2 / 2007
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Descrizione
La Corte costituzionale corregge la «riforma Frattini» su dirigenza pubblica e spoils system Precisazioni della Cassazione sulla valutazione equitativa del danno da dequalificazione Interessante sentenza del Tribunale di Catania in un caso di illegittima apposizione del termine a contratto con la P.A.
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La mobilità volontaria nell'ambito della pubblica amministrazione dà luogo a una cessione di contratto
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Paola M. è stata assunta il 3 novembre 1997 dal Comune di Trenzano (BS) con contratto a tempo indeterminato,con la qualifica di istruttore direttivo contabile-economico; passata, a seguito di mobilità  volontaria, al comune di Roccabianca (PR), vi ha preso servizio il 29 giugno 1998; si è assentata per malattia dal 20 luglio al 22 novembre 1998; l'11 dicembre successivo l'amministrazione comunale di Roccabianca le ha sottoposto per la firma il contratto di lavoro, con patto di prova; alla sua richiesta di tempo per riflettere, in relazione alla inserzione del patto di prova, è stata allontanata dal servizio. Paola M. ha proposto davanti al Tribunale di Parma, giudice del lavoro, le seguenti domande: 1. in via principale, accertata l'illegittimità  del licenziamento, ordinare la immediata reintegra con le mansioni di istruttore direttivo contabile economico; condannare il comune di Roccabianca a pagare tutte le retribuzioni spettanti e il risarcimento del danno, conseguente all'illegittimo demansionamento e all'illegittimo recesso, ivi compreso il danno alla professionalità , alla dignità  della persona e biologico; 2. in via subordinata, ritenuta la trilateralità  del rapporto, ordinare al comune di Trenzano la riammissione in servizio, con le mansioni attribuite da tale ente prima del trasferimento, nonché condannarlo al risarcimento del danno. Il giudice adito ha respinto la domanda. Egli ha ritenuto che la delibera di assunzione abbia il valore di un atto di nomina; che il rapporto di lavoro deve essere costituito in forma scritta ad substantiam; che, non avendo Paola M. sottoscritto il contratto di assunzione con l'amministrazione di Roccabianca, il rapporto vada qualificato come rapporto di fatto, disciplinato dall'art. 36, comma 8, d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, e, per gli enti locali, dall'art. 5 legge 3 del 1979; che dall'art. 2126 cod. civ. non deriva il diritto alla prosecuzione del rapporto. La sentenza è stata confermata dalla Corte d'Appello di Bologna con sentenza 23 ottobre/28 novembre 2003 n. 362. Il giudice d'appello ha preliminarmente qualificato la mobilità  volontaria come passaggio diretto che consente la costituzione, senza soluzione di continuità , di un nuovo e diverso rapporto di lavoro con altra amministrazione pubblica, senza l'espletamento di una nuova procedura concorsuale; esso ' secondo la Corte ' comporta la estinzione del rapporto originario con l'amministrazione cedente. Paola M. ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione impugnata per violazione di legge. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. La mobilità  volontaria nel settore pubblico, prevista dall'art. 33 d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29 ' ha osservato la Corte ' è soggetta a vincoli quanto a conservazione dell'anzianità , della qualifica, del trattamento economico; la dottrina amministrativa, già  sotto la vigenza del d.lgs. 29/1993, aveva qualificato in maniera pressoché unanime tale fenomeno, denominato nel testo legislativo passaggio diretto, come modificazione meramente soggettiva del rapporto, con continuità  del suo contenuto, e quindi come cessione di contratto; tale qualificazione sembra corretta alla luce del tipo contrattuale delineato nell'art. 1406 cod. civ. e della giurisprudenza della Suprema Corte. Infatti ' ha affermato la Corte ' la cessione del contratto, ammissibile anche per il contratto di lavoro, comporta il trasferimento soggettivo del complesso unitario di diritti e obblighi derivanti dal contratto, lasciando immutati gli elementi oggettivi essenziali; tale qualificazione riceve conforto dall'art. 16 legge 28 novembre 2005 n. 246 il quale, nel modificare l'art. 30 d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, pur mantenendo la rubrica di «passaggio diretto», nel testo della norma parla testualmente di «cessione di contratto ». Trattandosi di cessione di contratto ' ha concluso la Corte ' ne deriva l'illegittimità  della pretesa, da parte del Comune di Roccabianca, della stipulazione di un nuovo contratto di assunzione e di un nuovo patto di prova; da ciò consegue altresà l'illegittimità  del licenziamento per mancata sottoscrizione del patto di prova.
