Descrizione
La Corte costituzionale corregge la «riforma Frattini» su dirigenza pubblica e spoils system Precisazioni della Cassazione sulla valutazione equitativa del danno da dequalificazione Interessante sentenza del Tribunale di Catania in un caso di illegittima apposizione del termine a contratto con la P.A.La mobilità volontaria nell'ambito della pubblica amministrazione dà luogo a una cessione di contratto
Paola M. è stata assunta il 3 novembre 1997 dal Comune di Trenzano (BS) con contratto a tempo indeterminato,con la qualifica di istruttore direttivo contabile-economico;
passata, a seguito di mobilità volontaria, al comune di Roccabianca (PR), vi
ha preso servizio il 29 giugno 1998; si è assentata per malattia dal 20 luglio al 22 novembre
1998; l'11 dicembre successivo l'amministrazione comunale di Roccabianca le
ha sottoposto per la firma il contratto di lavoro, con patto di prova; alla sua richiesta di
tempo per riflettere, in relazione alla inserzione del patto di prova, è stata allontanata
dal servizio. Paola M. ha proposto davanti al Tribunale di Parma, giudice del lavoro, le
seguenti domande:
1. in via principale, accertata l'illegittimità del licenziamento, ordinare la immediata reintegra
con le mansioni di istruttore direttivo contabile economico; condannare il comune di
Roccabianca a pagare tutte le retribuzioni spettanti e il risarcimento del danno, conseguente
all'illegittimo demansionamento e all'illegittimo recesso, ivi compreso il danno alla
professionalità , alla dignità della persona e biologico;
2. in via subordinata, ritenuta la trilateralità del rapporto, ordinare al comune di Trenzano
la riammissione in servizio, con le mansioni attribuite da tale ente prima del trasferimento,
nonché condannarlo al risarcimento del danno.
Il giudice adito ha respinto la domanda. Egli ha ritenuto che la delibera di assunzione abbia
il valore di un atto di nomina; che il rapporto di lavoro deve essere costituito in forma
scritta ad substantiam; che, non avendo Paola M. sottoscritto il contratto di assunzione
con l'amministrazione di Roccabianca, il rapporto vada qualificato come rapporto di fatto,
disciplinato dall'art. 36, comma 8, d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, e, per gli enti locali, dall'art.
5 legge 3 del 1979; che dall'art. 2126 cod. civ. non deriva il diritto alla prosecuzione
del rapporto. La sentenza è stata confermata dalla Corte d'Appello di Bologna con sentenza
23 ottobre/28 novembre 2003 n. 362. Il giudice d'appello ha preliminarmente qualificato
la mobilità volontaria come passaggio diretto che consente la costituzione, senza
soluzione di continuità , di un nuovo e diverso rapporto di lavoro con altra amministrazione
pubblica, senza l'espletamento di una nuova procedura concorsuale; esso ' secondo
la Corte ' comporta la estinzione del rapporto originario con l'amministrazione cedente.
Paola M. ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione impugnata per violazione
di legge.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso. La mobilità volontaria nel settore pubblico, prevista
dall'art. 33 d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29 ' ha osservato la Corte ' è soggetta a vincoli
quanto a conservazione dell'anzianità , della qualifica, del trattamento economico; la
dottrina amministrativa, già sotto la vigenza del d.lgs. 29/1993, aveva qualificato in maniera
pressoché unanime tale fenomeno, denominato nel testo legislativo passaggio diretto,
come modificazione meramente soggettiva del rapporto, con continuità del suo
contenuto, e quindi come cessione di contratto; tale qualificazione sembra corretta alla
luce del tipo contrattuale delineato nell'art. 1406 cod. civ. e della giurisprudenza della
Suprema Corte. Infatti ' ha affermato la Corte ' la cessione del contratto, ammissibile anche
per il contratto di lavoro, comporta il trasferimento soggettivo del complesso unitario
di diritti e obblighi derivanti dal contratto, lasciando immutati gli elementi oggettivi
essenziali; tale qualificazione riceve conforto dall'art. 16 legge 28 novembre 2005 n. 246
il quale, nel modificare l'art. 30 d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, pur mantenendo la rubrica
di «passaggio diretto», nel testo della norma parla testualmente di «cessione di contratto
». Trattandosi di cessione di contratto ' ha concluso la Corte ' ne deriva l'illegittimità
della pretesa, da parte del Comune di Roccabianca, della stipulazione di un nuovo contratto
di assunzione e di un nuovo patto di prova; da ciò consegue altresà l'illegittimità
del licenziamento per mancata sottoscrizione del patto di prova.
Il dirigente non apicale ingiustamente licenziato ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro
Ermanno L., dipendente del Consorzio agrario della Lucania e Taranto, società cooperativa a r.l.,con la qualifica di «dirigente addetto», è stato licenziato in tronco nel
maggio del 2001 con l'addebito di avere dato al commissario liquidatore del Consorzio
provinciale di Taranto informazioni non veritiere e tali da danneggiare il Consorzio regionale.
Egli ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Taranto sostenendo che
l'addebito rivoltogli era privo di fondamento e chiedendo, in applicazione della legge n.
604 del 1966 e dell'art. 18 Stat. lav., l'annullamento del provvedimento, la reintegrazione
nel posto di lavoro e il risarcimento del danno. In proposito egli ha fatto presente di avere
diritto alla tutela reintegratoria in quanto non era un dirigente apicale. Il Consorzio si è
difeso sostenendo che Ermanno L. si era reso gravemente inadempiente ai suoi doveri e
che comunque, egli non aveva diritto all'applicazione dell'art. 18 Stat. lav., essendo un dirigente.
Il Tribunale ha annullato il licenziamento, ha ordinato la reintegrazione del dirigente
nel posto di lavoro e ha condannato il Consorzio al risarcimento del danno. La decisione
è stata confermata dalla Corte d'Appello di Lecce che ha ritenuto veritiere e comunque
non lesive degli interessi del Consorzio regionale le informazioni date da Ermanno L.
al liquidatore del Consorzio di Taranto, la cui azienda era stata rilevata dal Consorzio regionale,
in ordine alla mancanza di alcuni documenti e dati contabili. La Corte ha inoltre
osservato che le risultanze istruttorie inducevano a ritenere che il sig. Ermanno L. non aveva
mai svolto funzioni di dirigente apicale, in grado di incidere con autonome decisioni
sull'attività dell'azienda o su un ramo particolare di questa, ma aveva sempre svolto compiti
limitati in relazione ai quali era stato sottoposto alle direttive di altro dipendente che
non ricopriva neppure la qualifica di dirigente. Non rilevava in senso contrario il fatto che
il dipendente fosse addetto al settore assicurativo (gestione polizze assicurative e riscossione
dei premi) trattandosi di attività il cui compimento non veniva a incidere su aspetti
rilevanti della gestione del consorzio e che poteva essere affidata a qualsiasi impiegato esperto
nel settore. In definitiva, secondo la Corte, l'appellato, non avendo svolto in concreto
funzioni di tipo dirigenziale di vertice, era soggetto alla disciplina vincolistica quanto
alle modalità di estinzione del rapporto. Il Consorzio regionale ha proposto ricorso per
cassazione censurando la decisione della Corte di Lecce per vizi di motivazione e violazione
di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, richiamando la sua giurisprudenza secondo cui la
tutela recata dall'art. 18 Stat. lav. è esclusa soltanto per il dirigente cd. apicale, che, come
alter ego dell'imprenditore, sia preposto alla direzione dell'intera organizzazione aziendale,
ovvero a una branca o settore autonomo di essa, e sia investito di attribuzioni che,
per la loro ampiezza e per i poteri di iniziativa e di discrezionalità che comportano, gli consentano,
sia pure nell'osservanza delle direttive programmatiche del datore di lavoro, di
imprimere un indirizzo e un orientamento al governo complessivo dell'azienda, assumendo
la corrispondente responsabilità ad alto livello (cd. dirigente apicale); da questa figura
si differenzia quella dell'impiegato con funzioni direttive, che è preposto a un singolo
ramo di servizio, ufficio o reparto e che svolge la sua attività sotto il controllo dell'imprenditore
o di un dirigente, con poteri di iniziativa circoscritti e con corrispondente limitazione
di responsabilità (cd. pseudo-dirigente). L'accertamento in concreto della sussistenza
delle condizioni necessarie per l'inquadramento del funzionario nell'una o nell'altra
categoria ' ha affermato la Corte ' costituisce apprezzamento di fatto riservato al giudice
di merito e censurabile in sede legittimità soltanto per vizi di motivazione; il licenziamento
ad nutum, a prescindere dalla sussistenza di una giusta causa o da un giustificato
motivo, è applicabile solo al dirigente apicale, mentre il licenziamento dello pseudo-dirigente
è soggetto alle norme ordinarie.
La Corte d'Appello ' ha osservato la Cassazione ' ha adeguatamente motivato, con riferimento
alle risultanze istruttorie, l'accertamento sia della posizione non apicale detenuta
dal dirigente, che dell'infondatezza degli addebiti mossigli.
L'affissione del codice disciplinare è necessaria per l'individuazione delle sanzioni da applicare per le mancanze disciplinari
Alfonso D., dipendente della Spa Freeair Helicopters con mansioni di comandante a bordo di elicotteri,è stato sottoposto a procedimento disciplinare e licenziato
con l'addebito di avere rifiutato l'esibizione del libretto di volo all'azienda datrice lavoro.
Egli ha chiesto al Tribunale di Torino la dichiarazione di illegittimità del licenziamento,
con ordine di reintegrazione nel posto di lavoro e risarcimento del danno, sostenendo
che l'azienda non aveva adempiuto all'obbligo, previsto dall'art. 7 Stat. lav., di affiggere,
nei locali della base cui egli era addetto, il «codice disciplinare» recante l'indicazione delle
infrazioni e delle relative sanzioni. L'azienda si è difesa sostenendo, tra l'altro, che l'infrazione
attribuita al dipendente consisteva in una violazione di norme di legge ed era
manifestamente contraria all'etica comune, in quanto l'obbligo di esibizione del libretto
di volo è stabilito per ragioni di sicurezza. Il Tribunale ha ravvisato la denunciata violazione
dell'art. 7 Stat. lav. e pertanto ha annullato il licenziamento disponendo la reintegrazione
del comandante nel posto di lavoro, condannando l'azienda al risarcimento del
danno. La Corte d'Appello di Torino ha rigettato l'impugnazione proposta dall'azienda
osservando che, pur volendo ritenere mancanza grave quella di rifiutare l'esibizione del
libretto di volo al datore di lavoro, la relativa sanzione (peraltro la più grave) non poteva
che essere applicata nel rispetto delle norme procedimentali e pertanto doveva risultare
preventivamente pubblicizzata mediante affissione. L'azienda ha proposto ricorso per
cassazione, censurando la decisione della Corte d'Appello per vizi di motivazione e violazione
di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La motivazione della decisione impugnata ' ha
affermato la Cassazione ' è corretta, atteso che la norma disciplinare quasi mai «crea» l'illecito,
ma sicuramente determina il collegamento della sanzione al fatto ed è volta a circoscrivere,
a tutela del lavoratore, il campo dell'inadempimento sanzionabile.
La legge n. 428 del 1990 non consente di escludere per i dirigenti gli effetti del trasferimento di azienda
Questo caso è già stato preso in esame in q. Riv. n. 1/2007, p. 7, ma vale la pena soffermarcisi nuovamente.La cessione di un'azienda deve essere preceduta, in base alla
legge n. 428 del 20 dicembre 1990, dall'informazione e consultazione delle rappresentanze
sindacali aziendali nonché dei sindacati di categoria che hanno stipulato il contratto
collettivo applicato nelle imprese interessate al trasferimento. In caso di azienda in crisi la
legge prevede che nel corso della consultazione possa essere raggiunto un accordo che
escluda dal trasferimento una parte del personale. Nel maggio del 1997 la Srl Innse Macchine
Utensili, in amministrazione controllata, ha ceduto alla Innse Berardi Spa la sua azienda
e il relativo personale eccezion fatta per i dirigenti, che, in base a un accordo tra
l'azienda e le rappresentanze sindacali aziendali, sono rimasti esclusi dal trasferimento e
sono stati licenziati. Giovanni Z., uno dei dirigenti licenziati, ha chiesto al Tribunale di Brescia
di dichiarare l'illegittimità della sua esclusione dal trasferimento dell'azienda e pertanto
il suo diritto di continuare a lavorare con la cessionaria Innse Berardi Spa. Sia il Tribunale
che la Corte di Appello di Brescia hanno ritenuto la domanda priva di fondamento
affermando la validità dell'accordo raggiunto con le rappresentanze sindacali e l'inesistenza
di un obbligo di convocazione, per trattative, dei sindacati dei dirigenti. Giovanni
Z. ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Appello di
Brescia per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso. I dirigenti ' ha osservato la Corte ' hanno nell'ordinamento
del diritto del lavoro, in quello previdenziale e in quello sindacale uno status
avente per molti aspetti chiare note di diversificazione rispetto a quello degli altri dipendenti;
si deve perciò concludere per l'inapplicabilità dell'art. 47 legge 29 dicembre 1990 n.
428 ai dirigenti, ai quali di conseguenza va applicato l'art. 2112, primo comma, cod. civ.,
secondo cui, in caso di trasferimento di azienda il rapporto di lavoro continua con l'acquirente
e il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano. Accertato che il recesso era stato
disposto dalla società cedente a Giovanni Z. dopo che si era perfezionata la cessione
dell'azienda alla Innse Berardi Spa ' ha affermato la Corte ' il rapporto di lavoro del predetto
dirigente doveva ritenersi proseguito con la cessionaria, non potendo avere alcuna
efficacia il licenziamento intimato da soggetto che non era più titolare del rapporto. La Suprema
Corte ha cassato la sentenza impugnata e ha rinviato la causa, per nuovo esame,
alla Corte d'Appello di Milano per la quale ha stabilito il seguente principio di diritto:
«In caso di trasferimento di azienda in stato di insolvenza, non si applica nei confronti dei dirigenti
la disposizione dettata dall'art. 47, quinto comma, legge 29 dicembre 1990 n. 428
che, nell'ipotesi di raggiungimento di un accordo di cui al primo comma del medesimo articolo,
deroga all'art. 2112 cod. civ.».
La comunicazione di apertura del procedimento disciplinare deve consistere nella contestazione di specifici addebiti
Gioacchino S., dipendente della Spa Polifarma ha ricevuto dall'azienda, nel settembre del 1994 una letterache, dopo aver ricostruito le difficoltà verificate nel rapporto
di lavoro, concludeva: «A questo punto non vogliamo trovare alcuna conseguenza,
ma solo verificare che Ella sia tuttora inserito nell'organigramma e risulti adempiente alle
sue obbligazioni». Il lavoratore non ha risposto ed è stato licenziato per ragioni disciplinari.
Egli si è rivolto al giudice del lavoro di Roma sostenendo l'illegittimità del licenziamento
per violazione, tra l'altro, dell'art. 7 Stat. lav. che esclude l'applicabilità di provvedimenti
disciplinari ove il lavoratore non abbia ricevuto preventivamente la contestazione
in forma scritta degli addebiti e non sia stato posto nelle condizioni di difendersi, pertanto
ha chiesto la condanna dell'azienda alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento
del danno in base all'art. 18 Stat. lav. Il giudice, pur riconoscendo l'illegittimità del
licenziamento per violazione dell'art. 7 Stat. lav., ha rigettato la domanda in quanto ha ritenuto
non provato, da parte del lavoratore, il requisito numerico per l'applicabilità dell'art.
18 Stat. lav.; vale a dire che l'azienda avesse, al momento del licenziamento, oltre
quindici dipendenti. La Corte d'Appello di Roma ha escluso che la lettera inviata dall'azienda
al lavoratore nel settembre 1994 costituisse la contestazione di addebito prevista
dall'art. 7 Stat. lav. e ha dichiarato pertanto l'illegittimità del licenziamento; essa ha però
applicato la legge n. 604 del 1966, condannando l'azienda alla riassunzione del lavoratore
ovvero in difetto al pagamento di un'indennità pari a dieci mensilità . La Corte ha escluso
l'applicabilità dell'art. 18 Stat. lav. rilevando che il lavoratore non aveva offerto la prova
del numero dei dipendenti. Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione censurando
la decisione della Corte d'Appello per avere escluso l'applicabilità dell'art. 18 Stat. lav.
