende possibile il frazionamento dell’occupazione in «pezzi» che comporranno i nuovi percorsi lavorativi, combinandosi con intervalli di disoccupazione in sequenze variamente sussidiate. In questo modo, la riforma non affronta i problemi più rilevanti del lavoro, ma imprime una accelerazione al processo di ri-regolazione dei rapporti di lavoro.
  • La discussione sul Jobs act è stata sin dall’inizio viziata da una rappresentazione del mercato del lavoro stereotipata e superficiale. Una più attenta analisi teorica ed empirica delle dinamiche occupazionali mostra invece come l’aumento della flessibilità in uscita non avrà probabilmente alcun effetto apprezzabile sul livello di occupazione. Al contrario, in assenza di altre riforme sul sistema finanziario e produttivo, la facilitazione dei licenziamenti rischia di incentivare ulteriormente i settori a basso valore aggiunto e a scarso contenuto innovativo.
  • Nel ripercorrere i passaggi essenziali di una ricerca Ires sul fenomeno del lavoro cognitivo, il testo mette in evidenza la crescita di nuove figure e le modificazioni che intervengono sul mercato del lavoro. Mostra che le linee di un cambiamento coinvolgono anche attività di lavoro professionale di tipo tradizionale, e che i soggetti a elevata competenza si relazionano in modo nuovo con la propria professione.
  • In questo contributo si propone una riflessione sulle fenomenologie sociali del lavoro cognitivo a partire dai risultati di una ricerca empirica Ires-Cgil il cui scopo è stato, primariamente, quello di interrogare la capacità (o meglio, l’incapacità) del sindacato a interpretare le radicali trasformazioni del mondo produttivo che caratterizzano in senso neoliberale il capitalismo contemporaneo. Si propongono quindi a questo scopo alcune riflessioni teorico-generali sul processo di cognitivizzazione del lavoro e sulla questione sindacale che deriva dalla crescente diffusività di tale processo. In altre parole si tenterà di indicare, sulla base dell’analisi delle risultanze empiriche, una proposta di «riforma» dell’organizzazione sindacale al fine di adeguare quest’ultima alle inedite posture sociali del lavoro cognitivo. La questione che vede il sindacato affrontare con difficoltà le novità sociali ed economiche del processo di cognitivizzazione del lavoro è, infatti, una questione urgente e niente affatto marginale e/o periferica sullo stato della sua complessiva salute sociale e politica.
  • Obiettivo del presente saggio è definire il ruolo e le forme dell’apprendimento nelle figure professionali del lavoro cognitivo. Dopo aver definito alcuni sintetici punti di riferimento relativi al modo con cui sono interpretate le competenze nel dibattito sulle trasformazioni del lavoro, l’articolo descrive quali sono le modalità di acquisizione di competenze proprie dei lavoratori della conoscenza. Si avvia quindi un’analisi in profondità del lavoro della conoscenza, attraverso la descrizione di ciò che differenzia o accomuna le diverse categorie professionali che lo compongono (oltre alla formazione delle competenze, il loro utilizzo e le criticità avvertite nel processo di lavoro). Segue una disamina di alcuni elementi di valutazione qualitativa tratti dalle interviste effettuate nella ricerca, in particolare relativi alla relazione fra conoscenze formali e informali. Infine vengono avanzate alcune ipotesi per un ulteriore approfondimento: l’eterogeneità dei canali di apprendimento è una risposta individualizzata alle difficoltà delle organizzazioni (imprese, formazione) di misurarsi con le trasformazioni sociali; il riconoscimento dei lavoratori cognitivi come soggetti sociali richiede un’analisi di dettaglio del ruolo lavorativo dei diversi tipi di lavoratori della conoscenza.
  • L’articolo propone una parziale ricognizione della letteratura sui «lavoratori cognitivi». In assenza di una definizione univoca, molte sono le criticità ancora aperte, soprattutto per una più solida collocazione delle professionalità «cognitive» sul mercato del lavoro. Gli approcci considerati evidenziano le implicazioni che contrappongono le interpretazioni del fenomeno e le possibili strategie. Cercare di sottrarre il concetto di conoscenza e le aree semantiche contigue (immateriale, intangibile, innovazione e creatività) all’ambivalenza potrebbe contribuire a una più rigorosa sistematizzazione teorica.
  • L’obiettivo di questo contributo è discutere i presupposti teorici e alcuni fra i risultati empirici di una ricerca condotta dagli Ires di Emilia-Romagna, Toscana e Veneto, sui lavoratori cosiddetti cognitivi. La ricerca indaga le condizioni di lavoro dei lavoratori della conoscenza in alcuni contesti regionali italiani, sulla base dell’ipotesi del capitalismo cognitivo, secondo la quale (a) il segno distintivo dei processi di accumulazione contemporanei sarebbe il passaggio da una valorizzazione centrata sui processi di produzione a una valorizzazione centrata sui processi di ideazione; (b) il lavoro cognitivo promuoverebbe la soggettività dei lavoratori in una situazione di crescente autonomia degli esecutori; (c) questo presunto guadagno di autonomia preluderebbe a una consapevole fuoriuscita dai rapporti di produzione capitalistici. Nella prima parte di questo contributo (parr. 1 e 2) si illustrano sinteticamente l’origine intellettuale e gli assunti basilari della teoria del capitalismo cognitivo, mettendone in luce, da un lato, l’ispirazione politica e, dall’altro, i limiti analitici. Nella seconda parte (par. 3) si illustrano le principali evidenze empiriche che emergono dalla ricerca degli Ires. Più che confermare l’ipotesi del capitalismo cognitivo, esse sembrano descrivere una condizione occupazionale strutturalmente precaria, con margini di autonomia decisamente ridotti.