Il dirigente non apicale ingiustamente licenziato ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro
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Ermanno L., dipendente del Consorzio agrario della Lucania e Taranto, società  cooperativa a r.l.,con la qualifica di «dirigente addetto», è stato licenziato in tronco nel maggio del 2001 con l'addebito di avere dato al commissario liquidatore del Consorzio provinciale di Taranto informazioni non veritiere e tali da danneggiare il Consorzio regionale. Egli ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Taranto sostenendo che l'addebito rivoltogli era privo di fondamento e chiedendo, in applicazione della legge n. 604 del 1966 e dell'art. 18 Stat. lav., l'annullamento del provvedimento, la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno. In proposito egli ha fatto presente di avere diritto alla tutela reintegratoria in quanto non era un dirigente apicale. Il Consorzio si è difeso sostenendo che Ermanno L. si era reso gravemente inadempiente ai suoi doveri e che comunque, egli non aveva diritto all'applicazione dell'art. 18 Stat. lav., essendo un dirigente. Il Tribunale ha annullato il licenziamento, ha ordinato la reintegrazione del dirigente nel posto di lavoro e ha condannato il Consorzio al risarcimento del danno. La decisione è stata confermata dalla Corte d'Appello di Lecce che ha ritenuto veritiere e comunque non lesive degli interessi del Consorzio regionale le informazioni date da Ermanno L. al liquidatore del Consorzio di Taranto, la cui azienda era stata rilevata dal Consorzio regionale, in ordine alla mancanza di alcuni documenti e dati contabili. La Corte ha inoltre osservato che le risultanze istruttorie inducevano a ritenere che il sig. Ermanno L. non aveva mai svolto funzioni di dirigente apicale, in grado di incidere con autonome decisioni sull'attività  dell'azienda o su un ramo particolare di questa, ma aveva sempre svolto compiti limitati in relazione ai quali era stato sottoposto alle direttive di altro dipendente che non ricopriva neppure la qualifica di dirigente. Non rilevava in senso contrario il fatto che il dipendente fosse addetto al settore assicurativo (gestione polizze assicurative e riscossione dei premi) trattandosi di attività  il cui compimento non veniva a incidere su aspetti rilevanti della gestione del consorzio e che poteva essere affidata a qualsiasi impiegato esperto nel settore. In definitiva, secondo la Corte, l'appellato, non avendo svolto in concreto funzioni di tipo dirigenziale di vertice, era soggetto alla disciplina vincolistica quanto alle modalità  di estinzione del rapporto. Il Consorzio regionale ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Lecce per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, richiamando la sua giurisprudenza secondo cui la tutela recata dall'art. 18 Stat. lav. è esclusa soltanto per il dirigente cd. apicale, che, come alter ego dell'imprenditore, sia preposto alla direzione dell'intera organizzazione aziendale, ovvero a una branca o settore autonomo di essa, e sia investito di attribuzioni che, per la loro ampiezza e per i poteri di iniziativa e di discrezionalità  che comportano, gli consentano, sia pure nell'osservanza delle direttive programmatiche del datore di lavoro, di imprimere un indirizzo e un orientamento al governo complessivo dell'azienda, assumendo la corrispondente responsabilità  ad alto livello (cd. dirigente apicale); da questa figura si differenzia quella dell'impiegato con funzioni direttive, che è preposto a un singolo ramo di servizio, ufficio o reparto e che svolge la sua attività  sotto il controllo dell'imprenditore o di un dirigente, con poteri di iniziativa circoscritti e con corrispondente limitazione di responsabilità  (cd. pseudo-dirigente). L'accertamento in concreto della sussistenza delle condizioni necessarie per l'inquadramento del funzionario nell'una o nell'altra categoria ' ha affermato la Corte ' costituisce apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito e censurabile in sede legittimità  soltanto per vizi di motivazione; il licenziamento ad nutum, a prescindere dalla sussistenza di una giusta causa o da un giustificato motivo, è applicabile solo al dirigente apicale, mentre il licenziamento dello pseudo-dirigente è soggetto alle norme ordinarie. La Corte d'Appello ' ha osservato la Cassazione ' ha adeguatamente motivato, con riferimento alle risultanze istruttorie, l'accertamento sia della posizione non apicale detenuta dal dirigente, che dell'infondatezza degli addebiti mossigli.