L'azienda ha proposto ricorso incidentale sostenendo l'erroneità della dichiarazione di illegittimità
del licenziamento per violazione dell'art. 7 Stat. lav., in quanto essa aveva proceduto
alla contestazione dell'addebito con la lettera del settembre 1994.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso del lavoratore, richiamando la sentenza delle Sezioni
Unite n. 141 del 10 gennaio 2006, secondo cui il lavoratore licenziato non ha l'onere
di provare che il numero dei dipendenti dell'azienda sia superiore a quindici. La Cassazione
ha inoltre rigettato il ricorso incidentale proposto dalla Polifarma, osservando che
dall'esame della lettera aziendale del settembre 1994, la Corte d'Appello ha tratto, del tutto
ragionevolmente, il convincimento che con essa non si contestava alcunché al lavoratore,
ma si chiedeva solo di svolgere una relazione su uno dei punti controversi nei rapporti
tra le parti, senza formulare alcun invito formale a Gioacchino S., ex art. 7 Stat. lav.,
a discolparsi da specifiche contestazioni. La previa contestazione dell'addebito, necessaria
in funzione dei licenziamenti qualificabili come disciplinari ' ha affermato la Suprema
Corte ' ha lo scopo di consentire al lavoratore l'immediata difesa e deve per ciò stesso rivestire
il carattere della specificità , che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie
ed essenziali per individuare, nella sua materialità , il fatto o i fatti nei quali il datore
di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari; il requisito della specificità della contestazione
costituisce oggetto di un'indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità ,
salva la verifica di logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice di merito.
L'anticipo del tfr avuto per ristrutturare un immobile ma destinato all'acquisto di una casa non giustifica il licenziamento
Armida G. dipendente della Spa Cassa di Risparmio di Rieti ha ottenuto dalla datrice di lavoro un'anticipazione sul Tfr di lire 39 milioni per la ristrutturazione di un immobile.Dopo qualche tempo l'azienda l'ha sottoposta a procedimento disciplinare
con l'addebito di non avere eseguito i lavori di ristrutturazione e di avere quindi
destinato l'anticipazione a finalità diverse da quelle dichiarate. La lavoratrice si è difesa
sostenendo che, essendo stata trasferita a Roma, ella aveva utilizzato la somma per l'acquisto
di un altro immobile. La banca l'ha licenziata con motivazione riferita al venire meno
del rapporto fiduciario. La lavoratrice ha chiesto al Tribunale di Roma di annullare il licenziamento,
contestando l'addebito di violazione delle regole di correttezza e buona fede.
Il Tribunale ha rigettato la domanda. La Corte di Appello di Roma ha accolto l'impugnazione
proposta dalla lavoratrice contro la sentenza di primo grado, osservando che i
fatti attribuiti alla lavoratrice erano estranei all'esecuzione del rapporto di lavoro e comunque
non potevano ritenersi di gravità tale da giustificare il licenziamento. La Corte ha
rilevato in particolare che la lavoratrice, destinando la somma ricevuta all'acquisto di un
altro alloggio anziché alla ristrutturazione dell'abitazione occupata al momento della richiesta,
aveva utilizzato l'anticipazione secondo le finalità della legge, senza occultare la
propria condotta, e non aveva causato alla banca alcun danno. L'azienda ha proposto ricorso
per cassazione, censurando la decisione della Corte di Roma per vizi di motivazione
e violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La corrispondenza, o non corrispondenza, della
specifica utilizzazione di somme (erogate dal datore di lavoro al lavoratore a titolo di
anticipazione del Tfr e poi di mutuo) alla finalità dell'erogazione ' ha affermato la Corte
' è fatto estraneo all'esecuzione degli obblighi del lavoratore; la non corrispondenza
con la finalità dell'erogazione non costituisce di per sé inadempimento d'un obbligo del
lavoratore; il rapporto di lavoro è solo un «titolo» per la concessione del mutuo al dipendente;
l'adempimento del relativo obbligo non si inserisce, di per sé, nel rapporto
stesso e il relativo inadempimento ha proprie dirette sanzioni. Questa oggettiva estraneità
' ha osservato la Corte ' non esclude un riflesso che il comportamento possa assumere
sul piano del generale rapporto di fiducia che è al fondo del contratto; resta tuttavia
necessario che l'inadempimento sia valutato tenendo conto dell'accentuata tutela
del lavoratore rispetto alla regola generale della non scarsa importanza, prevista dall'art.
1455 cod. civ., sicché l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata
solamente in presenza d'un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali,
ovvero d'un comportamento tale che non consenta la prosecuzione neppure provvisoria
del rapporto di lavoro. Nel caso in esame ' ha osservato la Corte ' il giudice del
merito ha ritenuto che i fatti addebitati, e sul piano oggettivo e su quello soggettivo,
non integrino un comportamento di gravità tale da giustificare il recesso per giusta causa,
motivando questa valutazione con riferimento a vari elementi: l'assenza di storno o
illecito utilizzo delle somme ricevute, la scarsa rilevanza del mutamento della causale
da ristrutturazione ad acquisto (che resta nell'ambito della «ratio della legge»), l'assenza
di danno aziendale, l'assenza di elemento speculativo, l'assenza di prove d'un
occultamento del comportamento. Questi rilievi ' ha concluso la Cassazione ' costituiscono
ben adeguata motivazione del giudizio espresso.
Il giudice italiano ha giurisdizione sulle controversie patrimoniali promosse contro le ambasciate straniere dai loro dipendenti
Elisabetta M. ha lavorato alle dipendenze dell'ambasciata dello Stato degli Emirati Uniti dal 1° maggio 1991 al 31 agosto 1997con rapporto regolato dalla «Disciplina
del rapporto di lavoro di dipendenti delle ambasciate, consolati, delegazioni, istituti
culturali e organismi internazionali in Italia». Le mansioni della lavoratrice consistevano
nell'espletamento di pratiche amministrative dell'ambasciata; ossia aveva
compiti di dattilografia di lettere in lingua italiana, di compilazione delle note-verbali al
ministero degli Esteri italiano per pratiche amministrative riguardo i permessi di soggiorno
per il personale di ambasciata e consolato; di invio di note-circolari al ministero
per questioni amministrative; teneva i contatti con i fornitori dell'ambasciata, compilando
ricevute contabili in italiano per gli stessi; si occupava delle pratiche contabili relative
alla richiesta e all'acquisto di carburante per automezzi di diplomatici e dell'ambasciata;
curava la spedizione della posta in uscita. L'orario ufficiale di ambasciata era
dalle 9:00 alle 15:00; l'orario d'ingresso era tassativo (con foglio di presenza da firmare),
mentre quello d'uscita era flessibile, nel senso che i dipendenti rimanevano a disposizione
ben oltre le 15:00. Di fatto la ricorrente osservava l'orario dalle 9:00 alle
17:00 per cinque giorni la settimana, lavorando anche nelle festività infrasettimanali e
talvolta anche di sabato. Ella si è rivolta al Tribunale di Roma, sostenendo di avere percepito
una retribuzione insufficiente e non proporzionata alla qualità e quantità del lavoro
svolto e di non avere ricevuto le mensilità aggiuntive, gli scatti di anzianità e il trattamento
di fine rapporto. Pertanto la lavoratrice ha chiesto la condanna dell'ambasciata
al pagamento della somma di euro 51.000,00 circa. L'ambasciata ha eccepito il difetto
di giurisdizione del giudice italiano, contestando comunque il fondamento della domanda.
Sia il Tribunale che la Corte d'Appello di Roma hanno ritenuto il ricorso inammissibile
per difetto di giurisdizione del giudice italiano. La lavoratrice ha proposto ricorso
per cassazione, censurando la decisione della Corte d'Appello di Roma per vizi di
motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso, affermando la giurisdizione del giudice italiano
e rinviando la causa, per nuovo esame, ad altra sezione della Corte d'Appello di Roma.
La Corte ha richiamato la sua giurisprudenza secondo cui in caso di controversie inerenti
al rapporto di lavoro del personale italiano ' come di quello straniero ' operante
alle dipendenze di consolati di Stati stranieri in Italia, sussiste il difetto di giurisdizione
del giudice italiano, quando la pronuncia a tale giudice richiesta comporti interferenza
sull'organizzazione dell'ufficio consolare, sicché deve essere esclusa la giurisdizione
del giudice italiano per la domanda volta alla reintegrazione nel posto di lavoro a seguito
di impugnativa di licenziamento, investendo detta pretesa in via diretta i poteri organizzativi-
sovrani dell'ente straniero; invece ' come ha poi puntualizzato Cass. Ss.Uu.
27 novembre 2002 n. 16830 ' l'immunità giurisdizionale dell'ambasciatore di Stato estero,
ai sensi dell'art. 31 della Convezione di Vienna 18 aprile 1961 sulle relazioni diplomatiche
(resa esecutiva con la legge 9 agosto 1967, n. 804), non è invocabile con riferimento
a controversia di pagamento di somme per differenze retributive relative all'espletamento
di mansioni di autista presso l'ambasciata. Quindi, ha osservato la Corte,
la giurisprudenza di legittimità ha da tempo abbandonato la tesi dell'«immunità diffusa
» per accogliere, invece, il principio dell'«immunità ristretta o relativa», che risponde,
ormai, al diritto internazionale consuetudinario; pertanto, da una parte si è affermato
che, al fine dell'esenzione dalla giurisdizione del giudice nazionale è richiesto che
l'esame e l'indagine sulla fondatezza della domanda dei lavoratori non comporti apprezzamenti,
indagini o statuizioni che possano incidere o interferire sugli atti o comportamenti
dello Stato estero che siano espressione dei suoi poteri sovrani di autorganizzazione,
vigendo in tali casi il principio generale par in parem non habet iurisdictionem;
d'altra parte però può affermarsi che l'esenzione degli Stati stranieri dalla giurisdizione
civile è limitata agli atti jure imperii (a quegli atti, cioè, attraverso i quali si esplica
l'esercizio delle funzioni pubbliche statali) e non si estende invece agli atti iure
gestionis o iure privatorum. Analoga distinzione ' ha affermato la Corte ' va operata anche
con riguardo ai rapporti di lavoro: occorre tener conto non solo della natura delle
mansioni in concreto esercitate dal lavoratore, ma anche del tipo di domanda proposta,
con la conseguenza di assegnare rilevanza decisiva ' ai fini dell'attribuzione della giurisdizione
al giudice italiano ' alla natura meramente patrimoniale della pretesa esercitata
in giudizio dal lavoratore dipendente di uno Stato estero. In base a questo criterio
' ha concluso la Corte ' l'esenzione dello Stato straniero dalla giurisdizione nazionale
viene meno, quindi, non solo nel caso di controversie relative a rapporti di lavoro aventi
per oggetto l'esecuzione di attività meramente ausiliarie delle funzioni istituzionali
degli enti convenuti, ma anche nel caso di controversie promosse dai dipendenti allorquando
la decisione richiesta al giudice italiano, attenendo ad aspetti solo patrimoniali,
sia inidonea a incidere o a interferire sulle funzioni dello Stato sovrano; nella specie
le mansioni della ricorrente (impiegatizie d'ordine) non toccano l'esercizio di poteri sovrani
dello Stato estero e inoltre la domanda azionata in giudizio ha contenuto esclusivamente
patrimoniale, avendo a oggetto la pretesa di differenze retributive; talché deve
affermarsi la giurisdizione del giudice italiano.
Può essere licenziato il lavoratore che durante una riunione si scontri fisicamente con un collega e apostrofi il direttore
Bruno D., dipendente della Spa Cirio con mansioni di impiegato di concetto, durante un incontro sindacale con i rappresentanti dell'aziendasul funzionamento dello spaccio interno ha avuto uno scontro fisico con un collega e ha rivolto
al direttore del personale l'epiteto «delinquente». Per questo comportamento l'azienda, dopo averlo
sottoposto a procedimento disciplinare, lo ha licenziato. Egli ha chiesto al pretore di Napoli
di annullare il licenziamento in quanto sanzione eccessiva, sostenendo, tra l'altro, che
con l'epiteto rivolto al dirigente egli aveva voluto deplorare la mancata eliminazione, da
parte dell'azienda, di alcune disfunzioni nella gestione dello spaccio aziendale. Il pretore
ha annullato il licenziamento per sproporzione della sanzione. Questa decisione è stata
integralmente riformata dalla Corte d'Appello di Napoli che ha ravvisato, nel comportamento
addebitato al lavoratore, un'infrazione di gravità tale da giustificare il licenziamento.
Bruno D. ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte d'Appello
di Napoli per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La Corte di Napoli ' ha osservato la Cassazione '
ha esaminato accuratamente i comportamenti contestati (diverbio litigioso con passaggio
a vie di fatto nei confronti di un collega e uso di una frase irriguardosa nei confronti del responsabile
del personale), valutandoli globalmente e tenendo conto anche del contesto
nel quale gli stessi sono stati posti in essere; in particolare la Corte d'Appello, nel valutare
la gravità dell'offesa al dirigente, ha osservato, da un lato, che l'episodio è avvenuto in
presenza di numerosi impiegati, dall'altro, che l'incidenza offensiva dell'epiteto deve essere
valutata in relazione alle regole che disciplinano lo speciale vincolo esistente fra il lavoratore
subordinato e il suo superiore gerarchico. Da tale motivazione ' ha affermato la
Cassazione ' si evince che le conclusioni della Corte di merito in ordine alla sussistenza
della giusta causa di licenziamento sono state adottate in corretta applicazione dell'art.
2119 cod. civ., che disciplina la suddetta fattispecie, come pure dell'art. 2106 cod. civ., che
pone il principio della proporzionalità della sanzione.
Il dirigente pubblico illegittimamente licenziato deve essere reintegrato nel posto di lavoro
Pieremilio A. avendo superato, risultando tra i vincitori, un corso concorso di formazione dirigenziale promosso dalla Scuola superiore di pubblica amministrazione,ha sottoscritto il 29 aprile 2002 con l'Agenzia delle dogane un contratto individuale
di lavoro con inquadramento quale dirigente di seconda fascia ai sensi del Ccnl
comparto ministeri area dirigenti e con l'incarico di assistente di direzione presso la direzione
regionale del Piemonte e della Valle d'Aosta dell'Agenzia delle dogane, a far tempo
dal 2 maggio 2002; nel contratto, della durata di due anni, era previsto un periodo di prova
di sei mesi di effettivo servizio che andava contrattualmente a scadere il 12 novembre
2002. Tuttavia il 28 marzo 2003 gli è stata comunicata la risoluzione del rapporto di lavoro
per mancato superamento del periodo di prova. Il dirigente ha chiesto al Tribunale di
Torino di dichiarare illegittima la risoluzione del rapporto perché intervenuta dopo la scadenza
del periodo di prova, e di condannare la convenuta alla reintegrazione nel posto di
lavoro, al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento a quella della
reintegra e al risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell'illegittimo licenziamento.
