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Il profondo processo di innovazione digitale ha di nuovo messo al centro la manifattura, ma non può essere definito come la «quarta rivoluzione industriale». Infatti il salto tecnologico nell’utilizzo dell’informatica e dell’automazione avviene dentro sistemi produttivi storicamente consolidati, che derivano dal Toyota production system come sono la lean production e il World class manufacturing. È il limite del Piano nazionale Industria 4.0, che offre consistenti incentivi dentro modeste innovazioni organizzative. Se si vuole avere una rivoluzione industriale, servono cambiamenti culturali e sociali, a cominciare da una innovazione organizzativa che dia nuovi esiti e nuova potenza all’innovazione digitale. Questo processo di cambiamento ha bisogno del contributo dei lavoratori e dei sindacati, attraverso la conoscenza diffusa dei processi innovativi, la formazione continua, lo sviluppo di una organizzazione del lavoro che permetta autoregolazione e autonomia, la contrattazione d’anticipo che tenga il passo con le procedure digitali di anticipazione non solo rivolte allo sviluppo e alla ingegnerizzazione dei prodotti, ma anche alla definizione delle procedure di lavoro.
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Le trasformazioni che incombono sul lavoro e sulle politiche di welfare impongono un ripensamento degli assetti della protezione sociale. In conseguenza della crisi, dell’emergere di nuovi bisogni sociali e anche della tecnologia i sistemi di welfare si trovano oggi ad affrontare una nuova fase di transizione. Gli effetti che la tecnologia produce sul lavoro non riguardano infatti solo gli aspetti legati al tipo di produzioni e al tipo di lavori o skill professionali richiesti. In una accezione più ampia la tecnologia interroga anche il sistema di protezione sociale e le garanzie vecchie, ma soprattutto nuove, da pensare o ripensare per dare risposta ai nuovi bisogni. Che tipo di protezioni sociali immaginare per riconoscere e sostenere il ribilanciamento tra tempi di vita e tempi di lavoro? Tra il lavoro per il mercato che in alcune sue componenti si va riducendo e la liberazione di tempo indotta dal salto tecnologico? In risposta a queste domande l’articolo si sofferma su due grandi questioni connesse tra loro. Da un lato il problema delle nuove politiche di sostegno del reddito e inserimento lavorativo di fronte agli effetti della crisi economica. Dall’altro il riconoscimento e la valorizzazione delle sfere di attività fuori mercato, da riconoscere all’interno di apposite riforme volte a estendere i confini del lavoro e dell’offerta di protezione sociale.
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Nel corso del trentacinquennio cd. neoliberale non si è assistito soltanto a un deterioramento del welfare e dei dispositivi di redistribuzione: la generale ridefinizione delle modalità di accumulazione ha attraversato tutti i settori dell’economia fondamentale, ovvero dello spazio economico che produce i beni e i servizi indispensabili per il benessere e la coesione sociale. A questo proposito, si analizzano alcuni esempi relativi ad attività fondamentali svolte in regime di mercato, ad attività fondamentali privatizzate o in corso di privatizzazione, ad attività esternalizzate. In conclusione, si constata la necessità di scelte di regolazione e di policy che intervengano non soltanto sul welfare strettamente inteso, ma su ciascuno dei settori dell’economia fondamentale, sulla base di dispositivi regolativi differenti.
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L’articolo si interroga sulle trasformazioni del lavoro legate alla sharing economy e in particolare sulle implicazioni delle piattaforme digitali per i lavoratori e le relazioni d’impiego. Se la retorica celebrativa del fenomeno enfatizza l’ampliamento delle opportunità occupazionali, l’evidenza fornita in questo articolo consegna un quadro più ambiguo. Nel capitalismo delle piattaforme le imprese alimentano forme accentuate di taylorismo con cui mettono a valore, a costi minimi e senza un’effettiva relazione contrattuale, una vasta gamma di abilità, competenze ed esperienze di lavoratori flessibilizzati che ampliano le fila del cyber- precariato.
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L’obiettivo di questo articolo è descrivere l’evoluzione della diseguaglianza di reddito nell’ultimo decennio nei principali paesi dell’Unione Europea (Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Spagna e Svezia). A questo fine, nella prima parte dell’articolo si valuta in quale misura le diverse fonti di reddito – di mercato e da redistribuzione – contribuiscano alla creazione delle diseguaglianze. Successivamente, si pone attenzione sui redditi da lavoro e si indaga se le diseguaglianze retributive siano imputabili principalmente al premio salariale ottenuto dalle persone con maggiore istruzione o, al contrario, emergano soprattutto fra individui con analogo titolo di studio.
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Nei paesi europei severamente colpiti dalla crisi finanziaria, come l’Italia, le politiche di austerità hanno accelerato le tendenze, in atto da lungo tempo, alla privatizzazione dei servizi di cura. Tuttavia, nel caso dei servizi per l’infanzia comunali, l’opposizione diffusa all’abbandono della gestione diretta mediante esternalizzazione a soggetti terzi ha spinto un numero crescente di Comuni a trasferire i servizi a enti od organismi come «istituzioni», «aziende speciali » o «istituzioni». Queste organizzazioni si collocano a metà tra il settore pubblico e quello privato, in quanto sono controllate dagli enti locali ma godono spesso di strumenti gestionali che le avvicinano alle aziende private. Come mostra l’analisi dei casi studio, il passaggio frequente dai contratti collettivi di lavoro del settore pubblico a quelli del settore privato ha promosso la ricerca di soluzioni innovative, allo scopo di limitare sia il peggioramento del trattamento economico e normativo dei lavoratori legato al cambiamento nella regolazione contrattuale, sia i rischi che ciò può comportare in relazione alla qualità del servizio.
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Lo studio si sofferma sul modello cohousing e tenta di tematizzare l’idea che caratterizza l’abitare sociale e le pratiche a esso connesse. Propone poi l’analisi di alcune esperienze di cohousing multigenerazionale in Germania e in Italia, al fine di identificare alcune azioni specifiche realizzate nelle diverse aree con finalità rivolte all’integrazione sociale degli individui coinvolti e all’integrazione territoriale delle funzioni e dei servizi previsti. Dallo studio emergono aspetti interessanti relativi alle azioni integrate che il modello propone, valide per affrontare alcune urgenti sfide che la contemporaneità pone. Le riflessioni conclusive riguardano il contributo che i progetti di cohousing possono fornire alle attuali e future sfide urbane.