L'affissione del codice disciplinare è necessaria per l'individuazione delle sanzioni da applicare per le mancanze disciplinari
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Alfonso D., dipendente della Spa Freeair Helicopters con mansioni di comandante a bordo di elicotteri,è stato sottoposto a procedimento disciplinare e licenziato con l'addebito di avere rifiutato l'esibizione del libretto di volo all'azienda datrice lavoro. Egli ha chiesto al Tribunale di Torino la dichiarazione di illegittimità  del licenziamento, con ordine di reintegrazione nel posto di lavoro e risarcimento del danno, sostenendo che l'azienda non aveva adempiuto all'obbligo, previsto dall'art. 7 Stat. lav., di affiggere, nei locali della base cui egli era addetto, il «codice disciplinare» recante l'indicazione delle infrazioni e delle relative sanzioni. L'azienda si è difesa sostenendo, tra l'altro, che l'infrazione attribuita al dipendente consisteva in una violazione di norme di legge ed era manifestamente contraria all'etica comune, in quanto l'obbligo di esibizione del libretto di volo è stabilito per ragioni di sicurezza. Il Tribunale ha ravvisato la denunciata violazione dell'art. 7 Stat. lav. e pertanto ha annullato il licenziamento disponendo la reintegrazione del comandante nel posto di lavoro, condannando l'azienda al risarcimento del danno. La Corte d'Appello di Torino ha rigettato l'impugnazione proposta dall'azienda osservando che, pur volendo ritenere mancanza grave quella di rifiutare l'esibizione del libretto di volo al datore di lavoro, la relativa sanzione (peraltro la più grave) non poteva che essere applicata nel rispetto delle norme procedimentali e pertanto doveva risultare preventivamente pubblicizzata mediante affissione. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte d'Appello per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La motivazione della decisione impugnata ' ha affermato la Cassazione ' è corretta, atteso che la norma disciplinare quasi mai «crea» l'illecito, ma sicuramente determina il collegamento della sanzione al fatto ed è volta a circoscrivere, a tutela del lavoratore, il campo dell'inadempimento sanzionabile.