Con sentenza in data 9 giugno 2004 il giudice ha accolto il ricorso, condannando l'Agenzia
delle dogane alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno in
misura pari alle retribuzioni globali di fatto maturate dal giorno del licenziamento a quello
dell'effettiva reintegra. Il Tribunale, ritenuta la illegittimità del licenziamento, ha rilevato
in particolare che le conseguenze che ne scaturivano erano quelle di cui all'art. 51 del
d.lgs. n. 165 del 2001 che prevede espressamente l'applicazione della legge n. 300/70 alle
pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti. La Corte di Appello
di Torino, con sentenza depositata il 26 aprile 2005, ha respinto il primo motivo di appello
dell'Agenzia delle dogane, volto a far dichiarare tempestivo il recesso, e, in accoglimento
del secondo motivo, ha respinto la domanda di reintegra nel posto di lavoro e ridotto
la condanna al risarcimento del danno al pagamento delle retribuzioni dal giorno del
licenziamento a quello di scadenza del contratto. Il giudice d'appello ha basato la propria
decisione di accoglimento sulla equiparazione di disciplina, anche negli aspetti risolutori,
tra dirigente dell'impiego privato e dirigente pubblico contrattualizzato; anzi ha ritenuto
questa soluzione tanto più obbligata, per il rilievo che nella dirigenza pubblica l'incarico
dirigenziale è per espressa disposizione di legge di carattere temporaneo. La Corte di merito
ha affermato altresà che anche gli effetti dell'illegittimità del licenziamento dovevano
essere necessariamente circoscritti alla durata biennale dell'incarico dirigenziale, essendo
il rapporto regolato dal contratto di diritto privato stipulato il 29 aprile 2002 che prevedeva
appunto che l'incarico avesse durata biennale, per cui il risarcimento del danno
doveva essere circoscritto al pagamento delle retribuzioni dal giorno del licenziamento a
quello della scadenza del contratto. Pieremilio A. ha proposto ricorso per cassazione, censurando
la decisione della Corte di Torino per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso. La Cassazione ha ritenuto che la Corte di Torino sia
incorsa in errore allorché ha affermato che la norma di cui all'art. 51, comma 2, d.lgs. 30
marzo 2001, n. 165 («La Legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni e integrazioni,
si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti
») vada applicata negli stessi termini in cui essa si applica ai dipendenti privati, e
quindi con l'esclusione dei dipendenti aventi qualifica dirigenziale (stante l'esclusione operata
dall'art. 10 legge 15 luglio 1966, n. 604). L'affermazione dell'identità tra la disciplina
del rapporto di lavoro dei dirigenti privati e quella dei dirigenti pubblici contrattualizzati
' ha osservato la Suprema Corte ' si pone in contrasto con la vigente normativa di legge.
Nel settore pubblico l'accesso alla qualifica di dirigente avviene tramite concorso per
esami (art. 28, comma 1, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, già art. 28 d.lgs. 3 febbraio 1993, n.
29), il quale accerta l'idoneità alla qualifica dirigenziale. Dal superamento del concorso
sorge il diritto al trattamento economico stabilito dal contratto collettivo (art. 28, comma
5, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165). La giurisdizione sulla procedura concorsuale compete al
giudice amministrativo (art. 63, comma 4, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165). Una volta costituito
il rapporto secondo le regole del diritto pubblico ' ha affermato la Corte ' esso viene
consegnato ai poteri di diritto privato del datore di lavoro pubblico, e al controllo giurisdizionale
del giudice ordinario, quale giudice del lavoro; nella fase privatistica di gestione
del rapporto avviene l'attribuzione dell'incarico della funzione dirigenziale, a norma
dell'art. 19 d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, tenendo conto delle attitudini e delle capacità
professionali del singolo dirigente in rapporto a ciascun incarico; ma il dirigente pubblico
può rimanere senza incarico, senza per questo perdere il suo status di pubblico dipendente
con qualifica dirigenziale, ad esempio prima dell'assegnazione del primo incarico,
negli intervalli tra un incarico e l'altro, o perché collocato in disponibilità . Ancora più differenziate,
rispetto alla disciplina privatistica ' ha osservato la Corte ' sono le disposizioni
legislative in tema di recesso; Mentre nel rapporto dirigenziale privato vale il principio
della recedibilità ad nutum, a norma dell'art. 2118 cod. civ., di cui costituisce una delle residue
ipotesi di vigenza (e salva la disciplina contrattuale risarcitoria in caso di recesso ingiustificato),
nel pubblico impiego il mancato raggiungimento degli obiettivi non comporta
la possibilità di risoluzione ad nutum del rapporto, ma tre sbocchi graduati a seconda
della gravità del caso, tutti causali: l'impossibilità di rinnovo dell'incarico, la revoca dello
stesso, il recesso dal rapporto di lavoro (art. 21, comma 5, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, ora
comma 1, come sostituito dall'art. 2 legge 15 luglio 2002, n. 145). In tale quadro normativo
' ha affermato la Corte ' la norma cruciale risulta essere dunque l'art. 21 d.lgs. 30
marzo 2001, n. 165 che nel testo originario cosà disponeva: «Nel caso di grave inosservanza
delle direttive impartite dall'organo competente o di ripetuta valutazione negativa,
ai sensi del comma 1, il dirigente, previa contestazione e contraddittorio, può essere escluso
dal conferimento di ulteriori incarichi di livello dirigenziale corrispondente a quello
revocato, per un periodo non inferiore a due anni; nei casi di maggiore gravità l'amministrazione
può recedere dal rapporto di lavoro, secondo le disposizioni del codice civile e
dei contratti collettivi». Il testo modificato dalla legge 15 luglio 2002, n. 145 recita: «Il mancato
raggiungimento degli obiettivi, ovvero l'inosservanza delle direttive imputabili al dirigente,
valutati con i sistemi e le garanzie di cui all'articolo 5 del decreto legislativo 30 luglio
1999, n. 286, comportano, ferma restando l'eventuale responsabilità disciplinare secondo
la disciplina contenuta nel contratto collettivo, l'impossibilità di rinnovo dello stesso
incarico dirigenziale. In relazione alla gravità dei casi, l'amministrazione può, inoltre,
revocare l'incarico collocando il dirigente a disposizione dei ruoli di cui all'articolo 23, ovvero
recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo». Solo
le mancanze più gravi, anche attinenti ad ambiti extra lavorativi (art. 27 medesimo Ccnl)
' ha osservato la Corte ' possono portare a recedere dal rapporto di lavoro e, con esso,
dall'incarico sovrastante; la disciplina del recesso dal rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici
non è dunque quella dell'art. 2118 cod. civ., propria dei dirigenti privati, ma segue i
canoni del rapporto di lavoro dei dipendenti privati con qualifica impiegatizia, in coerenza
con la tradizionale stabilità del rapporto di pubblico impiego. La sentenza impugnata '
ha affermato la Corte ' risulta corretta nella parte in cui, ritenuta l'illegittimità del recesso,
ha condannato l'Agenzia delle dogane al risarcimento del danno costituito dalla perdita
delle retribuzioni fino alla scadenza biennale dell'incarico dirigenziale, ma è affetta da
violazione di legge nella parte in cui ha ritenuto che la scadenza dell'incarico comporti altresà
la risoluzione del rapporto fondamentale stabile sottostante; deve infatti ritenersi
che le conseguenze di un recesso illegittimo dal rapporto fondamentale, privo di giusta
causa o di giustificato motivo soggettivo, siano di carattere reintegratorio.
La Suprema Corte ha cosà motivato, sul punto, la sua decisione:
1) Interpretazione dell'art. 51 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. Tale norma apre il titolo IV dedicato
alla disciplina del rapporto di lavoro di tutti i pubblici dipendenti di cui agli artt. 2,
commi 2 e 3, e 3, comma 1, che comprendono anche i dirigenti, per i quali il titolo II disciplina
gli aspetti relativi all'organizzazione degli uffici. Nell'ambito di queste norme organizzative
è previsto che il pubblico dipendente che abbia determinati requisiti riassumibili
nella sua attitudine dirigenziale, possa essere investito di un incarico dirigenziale, il quale
accede al rapporto di lavoro di cui è titolare e si connota, quanto ai diritti e agli obblighi
delle parti, secondo le previsioni contenute negli artt. 15 e ss. È previsto anche che entro
certi limiti l'incarico dirigenziale possa essere affidato a soggetti estranei alla pubblica
amministrazione e a questa non legati da alcun rapporto di lavoro. La disposizione che segue
immediatamente al comma 2, secondo cui la legge 20 maggio 1970, n. 300 si applica
alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti, pone una deroga
ai limiti di applicabilità della legge stessa stabiliti dall'art. 35 dello Statuto, in relazione
alle dimensioni occupazionali (15 dipendenti) delle imprese industriali e commerciali,
per le quali la legge 20 maggio 1970, n. 300 era stata originariamente pensata. L'unicità
di tale deroga ha indotto la sentenza impugnata a ritenere che la legge 20 maggio 1970,
n. 300 si applichi con i limiti categoriali di cui all'art. 10 legge 15 luglio 1966, n. 604, e cioè
con esclusione dei dirigenti. Ma poiché il rapporto fondamentale stabile dei dipendenti
pubblici con attitudine dirigenziale è assimilato dall'art. 21 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 a
quello della categoria impiegatizia, e poiché l'art. 10 legge 15 luglio 1966, n. 604 si riferisce
ai dirigenti privati, il Collegio ritiene che l'estensione operata dall'art. 51, comma 2, si
applica anche al rapporto fondamentale di lavoro dei dirigenti pubblici.
2) Alla luce di questa interpretazione dell'art. 51 deve essere interpretato il contratto collettivo,
cui l'art. 21, nuovo testo, rinvia per la disciplina della casistica e degli effetti del recesso
illegittimo. L'art. 28 del Ccnl dispone che il licenziamento è nullo in tutti i casi in cui
tale conseguenza è prevista dal codice civile e dalle leggi sul rapporto di lavoro dei dirigenti
di impresa, e in particolare se è dovuto a ragioni politiche, religiose, sindacali, ovvero
riguardante la diversità di sesso, di razza o di lingua; o se è intimato, senza giusta
causa, durante i periodi di sospensione previsti dall'art. 2110 cod. civ., salvo quanto previsto
dagli artt. 20, comma 3 (sulla risoluzione del rapporto per inidoneità per fisica permanente)
e 21, comma 2 (sulla malattia riconosciuta dipendente da causa di servizio). In
tutti i casi di licenziamento discriminatorio dovuto alle ragioni di cui alla lettera a) del comma
1 si applica l'art. 18 della legge 300 del 1970. Da tale ultima previsione la sentenza impugnata
ha dedotto, con argomento a contrario, che nei licenziamenti non discriminatori
non si applica l'art. 18. Si deve notare che lo stesso contratto collettivo, sull'art. 27, prevede
che l'annullamento delle procedure di accertamento della responsabilità fa venire
meno il recesso; lo stesso contratto prevede pertanto la continuità del rapporto per vizi
formali circa l'accertamento delle responsabilità .
3) Nessun argomento a contrario può trarsi dal rinvio operato, in precedenza dall'art. 21,
secondo comma, al codice civile, e ora dal contratto collettivo (art. 27) alla disciplina dell'art.
2119, perché tale norma, nel suo valore precettivo attuale, esprime soltanto l'esigenza
che esista una giusta causa di recesso, mentre gli effetti che essa faceva discendere
dalla mancanza di giusta causa (mero pagamento del preavviso) erano collegati alla disciplina
dell'art. 2118, allora di portata generale, che sappiamo non essere applicabile ai
dirigenti pubblici.
4) Il contratto collettivo della dirigenza pubblica applicabile al ricorrente non predispone
una tutela risarcitoria per il recesso privo di giusta causa o giustificato motivo, a differenza
dei contratti collettivi dei dirigenti industriali, che disciplinano le conseguenze risarcitorie
del licenziamento ingiustificato.
La Suprema Corte ha rinviato la causa, per nuovo esame, alla Corte d'Appello di Genova, enunciando
per il giudice del rinvio, il seguente principio di diritto: «La illegittimità del recesso
dal rapporto di lavoro di una pubblica amministrazione con un dirigente della stessa
comporta l'applicazione al rapporto fondamentale sottostante della disciplina dell'art. 18
legge 20 maggio 1970, n. 300, a norma dell'art. 51, comma 2, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165,
mentre all'incarico dirigenziale si applica la disciplina del rapporto a termine sua propria».
La sentenza di reintegrazione deve essere eseguita anche se durante il processo il lavoratore abbia compiuto 65 anni
Antonio D., dipendente della Spa Poste italiane è stato licenziato il 1° febbraio 1995 per raggiungimento della massima anzianità contributiva.Il pretore di Roma, al quale egli si è rivolto, con sentenza del 13 gennaio 1998 ha annullato
il licenziamento ordinando la sua reintegrazione nel posto di lavoro. Il 3 febbraio 1998 il lavoratore
ha comunicato all'azienda l'opzione, in base all'art. 18 Stat. lav., per il pagamento di quindici
mensilità della retribuzione, in luogo della reintegra. Poste italiane, rilevato che nel frattempo
il lavoratore aveva compiuto il 65° anno di età , ha dichiarato di ritenere inapplicabile
la reintegra perché il rapporto si era risolto ipso iure e per tale ragione ha rifiutato il
pagamento dell'indennizzo. Antonio D. ha allora ottenuto un decreto ingiuntivo, contro il
quale Poste italiane ha proposto opposizione. Il Tribunale di Roma ha respinto l'opposizione.
In seguito a impugnazione proposta dall'azienda, la Corte di Appello di Roma ha
confermato la sentenza di primo grado, cosà motivando:
' anche se il lavoratore ultrasessantenne non fruisce della tutela reale, una volta emessa
sentenza di reintegrazione questa va eseguita;
' la questione inerente al compimento del 65° anno di età da parte del lavoratore doveva
essere proposta prima dell'emissione di tale sentenza;
' non può essere contestata la sussistenza del provvedimento di reintegra, laddove Antonio
D. doveva, se del caso, essere nuovamente licenziato;
' finché la sentenza di reintegra non venga riformata, il lavoratore può validamente optare
per il versamento delle quindici mensilità ;
' il rapporto di lavoro cosà ricostituito si estingue non già al momento dell'esercizio della
facoltà di opzione, ma al momento del relativo pagamento;
' la misura dell'indennizzo deve essere rapportata al momento dell'esercizio dell'opzione
e quindi deve corrispondere alla retribuzione globale di fatto, con esclusione delle voci eventuali
o meramente indennitarie, ma comprese le corresponsioni continuative quali il
premio di produttività e l'indennità di funzione.
L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte d'Appello
per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. Dinanzi a un giudicato il quale accerta il diritto del
lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro ' ha affermato la Corte ' non può il datore
di lavoro unilateralmente ritenere che il rapporto di lavoro si sia risolto per altra causa,
dovendo l'eventuale circostanza impeditiva alla reintegrazione essere fatta valere nel
giudizio in cui la reintegrazione è stata disposta. Poiché per giurisprudenza costante, il
Ccnl di settore, nella parte in cui prevede l'automatica risoluzione del rapporto di lavoro
al compimento del 65° anno di età del lavoratore, deve ritenersi nullo per violazione di
norme imperative, la Corte di Appello ha esattamente ritenuto che la società convenuta avrebbe,
se del caso, dovuto procedere a nuovo licenziamento del lavoratore e non eccepire
la presunta estinzione de iure del rapporto.
Per ottenere il trattamento di maternità non è indispensabile che la lavoratrice produca le previste certificazioni
Maria T., dipendente della Ditta La Scaurese, dopo avere avuto un bambino, è stata licenziata al termine del periodo di astensione obbligatoria per maternità .Ella ha chiesto al pretore di Napoli di dichiarare la nullità del licenziamento per violazione
della normativa posta a tutela delle lavoratrici madri, di ordinare la sua reintegrazione
nel posto di lavoro e di condannare l'azienda al pagamento della retribuzione dovuta
dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione. L'azienda si è difesa sostenendo,
tra l'altro, che la dipendente non aveva presentato né il certificato di gravidanza
né quello di assistenza al parto, né quello di esistenza in vita del bambino. Il pretore ha
dichiarato nullo il licenziamento e ha ordinato la reintegrazione di Maria T. nel posto di
lavoro, ma non ha riconosciuto il suo diritto a percepire la retribuzione maturata nel periodo
dal licenziamento alla reintegrazione. In grado di appello il Tribunale di Napoli, oltre
a confermare la nullità del licenziamento e l'ordine di reintegrazione, ha condannato
l'azienda al pagamento delle retribuzioni per il periodo successivo al licenziamento, osservando
che dagli atti processuali risultava l'effettiva conoscenza, da parte del datore
di lavoro, della gravidanza e della maternità . L'azienda ha proposto ricorso per cassazione
censurando la decisione del Tribunale di Napoli, tra l'altro, per non avere attribuito
rilevanza alla mancata presentazione da parte della lavoratrice della documentazione
relativa alla maternità .
