• Bassa natalità, bassa fecondità e immigrazione dall’estero hanno caratterizzato gli ultimi trent’anni della demografia in Italia e nelle sue regioni, creando contrasti e tendenze inattese. L’evoluzione della nostra popolazione si inserisce nella crisi demografica dei paesi europei, ma l’Italia non vi ha ancora reagito in modo adeguato. Al di là di meccanismi demografici determinanti, le modalità di quelle evoluzioni e le caratteristiche della situazione attuale possono gettare luce sulle motivazioni socioeconomiche e politiche, evidenziare le carenze degli interventi e indicare le strade percorribili per correggere gli andamenti futuri.
  • La crisi congiunturale che aveva caratterizzato i primi anni Sessanta si interrompe grazie al mercato internazionale che inizia a trainare le esportazioni. Questo comporta una ripresa delle assunzioni. Il bacino da cui attingere forza lavoro necessaria per aumentare il ciclo produttivo è rappresentato dagli emigrati meridionali. Le condizioni di lavoro dopo dieci anni di vuoto sindacale, in particolare alle linee di montaggio della carrozzeria, della meccanica e alle fonderie, sono drammatiche. I carichi di lavoro, il taglio continuo dei tempi, la parcellizzazione delle mansioni pesano in modo talmente gravoso sugli operai da diventare un fattore determinante rispetto alla crescita politica dell’operaio e alla sua ribellione. Il fordismo entra prepotentemente in fabbrica per rispondere alle esigenze produttive intervenendo con violenza sui ritmi di produzione. La Fiat e molte altre aziende iniziano a spingere al massimo le linee. Alla verniciatura di Mirafiori per rendere più rapido il ciclo, le scocche escono ancora calde dai forni, prima che i getti d’aria riuscissero a raffreddarle, con il risultato che gli operai si ustionano i polpastrelli delle dita e a fine giornata hanno le mani gonfie. Si spinge oltre il livello di saturazione previsto e il sistema non è più sotto controllo. I vertici aziendali non fanno nulla per rallentare. A partire dal ’66 sotto l’apparente silenzio della fabbrica iniziano a moltiplicarsi i focolai di conflittualità, innescati da momenti di disagio molto aspri. Questi momenti di disagio sono provocati in primo luogo dalla forte pressione che i capi reparto esercitano per aumentare continuamente i ritmi di lavoro. La fabbrica inizia così a presentare un volto nuovo, oscuro e ignoto all’esterno delle officine e dei reparti trasformati nel teatro di una guerriglia spicciola, «ove si rinnovava ogni giorno una protesta sorda, ancora costretta a rimanere latente».
  • L’evoluzione dei modelli organizzativi del lavoro ha portato negli ultimi decenni all’emergere di diverse situazioni di disagio definite come «rischio psicosociale», che comprendono lo stress correlato al lavoro, le molestie e le situazioni in cui si configurano forme di vera e propria violenza. Lo stress da lavoro correlato costituisce oggi la condizione più diffusa di rischio per la salute e la sicurezza dei lavoratori. Il saggio valuta l’evoluzione del rischio psicosociale e dello stress nel nostro sistema economico, prendendo in considerazione alcune tra le principali misure promosse per contrastare il fenomeno e valutando ricerche che mettono in rilievo degli aspetti particolari della problematica. In particolare si considera il ruolo del dialogo sociale e del sindacato, sia nelle politiche che negli interventi in azienda, per promuovere modelli organizzativi in grado di limitare le situazioni di disagio collegate allo stress correlato al lavoro e per favorire il benessere aziendale come condizione prevalente nei sistemi produttivi. Inoltre si considerano i dati provenienti dalle analisi dell’Agenzia europea per la sicurezza e la salute rispetto al rischio psicosociale. La tesi dell’autore è che i modelli organizzativi del lavoro che stanno emergendo in questi anni, in particolare l’idea che la prestazione lavorativa sia da valutare quale «performance», implichino la diffusione di un maggior rischio psicosociale e di un conseguente minor benessere lavorativo.