La legge n. 428 del 1990 non consente di escludere per i dirigenti gli effetti del trasferimento di azienda
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Questo caso è già  stato preso in esame in q. Riv. n. 1/2007, p. 7, ma vale la pena soffermarcisi nuovamente.La cessione di un'azienda deve essere preceduta, in base alla legge n. 428 del 20 dicembre 1990, dall'informazione e consultazione delle rappresentanze sindacali aziendali nonché dei sindacati di categoria che hanno stipulato il contratto collettivo applicato nelle imprese interessate al trasferimento. In caso di azienda in crisi la legge prevede che nel corso della consultazione possa essere raggiunto un accordo che escluda dal trasferimento una parte del personale. Nel maggio del 1997 la Srl Innse Macchine Utensili, in amministrazione controllata, ha ceduto alla Innse Berardi Spa la sua azienda e il relativo personale eccezion fatta per i dirigenti, che, in base a un accordo tra l'azienda e le rappresentanze sindacali aziendali, sono rimasti esclusi dal trasferimento e sono stati licenziati. Giovanni Z., uno dei dirigenti licenziati, ha chiesto al Tribunale di Brescia di dichiarare l'illegittimità  della sua esclusione dal trasferimento dell'azienda e pertanto il suo diritto di continuare a lavorare con la cessionaria Innse Berardi Spa. Sia il Tribunale che la Corte di Appello di Brescia hanno ritenuto la domanda priva di fondamento affermando la validità  dell'accordo raggiunto con le rappresentanze sindacali e l'inesistenza di un obbligo di convocazione, per trattative, dei sindacati dei dirigenti. Giovanni Z. ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Appello di Brescia per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. I dirigenti ' ha osservato la Corte ' hanno nell'ordinamento del diritto del lavoro, in quello previdenziale e in quello sindacale uno status avente per molti aspetti chiare note di diversificazione rispetto a quello degli altri dipendenti; si deve perciò concludere per l'inapplicabilità  dell'art. 47 legge 29 dicembre 1990 n. 428 ai dirigenti, ai quali di conseguenza va applicato l'art. 2112, primo comma, cod. civ., secondo cui, in caso di trasferimento di azienda il rapporto di lavoro continua con l'acquirente e il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano. Accertato che il recesso era stato disposto dalla società  cedente a Giovanni Z. dopo che si era perfezionata la cessione dell'azienda alla Innse Berardi Spa ' ha affermato la Corte ' il rapporto di lavoro del predetto dirigente doveva ritenersi proseguito con la cessionaria, non potendo avere alcuna efficacia il licenziamento intimato da soggetto che non era più titolare del rapporto. La Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata e ha rinviato la causa, per nuovo esame, alla Corte d'Appello di Milano per la quale ha stabilito il seguente principio di diritto: «In caso di trasferimento di azienda in stato di insolvenza, non si applica nei confronti dei dirigenti la disposizione dettata dall'art. 47, quinto comma, legge 29 dicembre 1990 n. 428 che, nell'ipotesi di raggiungimento di un accordo di cui al primo comma del medesimo articolo, deroga all'art. 2112 cod. civ.».
La comunicazione di apertura del procedimento disciplinare deve consistere nella contestazione di specifici addebiti
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Gioacchino S., dipendente della Spa Polifarma ha ricevuto dall'azienda, nel settembre del 1994 una letterache, dopo aver ricostruito le difficoltà  verificate nel rapporto di lavoro, concludeva: «A questo punto non vogliamo trovare alcuna conseguenza, ma solo verificare che Ella sia tuttora inserito nell'organigramma e risulti adempiente alle sue obbligazioni». Il lavoratore non ha risposto ed è stato licenziato per ragioni disciplinari. Egli si è rivolto al giudice del lavoro di Roma sostenendo l'illegittimità  del licenziamento per violazione, tra l'altro, dell'art. 7 Stat. lav. che esclude l'applicabilità  di provvedimenti disciplinari ove il lavoratore non abbia ricevuto preventivamente la contestazione in forma scritta degli addebiti e non sia stato posto nelle condizioni di difendersi, pertanto ha chiesto la condanna dell'azienda alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno in base all'art. 