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. È vero ' ha osservato la Corte ' che la lavoratrice
è tenuta a presentare al datore di lavoro e all'istituto assicurativo il certificato di gravidanza,
e che, come prevede l'art. 4, terzo comma, del d.P.R. 25 novembre 1976, n. 1026,
«la mancata prestazione di lavoro durante il tempo intercorrente tra la data di cessazione
effettiva del rapporto di lavoro e la presentazione non dà luogo a retribuzione», ma questo
non significa che la presentazione del certificato sia indispensabile, anche soltanto al
fine limitato del diritto alla retribuzione, e che non possa essere sostituita, a tutti gli effetti,
dalla conoscenza effettiva, ottenuta anche altrimenti, che il datore di lavoro abbia avuto
dello stato di gravidanza della lavoratrice. Quello che rileva, e che condiziona il diritto
alla retribuzione ' ha affermato la Corte ' , è, in realtà , il fatto sostanziale della conoscenza
da parte del datore di lavoro dello stato di gravidanza della dipendente, non il fatto
formale dell'invio del certificato medico. Altrettanto vale, del resto, per quel che riguarda
il parto e l'esistenza in vita del bambino: quello che rileva ai fini del diritto alle prestazioni
collegate a questi eventi è la conoscenza effettiva che ne abbia il datore, non l'invio
delle relative certificazioni mediche. Nel caso in esame ' ha precisato la Corte ' occorreva
accertare perciò se in concreto la società La Scaurese avesse avuto conoscenza della gravidanza
della signora Maria T.; il Tribunale di Napoli ha compiuto questa indagine ed è
giunto alla conclusione che era «indiscussa la preventiva conoscenza» da parte della società
«dello stato di gravidanza della dipendente, chiaramente evincibile dalla documentazione
versata in atti, relativa alla corrispondenza intercorsa tra le parti». Di conseguenza
la dipendente aveva diritto alla retribuzione intera, indipendentemente dal fatto formale
della trasmissione, o meno, del certificato medico.
Il licenziamento del dirigente pubblico deve essere preceduto dalla richiesta di parere del comitato dei garanti
Giovanni T. dipendente del Comune di Monselice con la qualifica dirigenziale di comandante della polizia municipaleè stato sottoposto a procedimento disciplinare,
nel luglio del 2000, con una serie di addebiti: assenza di collaborazione con il segretario
generale e con i colleghi; avere creato un clima di tensione nell'ambito della polizia municipale;
avere assegnato incarichi dequalificanti ai suoi «nemici»; mancata conclusione di
procedimenti; mancata organizzazione dei servizi; avere avuto comportamenti antitetici
alla posizione dell'amministrazione in occasione di riunioni con partecipazione di terzi estranei
all'ente; uso indebito della divisa; cancellazione indebita di files; percezione di indennità
non spettanti; ottenimento di un'illegittima autorizzazione a svolgere la professione
di avvocato. Egli ha chiesto al Tribunale di Padova di dichiarare il licenziamento nullo
e inefficace, e di condannare il Comune a reintegrarlo nel posto di lavoro e a risarcirgli
il danno, sia perché il provvedimento era stato intimato senza la preventiva richiesta di parere
al Comitato dei garanti previsto dall'art. 21 del decreto legislativo n. 29 del 1993, sia
perché gli addebiti mossigli dovevano ritenersi tardivi e infondati. Il Comune di Monselice
si è difeso sostenendo, tra l'altro, che la richiesta di parere preventivo del Comitato dei garanti
era prevista solo in caso di «responsabilità dirigenziale», mentre a Giovanni T. era
stata attribuita una responsabilità disciplinare. Il Tribunale di Padova ha rigettato il ricorso
in quanto ha ritenuto legittimo il licenziamento. La Corte d'Appello di Venezia ha parzialmente
riformato la sentenza di primo grado in quanto ha ritenuto che gli addebiti fossero
in parte tardivi, perché riferiti a fatti verificatisi nel 1998 e nel 1999, e nelle residua
parte non provati. La Corte ha peraltro escluso che dovesse essere richiesto il parere preventivo
del Comitato dei garanti, trattandosi di licenziamento disciplinare e ha negato al
dirigente la tutela reintegratoria limitandosi a condannare il Comune al pagamento di
un'indennità supplementare di 18 mensilità , per l'illegittimità del licenziamento. Il dirigente
ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza della Corte d'Appello di
Venezia per avere escluso la necessità della richiesta di parere preventivo al Comitato dei
garanti e per avere negato la reintegrazione nel posto di lavoro.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso. Quando il mancato raggiungimento degli obiettivi
dipende da negligenza o inerzia del dirigente ' ha osservato la Corte ' la responsabilità
dirigenziale è tutt'uno con quella disciplinare o per mancanze; se il dirigente comunale assume
posizioni in contrasto con le direttive dell'assessore o del sindaco, ovvero se conduce
il servizio in modo da disorganizzarlo, la responsabilità dirigenziale coincide con
quella disciplinare. Nel caso in esame ' ha rilevato la Corte ' gran parte delle mancanze
contestate al dirigente possono essere ricondotte o alla categoria del «mancato raggiungimento
degli obiettivi», come ad esempio la disorganizzazione dell'ufficio o la mancata
organizzazione dei servizi, ovvero a quella della «inosservanza grave» di direttive impartite
dagli organi superiori, come l'assunzione di comportamenti antitetici a quelli espressi
dall'amministrazione in caso di conferenze con enti terzi. Non è sufficiente, al riguardo,
che il Comune abbia contestato gli addebiti come mancanze disciplinari per escludere il
parere del Comitato dei garanti; viceversa, il parere è necessario in quanto gli addebiti corrispondano
alle fattispecie previste dalla legge; altrimenti opinando ' ha osservato la Corte
' sarebbe sufficiente che un Comune contesti una serie di addebiti qualificandoli come
«disciplinari» per eludere la necessità del parere del Comitato dei garanti. Pertanto ' ha
affermato la Corte ' deve ritenersi che in questo caso il parere del Comitato dei garanti
fosse necessario e che la conseguenza del mancato interpello del Comitato sia la nullità e
inefficacia del licenziamento; infatti il parere di tale organo è un indefettibile presupposto
per l'adozione del licenziamento del dirigente, in funzione di garanzia e a tutela del lavoratore
contro l'arbitrio e comunque la discrezionalità assoluta degli organi politici. Mancando
tale presupposto, il provvedimento di licenziamento risulta adottato in carenza di
potere, in mancanza di un presupposto di garanzia del lavoratore e quindi non semplicemente
annullabile, ma nullo e inefficace, tale da comportare la prosecuzione de iure del
rapporto di lavoro dirigenziale. Pertanto ' ha affermato la Corte ' il dirigente ha diritto a
essere reintegrato in servizio e a percepire la retribuzione maturata a far tempo dalla data
del licenziamento.
Legge Finanziaria 2007
Il testo della legge Finanziaria 2007 si compone di un unico articolo formato da 1364 commi.Di seguito se ne riportano i più significativi in materia di lavoro, previdenza sociale
e occupazione. Sulle procedure di regolarizzazione e stabilizzazione si rinvia comunque
a quanto osservato nel precedente numero da A. Piccinini (in q. Riv. n. 1/2007, p. 27 ss.)
Il comma 469 prevede che il Governo, con uno o più regolamenti, su proposta del ministro
del Lavoro, di concerto con il ministro dell'Economia, e sentite le organizzazioni sindacali,
proceda al riordino, alla semplificazione e alla razionalizzazione degli organismi preposti alla
definzione dei ricorsi in materia pensionistica, al fine di ridurre il complesso della spesa
di funzionamento delle amministrazioni pubbliche e di incrementarne l'efficienza.
Il comma 523 specifica che le limitazioni per gli anni 2008 e 2009, relative alle assunzioni
a tempo indeterminato, che interessano le amministrazioni pubbliche non si applicano per
le assunzioni di personale appartenente a categorie protette e a quelle connesse con la
professionalizzazione delle Forze armate. Per ciascun anno le amministrazioni pubbliche
potranno procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato nel limite di contingente
di personale complessivamente corrispondente a una spesa pari allo zero per cento
di quella relativa alle cessazioni avvenute nell'anno precedente.
Il comma 622 stabilisce che, dall'anno scolastico 2007/08, l'istruzione è obbligatoria per
almeno dieci anni, al fine di far conseguire, entro il diciottesimo anno di età , un titolo di studio
di scuola secondaria superiore o di una qualifica professionale di durata almeno triennale.
«L'età per l'accesso al lavoro è conseguentemente elevata da quindici a sedici anni».
Il comma 749, modificando l'articolo 23 del decreto legislativo n. 252/2005, anticipa al 1°
gennaio 2007 gli effetti della riforma della previdenza complementare, ciò significa che entro
il 30 giugno 2007 i lavoratori potranno destinare o meno il trattamento di fine rapporto
maturando ai Fondi pensione complementare. Per i lavoratori assunti dopo il 1° gennaio
2007 tale scelta sarà da comunicare entro sei mesi dalla data di assunzione. Se entro tali
scadenze il lavoratore non presenta al proprio datore di lavoro gli appositi moduli predisposti
dal ministero del Lavoro con decreto del 30 gennaio 2007, scatta il silenzio-assenso. In
tal caso il datore verserà il Tfr, maturato nel corso dei sei mesi, alla forma pensionistica collettiva
prevista dagli accordi o dai contratti collettivi o ad altra forma collettiva individuata
con un diverso accordo aziendale. Qualora non esista alcuna di queste forme pensionistiche,
il datore di lavoro dovrà versare il Tfr alla forma pensionistica complementare istituita presso
l'Inps. Dal 1° gennaio 2007 le imprese con almeno cinquanta dipendenti dovranno versare
mensilmente al «Fondo per l'erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei
trattamenti di fine rapporto di cui all'articolo 2120 del Codice civile», gestito per conto dello
Stato dall'Inps su un apposito conto corrente aperto presso la Tesoreria dello Stato, il Tfr che
i dipendenti hanno deciso di non versare ad alcuna forma pensionistica complementare.
Per gli artigiani e i commercianti iscritti alle gestioni autonome dell'Inps l'aliquota contributiva
è del 19,5 per cento per l'anno 2007 e del 20 per cento a partire dall'anno 2008 (comma
768). Per gli iscritti all'assicurazione generale obbligatoria, l'aliquota a carico del lavoratore
viene aumentata dello 0,30 per cento, fermo restando che l'aliquota complessiva dovuta
per l'Ivs non può comunque superare il 33 per cento (comma 769).
Il comma 770 eleva, a partire dal 1° gennaio 2007, al 23 per cento l'aliquota contributiva
pensionistica per gli iscritti alla Gestione separata dell'Inps (art. 2 comma 26 della legge n.
335/1995) che non risultino iscritti presso altre gestioni pensionistiche obbligatorie. Mentre
l'aliquota per gli iscritti alla g estione separata dell'Inps e ad altre gestioni pensionistiche
obbligatorie è pari al 16 per cento. Secondo il comma 772 tali incrementi contributivi
non possono determinare una riduzione del compenso netto percepito dal collaboratore
superiore a un terzo dell'aumento dell'aliquota. Inoltre «i compensi corrisposti ai lavoratori
a progetto devono essere proporzionati alla quantità e qualità del lavoro eseguito e devono
tenere conto dei compensi collettivi nazionali di riferimento».
Il comma 773 stabilisce che la contribuzione dovuta dai datori di lavoro per gli apprendisti
è, a decorrere dal 1° gennaio 2007, pari al 10 per cento della retribuzione imponibile a fini
previdenziali. Per i datori di lavoro che hanno alle proprie dipendenze meno di dieci dipendenti
tale percentuale si riduce all'8,5 per cento per il primo anno di contratto di apprendistato,
e al 7 per cento per il secondo anno. Vengono inoltre estese agli apprendisti le disposizioni
in materia di indennità giornaliera di malattia.
Il comma 774 stabilisce che, per le pensioni di reversibilità decorrenti dall'entrata in vigore
della legge n. 335/1995, l'indennità integrativa speciale, già in godimento del dante causa,
sia riconosciuta nella misura percentuale fissata per il trattamento di reversibilità .
Il comma 788 introduce per i lavoratori a progetto, e categorie assimilate, iscritti alla gestione
separata dell'inps e «non titolari di pensione e non iscritti ad altre forme previdenziali
obbligatorie, è corrisposta un'indennità giornaliera di malattia a carico dell'Inps entro
il limite massimo di giorni pari a un sesto della durata complessiva del rapporto di lavoro e
comunque non inferiore a 20 giorni nell'arco dell'anno solare, con esclusione degli eventi
morbosi di durata inferiore a quattro giorni». La prestazione è pari al 50 per cento dell'importo
corrisposto a titolo di indennità per degenza ospedaliera previsto per i lavoratori iscritti
alla gestione separata. In caso di degenza ospedaliera sono indennizzabili massimo
180 giorni per anno solare. Ai lavoratori a progetto in tal caso sono applicabili le disposizioni
in materia di fasce di reperibilità e di controllo dello stato di malattia previste dall'art.
5 del decreto legge n. 463/1983. Ai lavoratori a progetto che abbiano titolo all'indennità di
maternità , è corrisposto un trattamento economico per congedo parentale, per un periodo
di tre mesi entro il primo anno di vita del bambino, pari al 30 per cento del reddito preso a
riferimento per la corresponsione dell'indennità di maternità .
Il comma 911 che sostituisce il comma 2 dell'articolo 29 del d.lgs. n. 276/2003 introduce
l'importante principio secondo il quale il committente, l'appaltatore e ogni eventuale subappaltatore
sono obbligati in solido a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e
i contributi previdenziali dovuti. Tale obbligo sussiste entro il limite di due anni dal termine
dell'appalto.
Il comma 910 modificando l'art. 7 del d.lgs. n. 626/1994, stabilisce che il datore di lavoro,
non solo in caso di affidamento dei lavori a imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi all'interno
della propria azienda, o di una singola unità produttiva della stessa deve verificare
l'idoneità tecnico-professionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi, ma
anche nell'ambito dell'intero ciclo produttivo dell'azienda medesima. Inoltre si specifica
che «l'imprenditore committente risponde in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno
degli eventuali ulteriori subappaltatori, per tutti i danni per i quali il lavoratore, dipendente
dall'appaltatore o dal subappaltatore, non risulti indennizzato a opera dell'Istituto
nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro».
Il comma 1160 istituisce l'accordo di solidarietà tra generazioni con il quale è prevista, su
base volontaria, la trasformazione a tempo parziale dei contratti di lavoro di dipendenti che
abbiano compiuto 55 anni di età e contemporaneamente l'assunzione con contratto di lavoro
a tempo parziale, per un orario di lavoro pari a quello ridotto, di giovani inoccupati o
disoccupati di età inferiore ai 25 anni, o ai 29 anni se in possesso di diploma di laurea. Un
decreto del ministro del Lavoro, di concerto con il ministro dell'Economia e delle finanze,
stabilirà le modalità della stipula e i contenuti di tali accordi (comma 1161).
Nel settore agricolo, l'omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate
dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti configura violazione penale
ai sensi della legge n. 638/1983 (comma 1172).
Dal 1° luglio 2007 tutti i tipi di benefici sia normativi che contributivi, previsti dalla normativa
in materia di lavoro e legislazione sociale sono subordinati al possesso, da parte di datori
di lavoro, del documento unico di regolarità contributiva (Durc), fermo restando gli altri
obblighi di legge e il rispetto degli accordi e contratti collettivi nazionali, nonché di quelli
regionali, territoriali o aziendali stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro
e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (comma
1175). Un apposito decreto del ministro del Lavoro definirà le modalità del rilascio, i contenuti
analitici del Durc, nonché le tipologie di pregresse irregolarità di natura previdenziale
e in materia di tutela delle condizioni di lavoro da non considerare ostative al rilascio del
documento (comma 1176).