  • Obiettivo del contributo è, in primo luogo, di indagare le prospettive regolative in tema di rappresentanza negoziale del sindacato emergenti dall’ultimo tassello di autoregolazione sindacale sul tema, costituito dall’Accordo interconfederale del 9 marzo 2018 (Patto della fabbrica). In secondo luogo, e sulla scorta del dibattito originato dall’inclusione di un intervento legislativo in tema di salario minimo e rappresentanza sindacale tra le priorità della nuova compagine governativa, oggetto di indagine sono le prospettive di un eventuale intervento eteronomo di regolamentazione della rappresentanza sindacale nel contesto di una legge istitutiva del salario minimo legale.
  • Le dinamiche economico-sociali tra associazioni sindacali e datoriali hanno da sempre comportato un interesse statale, manifestatosi in forme sia dirette che indirette, sia formali che informali. L’analisi, condotta nell’articolo, attiene proprio agli aspetti più marcatamente sociali delle relazioni industriali, con l’obiettivo di evidenziare le connessioni che sussistono tra welfare contrattuale e agente pubblico, sia in termini di soggetto «incentivante», sia quale interlocutore principale di tali interventi. Per l’autrice questa riflessione costituisce un passaggio obbligato, in quanto l’entropia definitoria del fenomeno, e l’assenza di una nozione normativa sembrano determinare che un’eventuale perimetro dell’istituto passi necessariamente anche attraverso il concetto di Welfare State. Il metodo comparato, con la scelta dell’esperienza olandese, è un utile strumento metodologico nel dimostrare che l’azione statale sembra comportare un determinato modularsi delle relazioni industriali e della loro azione nel welfare sussidiario.
  • L’articolo analizza, nella prospettiva del c.d. doppio-movimento Polanyiano, le implicazioni teoriche e pratiche della teoria dei beni comuni sul diritto e sulla rappresentanza del lavoro. La proposta dei beni comuni comporta un ripensamento della concezione pluralista del diritto del lavoro e delle relazioni industriali. Di fianco all’analisi teorica, l’articolo discute alcuni esempi di azione collettiva per la difesa dei beni comuni, relativamente allo sviluppo sostenibile dei territori, alle forme di cittadinanza attiva e al ruolo del consumo critico. La conclusione è che la prospettiva dei beni comuni possa rappresentare un fattore di rivitalizzazione per il diritto e la rappresentanza del lavoro.
  • L’autrice si sofferma sui criteri adottati dall’ordinamento francese per selezionare le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro al fine di evidenziare i profili che possono costituire spunto di riflessione per l’ordinamento interno, anche alla luce del percorso avviato dalle parti sociali. In particolare si evidenzia l’importanza della previsione di criteri non soltanto «quantitativi», ma altresì tesi ad accertare l’effettività dell’azione sindacale.
  • Negli ultimi anni le riforme del mercato del lavoro in Francia e in Italia hanno contribuito all’ulteriore deregolamentazione della legislazione lavorista. Se in Italia queste hanno riguardato principalmente i temi della regolazione contrattuale e del funzionamento del mercato del lavoro, nel caso francese hanno riguardato più espressamente anche la contrattazione collettiva e il sistema delle relazioni industriali a livello aziendale. Sia l’ultima riforma promossa dal governo Renzi (il Jobs Act), sia quella promossa da Macron (Loi Travail 2), si sono mosse entrambe sulla scia di precedenti provvedimenti, più o meno in continuità rispetto ai contenuti, ma anche nel quadro di un confronto sindacale più conflittuale e condizionato da una crescente propensione alla disintermediazione da parte dei governi. Anche se i due paesi presentano caratteristiche differenti relativamente al loro mercato del lavoro (anche in ragione della loro economia) e al loro modello di rappresentanza sindacale (diverso peso dei contratti nazionali, tassi di sindacalizzazione, organismi di rappresentanza interni alle aziende, ecc.), le due riforme potrebbero in prospettiva favorire ulteriormente la de-sindacalizzazione, in particolari degli occupati più giovani. L’ipotesi contenuta in quest’articolo è in altri termini quella che l’ulteriore processo di precarizzazione contrattuale nel rapporto di lavoro e la riduzione delle tutele contro i licenziamenti, tanto nella riforma italiana quanto in quella francese, possa condurre nel medio-lungo periodo ad un indebolimento crescente dell’efficacia e della copertura della contrattazione collettiva, a partire dall’enorme incidenza dei contratti a termine nelle assunzioni e dall’introduzione di formule negoziali dirette tra lavoratori e aziende.