18 Stat. lav. Il giudice, pur riconoscendo l'illegittimità  del licenziamento per violazione dell'art. 7 Stat. lav., ha rigettato la domanda in quanto ha ritenuto non provato, da parte del lavoratore, il requisito numerico per l'applicabilità  dell'art. 18 Stat. lav.; vale a dire che l'azienda avesse, al momento del licenziamento, oltre quindici dipendenti. La Corte d'Appello di Roma ha escluso che la lettera inviata dall'azienda al lavoratore nel settembre 1994 costituisse la contestazione di addebito prevista dall'art. 7 Stat. lav. e ha dichiarato pertanto l'illegittimità  del licenziamento; essa ha però applicato la legge n. 604 del 1966, condannando l'azienda alla riassunzione del lavoratore ovvero in difetto al pagamento di un'indennità  pari a dieci mensilità . La Corte ha escluso l'applicabilità  dell'art. 18 Stat. lav. rilevando che il lavoratore non aveva offerto la prova del numero dei dipendenti. Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte d'Appello per avere escluso l'applicabilità  dell'art. 18 Stat. lav. L'azienda ha proposto ricorso incidentale sostenendo l'erroneità  della dichiarazione di illegittimità  del licenziamento per violazione dell'art. 7 Stat. lav., in quanto essa aveva proceduto alla contestazione dell'addebito con la lettera del settembre 1994. La Suprema Corte ha accolto il ricorso del lavoratore, richiamando la sentenza delle Sezioni Unite n. 141 del 10 gennaio 2006, secondo cui il lavoratore licenziato non ha l'onere di provare che il numero dei dipendenti dell'azienda sia superiore a quindici. La Cassazione ha inoltre rigettato il ricorso incidentale proposto dalla Polifarma, osservando che dall'esame della lettera aziendale del settembre 1994, la Corte d'Appello ha tratto, del tutto ragionevolmente, il convincimento che con essa non si contestava alcunché al lavoratore, ma si chiedeva solo di svolgere una relazione su uno dei punti controversi nei rapporti tra le parti, senza formulare alcun invito formale a Gioacchino S., ex art. 7 Stat. lav., a discolparsi da specifiche contestazioni. La previa contestazione dell'addebito, necessaria in funzione dei licenziamenti qualificabili come disciplinari ' ha affermato la Suprema Corte ' ha lo scopo di consentire al lavoratore l'immediata difesa e deve per ciò stesso rivestire il carattere della specificità , che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità , il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari; il requisito della specificità  della contestazione costituisce oggetto di un'indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità , salva la verifica di logicità  e congruità  delle ragioni esposte dal giudice di merito.
L'anticipo del tfr avuto per ristrutturare un immobile ma destinato all'acquisto di una casa non giustifica il licenziamento
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Armida G. dipendente della Spa Cassa di Risparmio di Rieti ha ottenuto dalla datrice di lavoro un'anticipazione sul Tfr di lire 39 milioni per la ristrutturazione di un immobile.Dopo qualche tempo l'azienda l'ha sottoposta a procedimento disciplinare con l'addebito di non avere eseguito i lavori di ristrutturazione e di avere quindi destinato l'anticipazione a finalità  diverse da quelle dichiarate. La lavoratrice si è difesa sostenendo che, essendo stata trasferita a Roma, ella aveva utilizzato la somma per l'acquisto di un altro immobile. La banca l'ha licenziata con motivazione riferita al venire meno del rapporto fiduciario. La lavoratrice ha chiesto al Tribunale di Roma di annullare il licenziamento, contestando l'addebito di violazione delle regole di correttezza e buona fede. Il Tribunale ha rigettato la domanda. La Corte di Appello di Roma ha accolto l'impugnazione proposta dalla lavoratrice contro la sentenza di primo grado, osservando che i fatti attribuiti alla lavoratrice erano estranei all'esecuzione del rapporto di lavoro e comunque non potevano ritenersi di gravità  tale da giustificare il licenziamento. La Corte ha rilevato in particolare che la lavoratrice, destinando la somma ricevuta all'acquisto di un altro alloggio anziché alla ristrutturazione dell'abitazione occupata al momento della richiesta, aveva utilizzato l'anticipazione secondo le finalità  della legge, senza occultare la propria condotta, e non aveva causato alla banca alcun danno. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Roma per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La corrispondenza, o non corrispondenza, della specifica utilizzazione di somme (erogate dal datore di lavoro al lavoratore a titolo di anticipazione del Tfr e poi di mutuo) alla finalità  dell'erogazione ' ha affermato la Corte ' è fatto estraneo all'esecuzione degli obblighi del lavoratore; la non corrispondenza con la finalità  dell'erogazione non costituisce di per sé inadempimento d'un obbligo del lavoratore; il rapporto di lavoro è solo un «titolo» per la concessione del mutuo al dipendente; l'adempimento del relativo obbligo non si inserisce, di per sé, nel rapporto stesso e il relativo inadempimento ha proprie dirette sanzioni. Questa oggettiva estraneità  ' ha osservato la Corte ' non esclude un riflesso che il comportamento possa assumere sul piano del generale rapporto di fiducia che è al fondo del contratto; resta tuttavia necessario che l'inadempimento sia valutato tenendo conto dell'accentuata tutela del lavoratore rispetto alla regola generale della non scarsa importanza, prevista dall'art. 1455 cod. civ., sicché l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza d'un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, ovvero d'un comportamento tale che non consenta la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro. Nel caso in esame ' ha osservato la Corte ' il giudice del merito ha ritenuto che i fatti addebitati, e sul piano oggettivo e su quello soggettivo, non integrino un comportamento di gravità  tale da giustificare il recesso per giusta causa, motivando questa valutazione con riferimento a vari elementi: l'assenza di storno o illecito utilizzo delle somme ricevute, la scarsa rilevanza del mutamento della causale da ristrutturazione ad acquisto (che resta nell'ambito della «ratio della legge»), l'assenza di danno aziendale, l'assenza di elemento speculativo, l'assenza di prove d'un occultamento del comportamento. Questi rilievi ' ha concluso la Cassazione ' costituiscono ben adeguata motivazione del giudizio espresso.
Il giudice italiano ha giurisdizione sulle controversie patrimoniali promosse contro le ambasciate straniere dai loro dipendenti
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Elisabetta M. ha lavorato alle dipendenze dell'ambasciata dello Stato degli Emirati Uniti dal 1° maggio 1991 al 31 agosto 1997con rapporto regolato dalla «Disciplina del rapporto di lavoro di dipendenti delle ambasciate, consolati, delegazioni, istituti culturali e organismi internazionali in Italia». Le mansioni della lavoratrice consistevano nell'espletamento di pratiche amministrative dell'ambasciata; ossia aveva compiti di dattilografia di lettere in lingua italiana, di compilazione delle note-verbali al ministero degli Esteri italiano per pratiche amministrative riguardo i permessi di soggiorno per il personale di ambasciata e consolato; di invio di note-circolari al ministero per questioni amministrative; teneva i contatti con i fornitori dell'ambasciata, compilando ricevute contabili in italiano per gli stessi; si occupava delle pratiche contabili relative alla richiesta e all'acquisto di carburante per automezzi di diplomatici e dell'ambasciata; curava la spedizione della posta in uscita. L'orario ufficiale di ambasciata era dalle 9:00 alle 15:00; l'orario d'ingresso era tassativo (con foglio di presenza da firmare), mentre quello d'uscita era flessibile, nel senso che i dipendenti rimanevano a disposizione ben oltre le 15:00. Di fatto la ricorrente osservava l'orario dalle 9:00 alle 17:00 per cinque giorni la settimana, lavorando anche nelle festività  infrasettimanali e talvolta anche di sabato. Ella si è rivolta al Tribunale di Roma, sostenendo di avere percepito una retribuzione insufficiente e non proporzionata alla qualità  e quantità  del lavoro svolto e di non avere ricevuto le mensilità  aggiuntive, gli scatti di anzianità  e il trattamento di fine rapporto. Pertanto la lavoratrice ha chiesto la condanna dell'ambasciata al pagamento della somma di euro 51.000,00 circa. L'ambasciata ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice italiano, contestando comunque il fondamento della domanda. Sia il