Il comma 1177 quintuplica gli importi delle sanzioni amministrative previste per la violazione
di norme in materia di lavoro, legislazione sociale, previdenza e tutela della sicurezza e
salute nei luoghi di lavoro che sono entrate in vigore prima del 1° gennaio 1999. Il comma
1178 precisa altresà che l'omessa istituzione e l'omessa esibizione dei libri matricola e di paga
sono punite con la sanzione amministrativa da euro 4.000 a euro 12.000.
Il comma 1180, sostituendo il comma 2 dell'articolo 9-bis del decreto-legge n. 510/1996,
stabilisce che la comunicazione di instaurazione del lavoro subordinato e autonomo, sia
nella forma coordinata e continuativa che nella forma di collaborazione a progetto, di socio
lavoratore di cooperativa e di associato in partecipazione con apporto lavorativo, deve essere
fatta sia dai datori di lavoro privati che pubblici al centro per l'impiego competente nel
cui ambito territoriale è ubicata la sede di lavoro entro il giorno antecedente a quello di instaurazione
del rapporto, mediante documentazione avente data certa di trasmissione. La
comunicazione deve essere effettuata anche per i tirocini di formazione e di orientamento
e a ogni altro tipo di esperienza lavorativa a essi assimilata. Le Agenzie del lavoro sono invece
tenute a comunicare, l'assunzione, la proroga e la cessazione dei lavoratori temporanei
assunti nel mese precedente, entro il ventesimo giorno del mese successivo alla data
di assunzione al centro per l'impiego competente nel cui ambito territoriale è ubicata la sede
operativa. È previsto che solo in caso di urgenza, per motivi produttivi, la comunicazione
dettagliata possa essere effettuata entro cinque giorni dall'instaurazione del rapporto.
Entro il giorno antecedente deve comunque essere effettuata una comunicazione al centro
per l'impiego competente, avente data certa di trasmissione, contenete la data di inizio della
prestazione, le generalità del lavoratore e del datore di lavoro. Il comma 1183 estende
l'obbligo di comunicazione ai centri per l'impiego dei trasferimenti e dei distacchi dei lavoratori,
della modifica della ragione sociale del datore di lavoro e al trasferimento di azienda
o di ramo di essa. Non è più necessaria la comunicazione all'autorità di pubblica sicurezza
da parte di chi assume un lavoratore extracomunitario (comma 1181). Nel momento
in cui sarà effettivamente operativo il sistema di trasmissione dei dati fra i diversi enti, le
comunicazioni di assunzione, cessazione, trasformazione e proroga dei rapporti di lavoro
subordinato, autonomo, associato, dei tirocini e di alte esperienze professionali, inviate al
centro per l'impiego competente, saranno valide ai fini dell'assolvimento degli obblighi di
comunicazione nei confronti delle Direzioni regionali e provinciali del lavoro, dell'Inps, dell'Inail
o di altre forme previdenziali sostitutive o esclusive, nonché della Prefettura ' Ufficio
territoriale del Governo (comma 1184).
Secondo il comma 1190 il ministro del Lavoro, di concerto con il ministro dell'Economia e
delle finanze, può disporre, entro il 31 dicembre 2007, concessioni dei trattamenti di cassa
integrazione guadagni straordinaria, di mobilità e di disoccupazione speciale, nel caso di
programmi di gestione di crisi occupazionali ovvero miranti al reimpiego di lavoratori coinvolti
in detti programmi definiti in specifici accordi in sede governativa intervenuti entro il
15 giugno 2007 che recepiscono le intese già stipulate in sede istituzionale territoriale e inviate
al ministero del Lavoro entro il 20 maggio 2007.
Il comma 1191 prevede che sia un decreto del ministro dei Trasporti, di concerto con il ministro
del Lavoro, a stabilire i criteri secondo i quali erogare, per l'anno 2007, ai lavoratori
portuali che prestano lavoro temporaneo nei porti, una indennità pari al trattamento massimo
di integrazione salariale straordinaria, nonché la relativa contribuzione figurativa e gli
assegni al nucleo familiare.
(Gazzetta Ufficiale del 27 dicembre 2006 n. 299, suppl. ordinario n. 244/l)
Supervisione enti pensionistici
In attuazione della direttiva 2003/41/Ce il decreto in oggetto integra il decreto legislativo n. 252/2005,che disciplina le forme pensionistiche complementari, definendo
che: a) un decreto del ministero dell'Economia e delle finanze, di concerto con il ministero
del Lavoro e sentita la Covip, individuerà le attività nelle quali i fondi pensione possono
investire le loro disponibilità , fissando eventualmente limiti massimi di investimento
in un'ottica prudenziale; b) sono i fondi pensione a definire gli obiettivi e i criteri della
propria politica di investimento e a dare informativa agli iscritti delle scelte di investimento,
secondo modalità definite dalla Covip; c) il patrimonio del fondo pensione deve essere
investito in misura predominante sui mercati regolamentati; d) «i fondi pensione sono
autorizzati dalla Covip all'erogazione diretta delle rendite, avuto riguardo all'adeguatezza
dei mezzi patrimoniali costituiti e alla dimensione del fondo per numero di iscritti»; e)
chiunque eserciti l'attività di forma pensionistica senza le previste autorizzazioni è punito
con la reclusione da sei mesi a tre anni e con sanzioni pecuniarie.
(Gazzetta Ufficiale n. 70 del 24 marzo 2007)
Le hostess impiegate per i congressi possono essere ritenute lavoratrici subordinate
La Spa Palacongressi ha utilizzato, negli anni dal 1995 al 2000, numerose collaboratrici con funzioni di hostess per i congressi, in base a contratti di lavoro autonomo.L'Inps ha chiesto all'azienda il pagamento dei contributi previdenziali nella
misura prevista per i rapporti di lavoro subordinato. L'opposizione proposta dalla società
è stata rigettata dal Tribunale di Trento, la cui decisione è stata confermata dalla locale
Corte d'Appello, che ha rilevato, tra l'altro, l'assoggettamento delle lavoratrici alle disposizioni
di una coordinatrice. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la
sentenza della Corte di Trento per non avere, fra l'altro, considerato che le prestazioni richieste
alle hostess erano di durata molto breve e che le relative modalità erano concordate
di volta in volta.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La Corte di Appello ' ha osservato la Cassazione
' ha motivato adeguatamente la sua decisione rilevando: «Che i lavoratori erano inquadrati
all'interno dell'organizzazione lavorativa della società appellante ricevendo indicazioni
specifiche sulle mansioni da svolgere impartite dall'azienda, nel briefing successivo
alla stipula del contratto», con la conseguenza che soltanto in questa riunione (quando
l'impegno oramai era stato assunto, e non prima, quando il contratto non era stato stipulato),
«erano precisate le connotazioni essenziali operative della prestazione lavorativa»;
che le hostess erano tenute all'osservanza di queste prescrizioni per quanto riguarda l'orario
di lavoro e che per le eventuali violazioni erano sottoposte a controlli e a rimproveri
da parte della coordinatrice; che le modalità di pagamento del compenso «uguale per tutti
e rapportato alle ore lavorate», non erano incompatibili «con l'esistenza tra le parti di un
rapporto di lavoro subordinato, apparendo la retribuzione rapportata a un comune indice
di riferimento e cioè le ore delle prestazioni effettuate». Tutti questi elementi ' ha affermato
la Suprema Corte ' sono stati coordinati logicamente in un quadro unitario secondo
cui «i dipendenti paiono inseriti all'interno dell'organizzazione aziendale del datore di lavoro,
a cui favore mettevano a disposizione le proprie energie lavorative, in assenza di alcun
rischio e sempre sotto la direzione e la vigilanza da parte datoriale, espressa in direttive
operative impartite nel briefing e affidati, per il controllo, alla coordinatrice, che esercitava
il potere gerarchico e disciplinare».
Il pericolo di «burn out» per il personale sanitario non è sufficiente a giustificare la chiusura di un reparto psichiatrico
Giovanni I., responsabile del Presidio ospedaliero di Latina, è stato sottoposto, nel 1989, a procedimento disciplinare,con l'addebito di aver chiuso per 24 ore il reparto
psichiatrico, con sospensione delle accettazioni e dismissione dei pazienti, motivando
la sua decisione con riferimento alle condizioni di sovraffaticamento del personale
medico e paramedico, da lui ritenuto a rischio di «burn out» (esaurimento da stress cronico).
L'azienda non ha accolto le sue giustificazioni, riferite alle gravi carenze organizzative
del reparto, e lo ha licenziato. Il procedimento penale avviato nei suoi confronti per
interruzione di pubblico servizio è stato archiviato. Giovanni I. ha chiesto al Tribunale di
Latina l'annullamento del licenziamento e la reintegrazione nel posto di lavoro. Il Tribunale
ha accolto la domanda. La Corte d'Appello di Roma ha invece ritenuto legittimo il licenziamento,
osservando che nessun elemento consentiva di ritenere la sussistenza di una
situazione di affaticamento del personale cosà prolungata da divenire assolutamente
intollerabile; in ogni caso ' ha affermato la Corte ' anche di fronte al rischio di «burn out»
cui era esposto il personale medico e paramedico, il responsabile del Servizio avrebbe dovuto
adottare possibili misure alternative alla chiusura del reparto. Giovanni I. ha proposto
ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Roma per vizi di motivazione
e violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, in quanto ha ritenuto che la Corte d'Appello abbia
correttamente motivato la sua decisione affermando che sospendere le accettazioni,
dimettere i pazienti e chiudere il reparto, anche solo per 24 ore, rappresentava, tenuto
conto del tipo di servizio reso (a pazienti psichiatrici) un provvedimento estremo
che non trovava adeguata giustificazione nelle pur oggettive condizioni di difficoltà e di
disagio del personale.
La qualifica di dirigente dello stato si acquisisce solo dopo la stipula del contratto con l’amministrazione
Informazione e consultazione dei lavoratori
Il decreto, in attuazione della direttiva 2002/14/Ce, istituisce un quadro generale in materia di diritto all'informazionee alla consultazione dei lavoratori nelle imprese
situate in Italia che impiegano almeno cinquanta lavoratori. Tale limite numerico si verifica
sul numero medio ponderato mensile dei lavoratori subordinati impiegati negli ultimi
due anni, e i lavoratori «con contratto a tempo determinato sono computabili ove il contratto
abbia durata superiore ai nove mesi». Il decreto definisce «informazione» come «ogni
trasmissione di dati da parte del datore di lavoro ai rappresentanti dei lavoratori, finalizzata
alla conoscenza e all'esame di questioni attinenti alla attività di impresa» e come «consultazione
» «ogni forma di confronto, scambio di opinioni e dialogo tra rappresentanti dei
lavoratori e datore di lavoro su questioni attinenti alla attività di impresa». Le modalità , i
contenuti, le sedi e i tempi di informazione e consultazione dei lavoratori, ferme restando le
eventuali prassi più favorevoli, devono essere definiti dai contratti collettivi. L'informazione
e la consultazione devono riguardare: «a) l'andamento recente e quello prevedibile dell'attività
dell'impresa, nonché la sua situazione economica; b) la situazione, la struttura e l'andamento
prevedibile dell'occupazione nella impresa, nonché, in caso di rischio per i livelli
occupazionali, le relative misure di contrasto; c) le decisioni dell'impresa che siano suscettibili
di comportare rilevanti cambiamenti dell'organizzazione del lavoro, dei contratti di lavoro
». La consultazione deve avvenire in modo da permettere ai rappresentanti dei lavoratori
di incontrare il datore di lavoro e di ottenere risposte motivate, nonché di ricercare un
accordo sulle decisioni del datore di lavoro. Se per comprovate esigenze organizzative, tecniche
o produttive la comunicazione di informazioni può creare notevoli difficoltà al funzionamento
dell'impresa o da arrecarle danno, il datore di lavoro è esonerato dalla comunicazione
di informazioni ai rappresentati dei lavoratori e alla relativa consultazione. Il datore di
lavoro non è comunque obbligato a comunicare informazioni o a procedere a consultazioni
Il decreto stabilisce che le informazioni fornite dal datore di lavoro in via riservata, o qualificate
come tali, non possano essere rilevate né ai lavoratori né a terzi da parte dei rappresentanti
dei lavoratori e dagli esperti che eventualmente li assistono. Il divieto di rilevare le
informazioni permane fino a tre anni dopo la scadenza del mandato di rappresentante dei
lavoratori. Qualora il divieto non fosse rispettato si applicano i provvedimenti disciplinari
stabiliti dai contratti collettivi. Il decreto inizialmente si applica fino al 23 marzo 2007 solo
nei confronti delle imprese che impiegano almeno 150 dipendenti; dal 24 marzo 2007 al 23
marzo 2008 solo nei confronti delle imprese che impiegano almeno 100 dipendenti.
(Gazzetta Ufficiale n. 67 del 21 marzo 2007)
Le linee guida del Garante per posta elettronica e internet
Il Garante ha dettato ai datori di lavoro alcune misure per conformare alle disposizioni vigenti il trattamento di dati personalieffettuato per verificare il corretto utilizzo nel rapporto di lavoro della posta elettronica
e della rete internet. Il Garante ha preliminarmente
chiarito che se è indubbio che competa ai datori di lavoro assicurare la funzionalità
e il corretto impiego di tali mezzi da parte dei lavoratori, definendone le modalità
d'uso nell'organizzazione dell'attività lavorativa, occorre comunque tutelare i lavoratori interessati
poiché l'utilizzo di internet da parte dei lavoratori può infatti formare oggetto di analisi,
profilazione e integrale ricostruzione mediante elaborazione di log file della navigazione
web ottenuti, ad esempio, da un proxy server o da un altro strumento di registrazione
delle informazioni; anche i servizi di posta elettronica sono parimenti suscettibili (anche
attraverso la tenuta di log file di traffico e-mail e l'archiviazione di messaggi) di controlli che
possono giungere fino alla conoscenza da parte del datore di lavoro (titolare del trattamento)
del contenuto della corrispondenza. Il Garante ha particolarmente sottolineato che
in base al principio di correttezza, l'eventuale trattamento deve essere ispirato a un canone
di trasparenza. Grava quindi sul datore di lavoro l'onere di indicare in ogni caso, chiaramente
e in modo particolareggiato, quali siano le modalità di utilizzo degli strumenti messi
a disposizione ritenute corrette e se, in che misura e con quali modalità vengano effettuati
controlli. Ciò, tenendo conto della pertinente disciplina applicabile in tema di informazione,
concertazione e consultazione delle organizzazioni sindacali. Ad avviso del Garante a questi
fini può risultare opportuno adottare un disciplinare interno redatto in modo chiaro e
senza formule generiche, da pubblicizzare adeguatamente (verso i singoli lavoratori, nella
rete interna, mediante affissioni sui luoghi di lavoro con modalità analoghe a quelle previste
dall'art. 7 dello Statuto dei lavoratori, ecc.) e da sottoporre ad aggiornamento periodico.