  • All’indomani della Seconda guerra mondiale il sindacalismo italiano si presenta sulla nuova scena nazionale in forma unitaria per poi dividersi con l’inizio della Guerra fredda. In questo stesso periodo anche gli anarchici italiani riorganizzano il proprio movimento e guardano verso il mondo del lavoro e della sua rappresentanza. Gli anarchici e quei militanti che si impegnano nel mondo sindacale italiano vivono esperienze diverse che non riescono a raggiungere una sintesi, ma – pur in una posizione minoritaria – fanno anch’essi parte di quell’area sindacale interna alla Cgil o raccolta nei Cds, nella nuova Usi o nei Gaa, che guarda con forza a una piena autonomia e a una vera unità fra tutti i lavoratori in funzione di una reale trasformazione dei rapporti economici e sociali nati attraverso quel compromesso politico e istituzionale raggiunto fra i partiti, e cristallizzato negli anni della contrapposizione ideologica.
  • La Prima guerra mondiale rappresenta un evento centrale nella storia contemporanea e in occasione dei cento anni dalla deflagrazione del conflitto in Italia, la Fondazione Giuseppe Di Vittorio ha deciso di dedicare una considerevole parte della propria attività del prossimo triennio, 2015-2018, all’approfondimento dei temi legati alla Grande guerra. Il saggio, a partire dai risultati raggiunti dalla storiografia, sintetizza i principali filoni di ricerca avviati dalla Fondazione sul tema legati all’evoluzione della storia sindacale in quegli anni, ma anche alla crisi verticale che investì il socialismo europeo incapace di dar seguito ai propri propositi internazionalisti e pacifisti. Infatti, obiettivo della Fondazione è, in collaborazione con altri centri culturali, di aprirsi ai nuovi temi di ricerca concernenti la storia sociale con particolare riferimento a: la crisi politica del socialismo europeo del 1914; il ruolo dei sindacati e l’esperienza del mondo del lavoro contadino e industriale negli anni della guerra; il ruolo delle donne.
  • L’idea di una politica europea sul salario minimo mira essenzialmente a far sì che ogni lavoratore in Europa possa ricevere una retribuzione equa e dignitosa. Oggi invece in molti paesi europei i salari minimi sono fissati a livelli bassi e in ogni caso non sufficienti a porre al riparo dalla povertà. Considerate le forti differenze fra i vari livelli oggi esistenti, un salario minimo europeo non può consistere nella determinazione di uno stesso ammontare per tutti i paesi, ma deve piuttosto tradursi in un accordo intorno a un comune principio normativo. Esso potrebbe stabilire una certa soglia minima in rapporto percentuale al salario medio o mediano nazionale. Oggi una norma sul salario minimo europeo equivalente ad almeno il 60% delle medie nazionali coprirebbe qualcosa come 28 milioni di lavoratori europei, pari al 16% del totale della forza lavoro. L’implementazione di una politica di questo tipo dovrebbe in ogni caso rispettare le tradizioni nazionali e i rispettivi sistemi di formazione del salario.
  • Il saggio analizza il progetto di legge italiano sul salario minimo legale. Innanzitutto l’autore affronta il problema della garanzia di un salario minimo per tutti i contratti di lavoro, sia subordinati sia autonomi. In secondo luogo, il saggio esamina il rapporto fra salario minimo legale e i requisiti del salario previsti nell’art. 36 della Costituzione italiana. La tesi esposta è che il salario minimo legale è sicuramente funzionale a una politica di inclusione sociale e di tutela delle forme di sfruttamento del lavoro; nondimeno, il salario minimo legale è coerente con la tendenza a spostare il livello principale di contrattazione collettiva da quello nazionale di categoria a quello aziendale. In questo senso, il salario minimo legale ha una precisa funzione economica coerente con le misure di austerità imposte agli Stati membri dell’Unione Europea.
  • Molti anni di ricerca sulla povertà hanno dimostrato che i sistemi sviluppati di welfare non riescono più a ridurre la povertà tra la popolazione in età lavorativa, e ciò a dispetto della crescita dell’occupazione, dei livelli costantemente elevati di spesa sociale e della continua, seppure rallentata, crescita economica. Tenuto conto di questo scenario, analizzeremo ciò che è accaduto in Europa per quanto concerne le reti di sicurezza per le persone abilitate a percepire il reddito minimo durante il passato decennio. In primo luogo, prenderemo in esame il ruolo delle misure di contrasto alla povertà e quello dell’assistenza sociale nell’ambito degli obiettivi e del modus operandi della sicurezza sociale. In seguito illustreremo i servizi forniti alle persone in età lavorativa abilitate a percepire il reddito minimo nei paesi dell’Unione Europea, discutendo in dettaglio le tendenze relative ai livelli di prestazione garantiti. Infine, daremo conto di alcuni indicatori selezionati delle attuali politiche di attivazione mirate alle persone in età lavorativa abilitate a percepire il reddito minimo. La nostra conclusione è che fino al 2012 la tutela del reddito minimo per le persone in età lavorativa che ne avevano titolo è stata ampiamente insufficiente, malgrado gli incrementi reali registrati nel precedente decennio. Tutti gli attuali schemi di reddito minimo in Europa, inoltre, incorporano elementi di condizionalità per poter accedere ai benefici.
  • Dopo una prima parte dedicata all’illustrazione delle conseguenze della recente crisi sulla povertà tra le famiglie italiane, l’articolo ripercorre le motivazioni che rendono urgente e praticabile l’introduzione di uno schema universale di reddito minimo di inserimento contro la povertà. Vengono infine quantificati costi ed effetti distributivi di un reddito minimo dal disegno molto semplice, ma sufficientemente vicino ad analoghi strumenti in vigore in altri paesi europei.