Disciplinare in cui andrebbe specificato (in via esemplificativa): a) se determinati comportamenti
non sono tollerati rispetto alla «navigazione» in internet (ad es., il download di
software o di file musicali), oppure alla tenuta di file nella rete interna; b) in quale misura è
consentito utilizzare anche per ragioni personali servizi di posta elettronica o di rete, anche
solo da determinate postazioni di lavoro o caselle oppure ricorrendo a sistemi di webmail,
indicandone le modalità e l'arco temporale di utilizzo (ad es., fuori dall'orario di lavoro o durante
le pause, o consentendone un uso moderato anche nel tempo di lavoro); c) quali
informazioni sono memorizzate temporaneamente (ad es., le componenti di file di log eventualmente
registrati) e chi (anche all'esterno) vi può accedere legittimamente; d) se e
quali informazioni sono eventualmente conservate per un periodo più lungo, in forma centralizzata
o meno (anche per effetto di copie di back up, della gestione tecnica della rete o
di file di log ); e) se, e in quale misura, il datore di lavoro si riserva di effettuare controlli in
conformità alla legge, anche saltuari o occasionali, indicando le ragioni legittime ' specifiche
e non generiche ' per cui verrebbero effettuati (anche per verifiche sulla funzionalità e
sicurezza del sistema) e le relative modalità (precisando se, in caso di abusi singoli o reiterati,
vengono inoltrati preventivi avvisi collettivi o individuali ed effettuati controlli nominativi
o su singoli dispositivi e postazioni); f) quali conseguenze, anche di tipo disciplinare, il
datore di lavoro si riserva di trarre qualora constati che la posta elettronica e la rete internet
sono utilizzate indebitamente; g) le soluzioni prefigurate per garantire, con la cooperazione
del lavoratore, la continuità dell'attività lavorativa in caso di assenza del lavoratore
stesso (specie se programmata), con particolare riferimento all'attivazione di sistemi di risposta
automatica ai messaggi di posta elettronica ricevuti; h) se sono utilizzabili modalità
di uso personale di mezzi con pagamento o fatturazione a carico dell'interessato; i) quali
misure sono adottate per particolari realtà lavorative nelle quali debba essere rispettato l'eventuale
segreto professionale cui siano tenute specifiche figure professionali; l) le prescrizioni
interne sulla sicurezza dei dati e dei sistemi (art. 34 del Codice, nonché Allegato B),
in particolare regole 4, 9, 10 ). Inoltre, con riguardo a eventuali controlli, gli interessati hanno
infatti il diritto di essere informati preventivamente, e in modo chiaro, sui trattamenti di
dati che possono riguardarli. Le finalità da indicare possono essere connesse a specifiche
esigenze organizzative, produttive e di sicurezza del lavoro, quando comportano un trattamento
lecito di dati (art. 4, secondo comma, legge n. 300/1970 ); possono anche riguardare
l'esercizio di un diritto in sede giudiziaria. Devono essere tra l'altro indicate le principali
caratteristiche dei trattamenti, nonché il soggetto o l'unità organizzativa ai quali i lavoratori
possono rivolgersi per esercitare i propri diritti. Il datore di lavoro può riservarsi di controllare
(direttamente o attraverso la propria struttura) l'effettivo adempimento della prestazione
lavorativa e, se necessario, il corretto utilizzo degli strumenti di lavoro (cfr. artt.
2086, 2087 e 2104 cod. civ.). Nell'esercizio di tale prerogativa occorre però rispettare la libertà
e la dignità dei lavoratori, in particolare per ciò che attiene al divieto di installare «apparecchiature
per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori» (art. 4, primo
comma, legge n. 300/1970). Il trattamento di dati che ne consegue può risultare lecito a
condizione che rispetti le procedure di informazione e di consultazione di lavoratori e sindacati
in relazione all'introduzione o alla modifica di sistemi automatizzati per la raccolta e
l'utilizzazione dei dati, nonché in caso di introduzione o di modificazione di procedimenti
tecnici destinati a controllare i movimenti o la produttività dei lavoratori. In applicazione del
principio di necessità il datore di lavoro è chiamato a promuovere ogni opportuna misura,
organizzativa e tecnologica volta a prevenire il rischio di utilizzi impropri (da preferire rispetto
all'adozione di misure «repressive») e, comunque, a «minimizzare» l'uso di dati riferibili
ai lavoratori. Il datore di lavoro ha inoltre l'onere di adottare tutte le misure tecnologiche
volte a minimizzare l'uso di dati identificativi (cd. privacy enhancing technologies'
PETs). Le misure possono essere differenziate a seconda della tecnologia impiegata
(ad es., posta elettronica o navigazione in internet). Il datore di lavoro, per ridurre il rischio
di usi impropri della «navigazione» in internet (consistenti in attività non correlate alla prestazione
lavorativa quali la visione di siti non pertinenti, l'upload o il download di file, l'uso
di servizi di rete con finalità ludiche o estranee all'attività ), deve adottare opportune misure
che possono, cosà, prevenire controlli successivi sul lavoratore. Tali controlli, leciti o meno
a seconda dei casi, possono determinare il trattamento di informazioni personali, anche
non pertinenti o idonei a rivelare convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, opinioni
politiche, lo stato di salute o la vita sessuale. Il contenuto dei messaggi di posta elettronica
' come pure i dati esteriori delle comunicazioni e i file allegati ' riguardano forme di
corrispondenza assistite da garanzie di segretezza tutelate anche costituzionalmente, la cui
ratio risiede nel proteggere il nucleo essenziale della dignità umana e il pieno sviluppo della
personalità nelle formazioni sociali; un'ulteriore protezione deriva dalle norme penali a
tutela dell'inviolabilità dei segreti (artt. 2 e 15 Cost.; Corte cost. 17 luglio 1998, n. 281 e 11
marzo 1993, n. 81; art. 616, quarto comma, cod. pen.; art. 49 Codice dell'amministrazione
digitale). Tuttavia, con specifico riferimento all'impiego della posta elettronica nel contesto
lavorativo e in ragione della veste esteriore attribuita all'indirizzo di posta elettronica nei
singoli casi, può risultare dubbio se il lavoratore, in qualità di destinatario o mittente, utilizzi
la posta elettronica operando quale espressione dell'organizzazione datoriale o ne faccia
un uso personale pur operando in una struttura lavorativa. La mancata esplicitazione di
una policy al riguardo può determinare anche una legittima aspettativa del lavoratore, o di
terzi, di confidenzialità rispetto ad alcune forme di comunicazione. Tali incertezze si riverberano
sulla qualificazione, in termini di liceità , del comportamento del datore di lavoro che
intenda apprendere il contenuto di messaggi inviati all'indirizzo di posta elettronica usato
dal lavoratore (posta «in entrata») o di quelli inviati da quest'ultimo (posta «in uscita»). Ad
avviso del Garante è quindi particolarmente opportuno che si adottino accorgimenti anche
per prevenire eventuali trattamenti in violazione dei principi di pertinenza e non eccedenza.
Nell'effettuare controlli sull'uso degli strumenti elettronici deve essere evitata un'interferenza
ingiustificata sui diritti e sulle libertà fondamentali di lavoratori, come pure di soggetti
esterni che ricevono o inviano comunicazioni elettroniche di natura personale o privata. L'eventuale
controllo è lecito solo se sono rispettati i principi di pertinenza e non eccedenza.
Nel caso in cui un evento dannoso o una situazione di pericolo non sia stato impedito con
preventivi accorgimenti tecnici, il datore di lavoro può adottare eventuali misure che consentano
la verifica di comportamenti anomali. Deve essere per quanto possibile preferito
un controllo preliminare su dati aggregati, riferiti all'intera struttura lavorativa o a sue aree.
Il controllo anonimo può concludersi con un avviso generalizzato relativo a un rilevato utilizzo
anomalo degli strumenti aziendali e con l'invito ad attenersi scrupolosamente a compiti
assegnati e istruzioni impartite. L'avviso può essere circoscritto a dipendenti afferenti
all'area o settore in cui è stata rilevata l'anomalia. In assenza di successive anomalie non è
di regola giustificato effettuare controlli su base individuale. Va esclusa l'ammissibilità di
controlli prolungati, costanti o indiscriminati. I sistemi software devono essere programmati
e configurati in modo da cancellare periodicamente e automaticamente (attraverso
procedure di sovraregistrazione come, ad esempio, la cd. rotazione dei log file ) i dati personali
relativi agli accessi a internet e al traffico telematico, la cui conservazione non sia necessaria.
In assenza di particolari esigenze tecniche o di sicurezza, la conservazione temporanea
dei dati relativi all'uso degli strumenti elettronici deve essere giustificata da una finalità
specifica e comprovata e limitata al tempo necessario ' e predeterminato ' a raggiungerla
(v. art. 11, comma 1, lett. e), del Codice ).
Sulla base di queste considerazioni il Garante ha pertanto dettato le seguenti prescrizioni
vincolanti:
«1) prescrive ai datori di lavoro privati e pubblici, ai sensi dell'art. 154, comma 1, lett. c),
del Codice, di adottare la misura necessaria a garanzia degli interessati, nei termini di cui
in motivazione, riguardante l'onere di specificare le modalità di utilizzo della posta elettronica
e della rete internet da parte dei lavoratori (punto 3.1.), indicando chiaramente le
modalità di uso degli strumenti messi a disposizione e se, in che misura e con quali modalità
vengano effettuati controlli;
2) indica inoltre, ai medesimi datori di lavoro, le seguenti linee guida a garanzia degli interessati,
nei termini di cui in motivazione, per ciò che riguarda:
a) l'adozione e la pubblicizzazione di un disciplinare interno (punto 3.2.);
b) l'adozione di misure di tipo organizzativo (punto 5.2.) affinché, segnatamente:
' si proceda a un'attenta valutazione dell'impatto sui diritti dei lavoratori;
' si individui preventivamente (anche per tipologie) a quali lavoratori è accordato l'utilizzo
della posta elettronica e dell'accesso a internet;
' si individui quale ubicazione è riservata alle postazioni di lavoro per ridurre il rischio di
impieghi abusivi;
c) l'adozione di misure di tipo tecnologico, e segnatamente:
â?¢ I. rispetto alla «navigazione» in internet (punto 5.2., a):
' l'individuazione di categorie di siti considerati correlati o non correlati con la prestazione
lavorativa;
' la configurazione di sistemi o l'utilizzo di filtri che prevengano determinate operazioni;
' il trattamento di dati in forma anonima o tale da precludere l'immediata identificazione
degli utenti mediante opportune aggregazioni;
' l'eventuale conservazione di dati per il tempo strettamente limitato al perseguimento di
finalità organizzative, produttive e di sicurezza;
' la graduazione dei controlli (punto 6.1.);
â?¢ II. rispetto all'utilizzo della posta elettronica (punto 5.2., b):
' la messa a disposizione di indirizzi di posta elettronica condivisi tra più lavoratori, eventualmente
affiancandoli a quelli individuali;
' l'eventuale attribuzione al lavoratore di un diverso indirizzo destinato a uso privato;
' la messa a disposizione di ciascun lavoratore, con modalità di agevole esecuzione, di apposite
funzionalità di sistema che consentano di inviare automaticamente, in caso di assenze
programmate, messaggi di risposta che contengano le «coordinate» di altro soggetto
o altre utili modalità di contatto dell'istituzione presso la quale opera il lavoratore
assente;
' consentire che, qualora si debba conoscere il contenuto dei messaggi di posta elettronica
in caso di assenza improvvisa o prolungata e per improrogabili necessità legate all'attività
lavorativa, l'interessato sia messo in grado di delegare un altro lavoratore (fiduciario)
a verificare il contenuto di messaggi e a inoltrare al titolare del trattamento quelli ritenuti
rilevanti per lo svolgimento dell'attività lavorativa. Di tale attività dovrebbe essere redatto
apposito verbale e informato il lavoratore interessato alla prima occasione utile;
' l'inserzione nei messaggi di un avvertimento ai destinatari nel quale sia dichiarata l'eventuale
natura non personale del messaggio e sia specificato se le risposte potranno essere
conosciute nell'organizzazione di appartenenza del mittente;
' la graduazione dei controlli (punto 6.1.);
3) vieta ai datori di lavoro privati e pubblici, ai sensi dell'art. 154, comma 1, lett. d), del Codice,
di effettuare trattamenti di dati personali mediante sistemi hardware e software che
mirano al controllo a distanza di lavoratori (punto 4), svolti in particolare mediante:
a) la lettura e la registrazione sistematica dei messaggi di posta elettronica ovvero dei relativi
dati esteriori, al di là di quanto tecnicamente necessario per svolgere il servizio e-mail;
b) la riproduzione e l'eventuale memorizzazione sistematica delle pagine web visualizzate
dal lavoratore;
c) la lettura e la registrazione dei caratteri inseriti tramite la tastiera o analogo dispositivo;
d) l'analisi occulta di computer portatili affidati in uso;
4) individua, ai sensi dell'art. 24, comma 1, lett. g), del Codice, nei termini di cui in motivazione
(punto 7), i casi nei quali il trattamento dei dati personali di natura non sensibile
possono essere effettuati per perseguire un legittimo interesse del datore di lavoro anche
senza il consenso degli interessati».
Normativa sul commercio Regione Liguria
L'Autorità garante ha formulato alcune osservazioni in merito alla legge 1/2007 della Regione Liguria,con cui è stato approvato il Testo Unico del Commercio in Liguria.
L'Autorità ha osservato che alcune disposizioni della legge in questione appaiono presentare
profili di contrasto con la normativa a tutela della concorrenza, di cui alla legge
287/90, favorendo la cristallizzazione degli assetti esistenti e arrestando in modo artificioso
l'evoluzione dell'offerta nel settore commerciale. In particolare, avrebbe portata potenzialmente
restrittiva della concorrenza nel settore del commercio al dettaglio le norme
relative alla classificazione dei punti vendita, nella misura in cui tale classificazione tra esercizi
di vicinato, medie e grandi strutture di vendita, fornita dall'art. 15 della legge regionale,
si discosta sensibilmente da quella prevista nel decreto legislativo 114/98. Secondo
la disciplina regionale punti vendita di dimensioni limitate, anziché rientrare nella
categoria dei cd. «esercizi di vicinato», sono qualificati come medie e grandi strutture di
vendita, con il risultato di rendere più onerosa e sicuramente meno libera la loro apertura
o ampliamento, giacché l'apertura delle medie strutture di vendita è soggetta ad autorizzazione
rilasciata dal Comune competente per territorio mentre l'apertura delle grandi
strutture di vendita è subordinata al rilascio dell'autorizzazione del Comune competente
per territorio mediante Conferenza di servizi. Fornendo parametri dimensionali inferiori
per le definizioni di media e grande struttura di vendita, la legge regionale finisce indirettamente
per imporre oneri ingiustificatamente restrittivi all'apertura e all'ampliamento
dei punti vendita di minori dimensioni. Inoltre con riferimento alla disciplina delle vendite
promozionali, la legge regionale stabilisce limitazioni temporali e merceologiche allo svolgimento
di tali vendite che risultano in contrasto con il divieto di imporre limitazioni di ordine
temporale, tranne che nei periodi immediatamente precedenti i saldi di fine stagione
per i medesimi prodotti, contenuto nell'art. 3, comma 1, lett. f) della legge 248/2006 ed
eccessivamente penalizzanti della libertà di iniziativa economica degli operatori del settore
e tale da limitare gli strumenti e gli spazi di concorrenza tra gli stessi. L'Autorità ha
quindi auspicato un riesame della materia da parte della Regione Liguria.
Regione Lazio: affidamento del servizio di soccorso in emergenza
L'Autorità garante ha formulato alcune osservazioni in merito alle modalità di affidamento del servizio di soccorso in emergenza nella città di Latina e provincia.La legge regionale del Lazio n. 9/2004 affida all'ente regionale Ares 118 il compito di
attivare «procedure per l'eventuale utilizzazione dei mezzi di soccorso autorizzati al funzionamento,
gestiti [â?¦] dagli altri enti e organismi pubblici e privati, ivi compresa l'Associazione
italiana della Croce rossa, accreditati ai sensi della normativa vigente». Alla luce
di tale disposizione l'Ares 118 ha affidato a Cri in via diretta, ossia senza lo svolgimento di
una gara, il servizio in questione. L'Autorità ha ribadito che, al fine di garantire il libero gioco
della concorrenza nei settori in cui è necessario affidare la gestione di un servizio pubblico
a un solo soggetto, l'affidamento del servizio mediante gara (la cd. concorrenza per
il mercato) costituisce un essenziale strumento per l'individuazione dei gestori del servizio
secondo modalità che consentano il corretto funzionamento del mercato. In applicazione
dei principi dell'economia di mercato e della libera concorrenza oltre che a garanzia
della libera prestazione dei servizi nell'ambito del mercato unico europeo, il diritto comunitario
prevede una disciplina degli appalti pubblici di servizi fondata sulla non discriminazione,
sulla parità di trattamento e sulla trasparenza. Coerentemente, tale disciplina individua
la gara come procedura tendenzialmente esclusiva di aggiudicazione. Come noto,
tali regole generali sono state considerate applicabili anche alle concessioni di pubblici
servizi, come chiarito dalla Commissione Ue (Comunicazione interpretativa sulle concessioni
nel diritto comunitario del 12 aprile 2000) e come sancito dalla Corte di Giustizia
(sentenza del 7 dicembre 2000, Telaustria Verlags GmbH e Telefonadress GmbH contro
Telekom Austria AG, causa C-324/98). Peraltro, tali principi informano anche l'ordinamento
nazionale che ha esplicitato all'articolo 117, comma 2, lettera e) della Costituzione
il principio di tutela e promozione della concorrenza. Sulla base di tali principi, dunque,
l'Autorità ha sottolineato la necessità di rispettare il principio di tutela e promozione della
concorrenza, che si concretizza nel caso in esame nella necessità di procedere all'affidamento
di tale servizio attraverso procedimenti pubblici di selezione. La selezione del
contraente a mezzo gara può non operarsi solo nei settori in cui specifiche caratteristiche
oggettive dell'attività , tecniche ed economiche, impongono e giustificano una limitazione
del numero dei soggetti ammessi a operare. Anche le organizzazioni sanitarie, soggette a
un regime speciale che forniscono servizi di trasporto di urgenza, sono imprese; ciò, peraltro,
anche nei casi in cui taluni obblighi di servizio pubblico possono rendere i servizi
forniti dall'organizzazione sanitaria meno competitivi dei servizi resi da altri operatori non
vincolati da alcun obbligo di servizio pubblico (Corte di Giustizia, V sez., 25 ottobre 2001).
Inoltre, la rilevanza economica del servizio pubblico in questione sarebbe confermata dalla
circostanza per cui tale servizio era stato precedentemente fornito da enti di diritto privato
e che l'affidamento a Cri prevede lo stesso tipo di remunerazione riconosciuta ai precedenti
operatori. Anche le caratteristiche di Cri, quale ente attivo nel volontariato e ispirato
anche a principi di solidarietà , non esimono la stessa Cri dall'assoggettabilità alle regole
di concorrenza almeno nei casi in cui svolga attività economica.
Delibera di indirizzo sulla concentrazione nel trasporto aereo
La Commissione ha espresso l'avviso che, in attesa della revisione della disciplina di settore,la concentrazione degli scioperi nel settore dell'assistenza al volo è consentita,
nella stessa data e nello stesso orario, quando interessino lo stesso Centro di controllo e,
quindi, non importino un ampliamento degli effetti dello sciopero proclamato per primo.
Assemblea nella fascia protetta
La Commissione ha valutato negativamente l'indizione di assemblee dei lavoratori Alitalia da parte delle Oo.Ss.Fit Cisl e Uiltrasporti della Regione Lombardia per un
giorno per cui era stato indetto uno sciopero proprio in orario ricompreso nella fascia protetta
stabilita dall'art. 9 della Regolamentazione provvisoria delle prestazioni indispensabili
nel Trasporto aereo (deliberazione n. 1/92 del 19 luglio 2001). La Commissione ha ribadito
l'orientamento espresso con la delibera di indirizzo generale sull'applicabilità della
legge n. 146/1990 secondo cui «l'assemblea in orario di lavoro, pur se incidente nei servizi
pubblici essenziali, non è assoggettata alla disciplina di cui alla legge n. 146/1990 e
successive modifiche, laddove sia convocata e si svolga secondo quanto previsto dall'art.
20 della legge n. 300/1970 e dalla contrattazione collettiva, a condizione che la disciplina
contrattuale garantisca l'erogazione del servizio minimo. Ogni assemblea che ' pur convocata
ai sensi dell'art. 20 della legge n. 300/1970 ' si svolga con modalità differenti rispetto
a quelle previste dalla contrattazione collettiva, ivi compresa la mancata assicurazione
dei servizi minimi, sarà considerata astensione dal lavoro soggetta alla disciplina
della legge n. 146/1990 e successive modifiche, laddove incidente sui servizi pubblici essenziali
». Poiché nel caso in esame non erano state garantite le prestazioni minime in costanza
di assemblea la Commissione è giunta alla valutazione negativa del comportamento
delle Oo.Ss. che avevano indetto le assemblee.
Astensione dal lavoro straordinario «contrattualizzato»
Secondo il costante orientamento della Commissione di Garanzia, l'astensione dal lavoro straordinario costituisce una forma di scioperosoggetta alle previsioni
della legge n. 146/1990 solo in quanto si riferisca a prestazioni di lavoro straordinario
«contrattualizzate», che possano essere, cioè, legittimamente richieste dall'azienda ai
lavoratori e che questi siano tenuti obbligatoriamente a effettuare (v. delibera n. 03/130
dell'11 settembre 2003. Nel caso in che, secondo il costante orientamento della Commissione
di Garanzia, l'astensione dal lavoro straordinario costituisce una forma di sciopero
soggetta alle previsioni della legge n. 146/1990 e ss. mod. solo in quanto si riferisca a prestazioni
di lavoro straordinario «contrattualizzate», che possano essere, cioè, legittimamente
richieste dall'azienda ai lavoratori e che questi siano tenuti obbligatoriamente a effettuare
(v. delibera n. 03/130 dell'11 settembre 2003). Nel caso di specie la Commissione
ha ritenuto di non valutare negativamente l'astensione improvvisa dall'effettuare prestazioni
di lavoro straordinario in quanto dette prestazioni non potevano essere considerate
«contrattualizzate», in quanto non obbligatorie per i lavoratori che ne vengono richiesti.
Dall'istruttoria, infatti, era emerso che in base ad accordi sindacali, nonché alla prassi per
anni costantemente seguita, l'azienda individua preventivamente i lavoratori che dovrebbero
assicurare le prestazioni straordinarie consegnando loro con alcuni giorni d'anticipo
un biglietto di «assegnazione servizio»; i lavoratori destinatari della «assegnazione servizio
», però, possono liberamente ritirare o meno il relativo «biglietto», restando convenuto
che il mancato ritiro implica il diniego alla richiesta di effettuazione di prestazioni di lavoro
straordinario; l'eventuale diniego espresso attraverso il mancato ritiro del biglietto
di «assegnazione servizio» non comporta per i lavoratori alcuna conseguenza, considerato
che l'azienda ritiene passibili di provvedimento disciplinare solo quei lavoratori che non
rendono la prestazione di lavoro straordinario dopo aver ritirato il biglietto.
Licenziamenti collettivi – Cessazione delle attività dello stabilimento dovuta alla volontà del datore di lavoro
Pubblico impiego – Contratto di lavoro a tempo determinato – Successione di contratti nel tempo – Illegittimità
Pubblico impiego – Diritto allo studio – Permessi retribuiti per esami – Cumulabilità con permessi per la frequenza di co
Procedura di selezione interna – Svolgimento illegittimo – Risarcimento del danno da perdita di chance
Competenza del giudice – Controversia tra socio e cooperativa – Esclusione del socio lavoratore di cooperativa
Indizione dell’assemblea – Prerogativa del singolo componente Rsu – Insussistenza – Conseguente comportamento antisindac
Rimborso spese legali per il processo penale subito da medico convenzionato in dipendenza dell’attività ospedaliera
Diritto all’indennità di maternità di lavoratrice agricola – Presunzione di gratuità del rapporto derivante da legame fam
Licenziamento collettivo – Falsa collocazione delegato sindacale in reparto soppresso – Comportamento antisindacale: sussist
Illegittimità del licenziamento per mancata indicazione nella contestazione della sanzione applicabile come previsto dal ccnl
Un lavoratore conveniva in giudizio la Società datrice di lavoro impugnando il licenziamento intimatogli per motivi disciplinari,deducendo l'illegittimità del medesimo
per violazione delle disposizioni legislative e contrattuali disciplinanti il procedimento
disciplinare e contestando nel merito la fondatezza degli addebiti mossigli. Veniva
quindi chiesta la dichiarazione di nullità e/o illegittimità del licenziamento con applicazione
della tutela reintegratoria ex art.18 legge 300/70; veniva altresà chiesta la pronuncia
di illegittimità della sospensione cautelare dal servizio e dalla retribuzione con
condanna della Società alla corresponsione degli emolumenti stipendiali relativi. Dopo il
deposito di memorie e la discussione finale, il giudice del lavoro accoglieva la domanda,
deducendo in primo luogo che il Ccnl applicato pacificamente dall'azienda convenuta
(settore Igiene ambientale) prevedeva espressamente che le mancanze comportanti
provvedimenti superiori al rimprovero verbale dovessero essere tempestivamente contestate
per iscritto al lavoratore con l'indicazione dei motivi e degli addebiti, nonché con
l'indicazione della sanzione applicabile per la mancanza contestata. La lettera di contestazione
formulata dall'azienda non conteneva l'indicazione della sanzione disciplinare
applicabile; sul punto la Suprema Corte ha più volte osservato (Cass., 2465/89; Cass.,
8702/00) che l'omessa indicazione della sanzione applicabile nel caso in cui ciò sia previsto
dalla contrattazione collettiva influisce sulla validità della sanzione adottata dal datore
di lavoro. Ciò inoltre qualora tale omissione sia tale da influire sul sistema difensivo
del lavoratore incolpato, ovverosia quando il comportamento del dipendente non costituisca
di per sé un'ipotesi tipica di licenziamento per giusta causa, come nel caso di specie.
Questo ragionamento conserva la propria validità nonostante la decisione di sospendere
cautelativamente il dipendente presa dall'azienda; infatti, nella specie il datore
di lavoro si era limitato a comunicare al dipendente la sospensione cautelativa senza
nulla dire in ordine alla retribuzione, applicando quindi una misura cautelativa neutra rispetto
al tipo di sanzione applicabile all'esito del procedimento disciplinare, in attesa
dell'accertamento della entità della mancanza. Il giudicante ha quindi ritenuto che il licenziamento
impugnato fosse da ritenersi illegittimo a causa dell'inosservanza di una
garanzia procedimentale prescritta dalla contrattazione collettiva vincolante per il datore
di lavoro; stante l'applicabilità nel caso di specie del regime di tutela reale, la Società
è stata condannata a reintegrare il lavoratore e a risarcire il danno mediante il versamento
delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento sino alla data di reperimento
della nuova occupazione, come accertato in corso di causa, oltre alla regolarizzazione
assicurativa e previdenziale relativa.
Le risoluzioni consensuali non rilevano ai fini dell'apertura della procedura di mobilità
Nell'ambito di un progetto di ristrutturazione una società concordava con le Oo.Ss. un programma di gestione degli esuberi su base consensualeprevedendo forme di incentivazione. All'esito del programma due lavoratori, risultati in esubero
rispetto al progettato nuovo assetto dell'azienda venivano licenziati per giustificato
motivo oggettivo. I lavoratori impugnavano innanzi al Tribunale di Napoli i licenziamenti
deducendo la violazione della procedura di cui alla legge 23 luglio 1991 n. 223. La società
convenuta si costituiva osservando che la procedura di mobilità non era stata avviata
in considerazione del rilievo che l'azienda non aveva effettuato il numero dei licenziamenti
previsto dalla normativa ai fini della consultazione con le Oo.Ss. I giudici di
merito rigettavano le domande dei lavoratori. La Corte di Cassazione, nel respingere il
ricorso di legittimità , ha affermato la correttezza della decisione della Corte di Appello
che aveva escluso che l'applicabilità della procedura in considerazione della differenza
che sussiste tra l'intenzione di effettuare almeno cinque licenziamenti e l'intenzione di
eliminare almeno cinque posti di lavoro gestendoli in forme alternative al licenziamento.
La Cassazione ha quindi affermato l'inammissibilità di una piena equiparazione tra
le diverse forme di gestione degli esuberi atteso che il datore di lavoro può anche avere
intenzione di eliminare i posti di lavoro esclusivamente attraverso forme alternative
per evitare i «fastidi» e i «rischi» connessi con la procedura di mobilità . La Suprema Corte
ha quindi ritenuto che trovi applicazione la procedura di consultazione sindacale
solo laddove l'intenzione del datore di lavoro di gestire gli esuberi si accompagni alla volontà
di utilizzare il licenziamento quale mezzo per l'obiettivo prefissato.
L'incapacità a gestire un ufficio può costituire una valida esigenza per intimare un trasferimento di sede
Un quadro addetto a un ufficio postale della società veniva trasferito dall'ente poste ad altro ufficio di minore importanza.Il trasferimento veniva motivato dall'inadeguatezza
del lavoratore a gestire un ufficio postale di rilevanti dimensioni che aveva
evidenziato, nel corso di una ispezione disposta dall'azienda, notevoli carenze nella
sua organizzazione della sede e del personale addetto. Il lavoratore contestava il trasferimento
ritenendo lo stesso punitivo e avente carattere di una sanzione atipica non
ammessa dall'art. 7 dello Statuto. Il trasferimento veniva annullato dal pretore di Latina
e dal Tribunale in sede di appello. La decisione di secondo grado è stata riformata dalla
Suprema Corte che ha affermato che il trasferimento del dipendente dovuto a incompatibilità
aziendale, trovando la sua ragione nello stato di disorganizzazione e disfunzione
dell'unità produttiva, va ricondotto alle esigenze tecniche, organizzative e produttive, di
cui all'art. 2103 cod. civ., piuttosto che, sia pure tipicamente, a ragioni punitive e disciplinari,
con la conseguenza che la legittimità del provvedimento datoriale di trasferimento
prescinde dalla colpa (in senso lato) dei lavoratori trasferiti, come dall'osservanza
di qualsiasi altra garanzia sostanziale o procedimentale che sia stabilita per le sanzioni
disciplinari. In tali casi, il controllo giurisdizionale sulle comprovate ragioni tecniche,
organizzative e produttive, che legittimano il trasferimento del lavoratore subordinato,
deve essere diretto ad accertare soltanto se vi sia corrispondenza tra il provvedimento
datoriale e le finalità tipiche dell'impresa, e, trovando un preciso limite nel principio
di libertà dell'iniziativa economica privata (garantita dall'art. 41 Cost.). Nel precisare
tale principio la Corte ha ulteriormente chiarito che il controllo stesso non può essere esteso
al merito della scelta imprenditoriale, né questa deve presentare necessariamente
i caratteri della inevitabilità , essendo sufficiente che il trasferimento concreti una tra
le scelte ragionevoli che il datore di lavoro possa adottare sul piano tecnico, organizzativo
o produttivo». Nel cassare la decisione Nel caso di specie ' ha osservato la Cassazione
' dal verbale ispettivo, per come riportato dalla sentenza impugnata, emerge che
l'ente Poste italiane non ha contestato a Franco T. delle colpe specifiche, né le ha sanzionate
con misure disciplinari, ma una inadeguatezza al ruolo di dirigente di una grande
filiale, il che esclude anche che il trasferimento abbia avuto un carattere specificamente
disciplinare; infatti l'inadeguatezza alla direzione di una struttura aziendale o al
raggiungimento di risultati di efficienza non costituisce di per sé un fatto disciplinare, dovendo
avere questo come connotato una responsabilità colposa soggettiva, per il quale
si richiede un comportamento volontario almeno colposo. Alla luce dei rilievi svolti e dell'obbligo
istituzionale configurabile i capo alla società detta al servizio postale lo strumento
adottato dalla Spa Poste italiane per restituire funzionalità all'agenzia dove era originariamente
addetto il funzionario mediante l'assegnazione di un dirigente più capace
risulta essere assolutamente legittimo, e il trasferimento del precedente dirigente,
sotto la cui gestione si erano verificati i gravi disservizi (mancata consegna della corrispondenza)
rilevati dal servizio ispettivo e non contestati, deve ritenersi confortato da obiettive
esigenze organizzative.
L'assegnazione di mansioni inferiori a un lavoratore divenuto in parte inidoneo al lavoro richiede il consenso del lavoratore
Un lavoratore divenuto inabile al lavoro impugnava innanzi al Tribunale di Catania il licenziamento intimatogli dalla società .Nel corso del giudizio la sentenza di
primo grado che aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento veniva riformata dalla locale
Corte di Appello. La Suprema Corte ha respinto il ricorso di legittimità del lavoratore
rilevando che nel caso in cui il lavoratore divenga parzialmente inidoneo al lavoro al dipendente
va riconosciuto il diritto a pretendere una collocazione lavorativa non pretestuosa
ma idonea a salvaguardare la salute del dipendente nel rispetto dell'organizzazione
aziendale. Tale diritto impone al datore di lavoro di esercitare il ius variandi nel rispetto
sia dei canoni della correttezza e della buona fede sia delle regole poste a salvaguardia
della salute. Sulla base di tali principi ' prosegue la Corte di Cassazione ' il datore di lavoro
dovrà cercare di addurre il lavoratore alle stesse mansioni o al altre equivalenti e, solo
se ciò è impossibile, a mansioni inferiori. In tale ultimo caso, ' conclude il giudice di legittimità
' occorre il consenso del prestatore in quanto è richiesta una modifica del contratto
di lavoro al fine di adeguarlo alla nuova situazione di fatti.
Vantare grossolanamente con i colleghi una relazione intima con un superiore gerarchico configura giusta causa di licenziamento
Un lavoratore dipendente di una casa di cura veniva licenziato per avere formulato delle avances a una collega di lavoro,suo superiore gerarchico, vantando, successivamente
con i colleghi in forma grossolana una relazione intima con la lavoratrice.
Nel corso del giudizio il Tribunale di Napoli dichiarava l'illegittimità del licenziamento rilevando
che la fattispecie delle molestie sessuali era prevista dal Ccnl applicato dall'azienda
che sanzionava tale condotta con un provvedimento conservativo. La locale Corte di
Appello riformava la decisione dichiarando la legittimità del recesso. La Corte di Cassazione,
nel respingere il gravame del lavoratore che deduceva la tipicità della sanzione ai
sensi della disciplina collettiva, pur ribadendo che la previsione di un contratto collettivo
impedisce al giudicante di applicare una sanzione più grave di quella prevista ha comunque
osservato che correttamente la sentenza della locale corte di appello aveva qualificato
la grossolanità delle affermazioni unitamente al millantato rapporto da parte del dipendente
circostanze da un lato estranee alla fattispecie contrattuale di molestia e dall'altro,
aggravanti la condotta individuata dalle parti stipulanti il contratto collettivo.
La Cassazione torna ancora sulla valutazione equitativa del danno da dequalificazione
Un lavoratore, addetto originariamente a mansioni implicanti una particolare professionalità veniva tenuto per lunghi periodi del tutto inattivodalla società datrice di lavoro. Il lavoratore interessava, quindi, il Tribunale di Torino rivendicando
il risarcimento del danno e la domanda veniva respinta dal giudice di primo grado sul presupposto
della mancanza della prova di un danno. La Corte di Appello riformava la decisione
del giudice di prima istanza condannando la società al risarcimento in una misura
stabilita in via equitativa. La Corte di Cassazione nel respingere il gravame della società
ha rilevato che correttamente i giudici di merito, una volta accertato l'allontanamento lavorativo,
avevano ritenuto che tale condotta aveva determinato un danno da perdita di esperienza
professionale incidente sul patrimonio del lavoratore valutabile equitativamente
dal giudice.
La Corte di Cassazione ritorna ancora sulla determinazione equitativa delle retribuzioni per fatti ambientali e territoriali
Un lavoratore al fine di vedersi riconoscere il pagamento di differenze retributive calcolate sulla base di minimi del Ccnl metalmeccaniciadiva il pretore di Molfetta
che liquidava le differenze retributive stabilendo equitativamente un ammontare inferiore
ai minimi del Ccnl in considerazione delle dimensioni dell'azienda e del contenuto
costo della vita nella zona dove il prestatore aveva svolto la propria attività lavorativa. La
sentenza veniva confermata in sede di appello dal Tribunale di Trani. La Cassazione, nell'accogliere
il ricorso del lavoratore ha richiamato alcuni precedenti in forza dei quali si ritiene
l'illegittimità di ogni statuizione del giudice del merito che determini la retribuzione
in via equitativa in misura inferiore ai minimi contrattuali aziendali con il solo richiamo a
condizioni ambientali e territoriali e/o alle dimensioni dell'azienda. Tali circostanze ' conclude
la Corte ' rendono del tutto errata la motivazione di una decisione che per escludere
l'applicabilità dei minimi salariali si rifaccia alle modeste dimensioni dell'azienda in
quanto tale iter argomentativo disattende il precetto costituzionale rivolto a impedire ogni
forma di sfruttamento del dipendente anche quando trova radice nella situazione socio
economica del mercato del lavoro.
Revirement della Cassazione in tema di onere di motivazione del trasferimento
Un lavoratore adiva il Tribunale di Pescara deducendo l'illegittimità e l'inefficacia di un licenziamento intimatoglia seguito della mancata presentazione sul nuovo
posto di lavoro cui era stato assegnato a seguito di un trasferimento ritenuto dal dipendente
illegittimo. Il giudice di primo grado nel ritenere non giustificato il rifiuto della
prestazione opposto dal lavoratore rigettava la domanda con sentenza confermata dalla
competente corte di appello abruzzese. La Corte di Cassazione nell'esaminare la doglianza
del lavoratore relativamente alla mancata esplicitazione dei motivi del provvedimento
di trasferimento rigettava il motivo di gravame precisando da un lato che la corte di appello
aveva dato compiutamente conto della circostanza che la lettera di trasferimento era
sufficientemente motivata e dall'altro che l'azienda non era tenuta a dare riscontro alla
richiesta atteso che il provvedimento di trasferimento richiede alcun onere di forma ma
solo quello probatorio delle giustificate esigenze in sede di contestazione.
Invalidi civili e limiti reddituali
Il Tribunale di La Spezia, con ordinanza pubblicata in G.U. n. 15 dell'11 aprile 2007, ha dichiaratorilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale
delle norme impugnate nella parte in cui non prevedono, anche per il richiedente
la pensione di inabilità civile, di cui all'art. 12, legge n. 118 del 1971, l'esclusione,
dal computo dei redditi, di quelli percepiti dagli altri componenti il suo nucleo familiare
(come invece avviene in relazione alla richiesta di invalidità civile, per la quale vengono
considerati i soli redditi personali). Tale situazione costituisce una grave lesione del principio
di uguaglianza, tanto più considerando che a una prestazione come la pensione di
inabilità civile (che presuppone un bisogno socialmente rilevante piuttosto consistente)
corrisponde un requisito reddituale più aspro rispetto a quello richiesto per l'invalidità
civile, che di per sé presuppone invece una situazione di minore bisogno del soggetto richiedente.
Dirigenza pubblica e spoils system
La Corte costituzionale, con sentenza n. 103 depositata il 23 marzo u.s., ha ritenuto fondate le questioni di legittimità costituzionaledella norma (contenuta nella legge n. 145 del 2002, cd. «riforma Frattini») che ha previsto
per i dirigenti generali dello Stato il meccanismo cd. spoils system una tantum. Le questioni
di costituzionalità sono state sollevate da sette ordinanze del Tribunale di Roma. In particolare la Corte
ha dichiarato fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 7, legge
n. 145, sollevata dal suddetto Tribunale con quattro ordinanze risalenti al 2006, per
contrasto con gli artt. 97 e 98 Cost., nella parte in cui prevede che gli incarichi di funzione
dirigenziale di livello generale cessano il sessantesimo giorno dall'entrata in vigore
della medesima legge, esercitando i titolari degli incarichi cessati ope legis in tale periodo
esclusivamente le attività di ordinaria amministrazione, salva l'eventuale discrezionale
riattribuzione dello stesso incarico o di altro incarico senza vincoli di durata, nemmeno
predeterminata nel minimo. E invero i giudici delle leggi ' dopo aver precisato che
la norma scrutinata non riguarda i dirigenti cui siano stati affidati incarichi «apicali», ovvero
di maggior coesione con gli organi politici (segretari generali, capi dipartimento,
ecc.) ' hanno affermato che l'art. 3, comma 7, legge 145, «determinando una interruzione
automatica del rapporto di ufficio in corso prima dello spirare del termine stabilito» '
modulato in ragione della peculiarità della singola posizione dirigenziale e del contesto
complessivo in cui la stessa è inserita ' «viola, in carenza di garanzie procedimentali, i
principi costituzionali» di continuità , imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa
(artt. 97 e 98 Cost.). È infatti «evidente che la previsione di una anticipata cessazione
ex lege del rapporto in corso impedisce che l'attività del dirigente possa espletarsi
in conformità al modello di azione» disegnato dalle recenti leggi di riforma della
pubblica amministrazione, modulo «che misura il rispetto del canone dell'efficacia e dell'efficienza
alla luce dei risultati che il dirigente deve perseguire». Secondo la Corte, è
pertanto necessario che sia comunque garantita la presenza di «un momento procedimentale
di confronto dialettico tra le parti, nell'ambito del quale, da un lato, l'amministrazione
esterni le ragioni ' connesse alle pregresse modalità di svolgimento del rapporto
anche in relazione agli obiettivi programmati della nuova compagine governativa -
per le quali ritenga di non consentirne la prosecuzione sino alla scadenza inizialmente
pattuita; dall'altro, al dirigente sia assicurata la possibilità di far valere il diritto di difesa
». «L'esistenza di una preventiva fase valutativa è essenziale [â?¦] anche al fine di garantire
' attraverso l'esternazione delle ragioni che stanno alla base della determinazione
assunta dall'organo politico ' scelte trasparenti e verificabili dal giudice, [â?¦] in ossequio
al precetto costituzionale dell'imparzialità dell'azione amministrativa». D'altra parte,
la stessa inesistenza di una durata minima dell'incarico dirigenziale di livello generale
(da ultimo reintrodotta dal comma 1 dell'art. 14-sexies, legge n. 168/2005, che ha indotto
la Corte cost. ' con sentenza n. 398 depositata il 25 ottobre 2006 ' a imporre il riesame
da parte dei giudici emittenti delle questioni di costituzionalità ) «è indice di una
possibile precarizzazione della funzione dirigenziale, che si presenta (quando il termine
sia troppo breve) difficilmente compatibile con un adeguato sistema di garanzie per il dirigente
». Con questa sentenza, la Consulta ha in definitiva scolpito i confini tra politica e
amministrazione, distinguendo le funzioni dell'una (in quanto necessariamente di parte,
specie in un sistema maggioritario) e le caratteristiche della seconda (posta al servizio
della Nazione e, con essa, di tutti i cittadini, in condizioni di imparzialità e di parità di trattamento).
Poiché il dirigente generale (contrariamente al segretario generale e al capo
dipartimento) si colloca nell'alveo delle amministrazioni, è connaturata alla sua funzione
un adeguato corredo di garanzie: durata minima sufficiente; trasparenza degli atti; procedimento
imparziale di responsabilità amministrativa; revoca dell'incarico per accertata
inidoneità alla funzione. L'identificazione di un nucleo essenziale di tutela del rapporto
di lavoro argina una visione «fondamentalista» della contrattualizzazione del rapporto
di lavoro dirigenziale e, corrispettivamente, restituisce alla politica il compito suo proprio:
la progettazione economica e sociale su cui chiedere e riscontrare i consensi (al di
là della via perversa di una cooptazione clientelare delle affiliazioni sulla base di invasioni
corporative del territorio amministrativo). Il carattere perentorio di non poche affermazioni
contenute nella sentenza n. 103/07 è stato colto dagli osservatori più attenti
e dallo stesso ceto dirigente bipartisan. È evidente che una sentenza non può riformare
la pubblica amministrazione; è tuttavia un monito grave a che l'agenda governativa implementi
il messaggio della Corte costituzionale mediante un piano che identifichi, con
precisione, non solo i confini di dettaglio tra politica e amministrazione bensà anche degli
indicatori semplici e affidabili che siano in grado di smaltire il peso, non più sopportabile,
delle «rendite di posizione amministrativa». Sulla medesima lunghezza d'onda si
colloca la contestuale sentenza della Consulta n. 104 relativa allo spoils system introdotto
da alcune leggi regionali. Nel caso della legge della Regione Lazio si prevedeva la
decadenza automatica dei direttori generali delle Asl tre mesi dopo la prima seduta del
nuovo Consiglio regionale; in quella della Regione Sicilia, invece, si prevedeva la possibilità
di revoca ' per gli incarichi dirigenziali di seconda e terza fascia già conferiti ' entro
novanta giorni dalla data di insediamento del nuovo direttore generale. Entrambe le
disposizioni sono finite sotto la scure di incostituzionalità . (A. Allamprese ' A. Andreoni
in www.cgil.it/giuridico).
Riscossione crediti previdenziali
È legittimo attribuire agli enti previdenziali il potere di riscuotere i propri crediti attraverso un titolo(il ruolo esattoriale, da cui scaturisce la cartella di pagamento)
che si forma prima e al di fuori del giudizio e in forza del quale l'ente può conseguire il
soddisfacimento della pretesa a prescindere da una verifica in sede giurisdizionale della
sua fondatezza. La questione sollevata dal tribunale di Torre Annunziata è stata dichiarata
dalla Corte manifestamente infondata in quanto, da un lato, non è irragionevole la scelta
del legislatore di consentire a un creditore (Inps), attesa la sua natura pubblicistica e
l'affidabilità derivante dal procedimento che ne governa l'attività , di formare unilateralmente
un titolo esecutivo, e, dall'altro lato, è rispettosa del diritto di difesa e dei principi
del giusto processo la possibilità , concessa al preteso debitore, di promuovere, entro un
termine perentorio ma adeguato, un giudizio ordinario di cognizione nel quale far efficacemente
valere le proprie ragioni, sia grazie alla possibilità di ottenere la sospensione dell'efficacia
esecutiva del titolo e/o dell'esecuzione, sia grazie alla ripartizione dell'onere
della prova in base alla posizione sostanziale (e non già formale) assunta dalle parti nel
giudizio di opposizione.
Soppressione delle indennità di trasferta nel pubblico impiego
È legittimo, da parte del legislatore, disporre la «soppressione» delle indennità di trasferta nel pubblico impiegoe stabilire l'inderogabilità di tale soppressione con
riferimento alle clausole dei contratti e degli accordi collettivi che le prevedono. In altri
termini, con la norma censurata e con i commi 213 e 223, il legislatore ha abolito in
tale settore gli istituti dell'ordinamento civile costituiti dalle indicate indennità e ha
contestualmente stabilito che le clausole che le prevedono sono eliminate dai contratti
e dagli accordi collettivi in vigore e vietate per quelli da stipularsi, con ciò fissando un
inderogabile limite generale all'autonomia contrattuale delle parti. In tale contesto, le
regioni (anche quelle a Statuto speciale) non hanno alcun potere di impedire la suddetta
soppressione, vertendosi in una materia di competenza esclusiva dello Stato (ordinamento
civile). Né potrebbe obiettarsi che la disciplina censurata è riconducibile alla
materia dell'organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti pubblici regionali
e dello stato giuridico ed economico del relativo personale: infatti, il rapporto di
impiego alle dipendenze di Regioni ed enti locali, essendo stato «privatizzato» ai sensi
dell'art. 2 del decreto legislativo n. 165 del 2001, è retto dalla disciplina generale dei
rapporti di lavoro tra privati ed è, perciò, soggetto alle regole che garantiscono l'uniformità
di tale tipo di rapporti. Con la conseguenza che la legge statale, in tutti i casi
in cui interviene a conformare gli istituti del rapporto di impiego attraverso norme
che si impongono all'autonomia privata con il carattere dell'inderogabilità , costituisce
un limite alla menzionata competenza residuale regionale e va, quindi, applicata anche
ai rapporti di impiego dei dipendenti delle Regioni e degli enti locali. Nella specie,
come già evidenziato, la norma censurata fissa, nell'intero settore del pubblico impiego,
un tipico limite di diritto privato, che, secondo la giurisprudenza di questa Corte è
«fondato sull'esigenza, connessa al principio costituzionale di eguaglianza, di garantire
l'uniformità nel territorio nazionale delle regole fondamentali di diritto che disciplinano
i rapporti fra privati» e, come tale, si impone anche alle Regioni a statuto speciale.
La pertinenza della norma denunciata alla materia dell'ordinamento civile esclude
quindi la fondatezza di tutte le proposte censure.