Tribunale che la Corte d'Appello di Roma hanno ritenuto il ricorso inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice italiano. La lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte d'Appello di Roma per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha accolto il ricorso, affermando la giurisdizione del giudice italiano e rinviando la causa, per nuovo esame, ad altra sezione della Corte d'Appello di Roma. La Corte ha richiamato la sua giurisprudenza secondo cui in caso di controversie inerenti al rapporto di lavoro del personale italiano ' come di quello straniero ' operante alle dipendenze di consolati di Stati stranieri in Italia, sussiste il difetto di giurisdizione del giudice italiano, quando la pronuncia a tale giudice richiesta comporti interferenza sull'organizzazione dell'ufficio consolare, sicché deve essere esclusa la giurisdizione del giudice italiano per la domanda volta alla reintegrazione nel posto di lavoro a seguito di impugnativa di licenziamento, investendo detta pretesa in via diretta i poteri organizzativi- sovrani dell'ente straniero; invece ' come ha poi puntualizzato Cass. Ss.Uu. 27 novembre 2002 n. 16830 ' l'immunità  giurisdizionale dell'ambasciatore di Stato estero, ai sensi dell'art. 31 della Convezione di Vienna 18 aprile 1961 sulle relazioni diplomatiche (resa esecutiva con la legge 9 agosto 1967, n. 804), non è invocabile con riferimento a controversia di pagamento di somme per differenze retributive relative all'espletamento di mansioni di autista presso l'ambasciata. Quindi, ha osservato la Corte, la giurisprudenza di legittimità  ha da tempo abbandonato la tesi dell'«immunità  diffusa » per accogliere, invece, il principio dell'«immunità  ristretta o relativa», che risponde, ormai, al diritto internazionale consuetudinario; pertanto, da una parte si è affermato che, al fine dell'esenzione dalla giurisdizione del giudice nazionale è richiesto che l'esame e l'indagine sulla fondatezza della domanda dei lavoratori non comporti apprezzamenti, indagini o statuizioni che possano incidere o interferire sugli atti o comportamenti dello Stato estero che siano espressione dei suoi poteri sovrani di autorganizzazione, vigendo in tali casi il principio generale par in parem non habet iurisdictionem; d'altra parte però può affermarsi che l'esenzione degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile è limitata agli atti jure imperii (a quegli atti, cioè, attraverso i quali si esplica l'esercizio delle funzioni pubbliche statali) e non si estende invece agli atti iure gestionis o iure privatorum. Analoga distinzione ' ha affermato la Corte ' va operata anche con riguardo ai rapporti di lavoro: occorre tener conto non solo della natura delle mansioni in concreto esercitate dal lavoratore, ma anche del tipo di domanda proposta, con la conseguenza di assegnare rilevanza decisiva ' ai fini dell'attribuzione della giurisdizione al giudice italiano ' alla natura meramente patrimoniale della pretesa esercitata in giudizio dal lavoratore dipendente di uno Stato estero. In base a questo criterio ' ha concluso la Corte ' l'esenzione dello Stato straniero dalla giurisdizione nazionale viene meno, quindi, non solo nel caso di controversie relative a rapporti di lavoro aventi per oggetto l'esecuzione di attività  meramente ausiliarie delle funzioni istituzionali degli enti convenuti, ma anche nel caso di controversie promosse dai dipendenti allorquando la decisione richiesta al giudice italiano, attenendo ad aspetti solo patrimoniali, sia inidonea a incidere o a interferire sulle funzioni dello Stato sovrano; nella specie le mansioni della ricorrente (impiegatizie d'ordine) non toccano l'esercizio di poteri sovrani dello Stato estero e inoltre la domanda azionata in giudizio ha contenuto esclusivamente patrimoniale, avendo a oggetto la pretesa di differenze retributive; talché deve affermarsi la giurisdizione del giudice italiano.
Può essere licenziato il lavoratore che durante una riunione si scontri fisicamente con un collega e apostrofi il direttore
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Bruno D., dipendente della Spa Cirio con mansioni di impiegato di concetto, durante un incontro sindacale con i rappresentanti dell'aziendasul funzionamento dello spaccio interno ha avuto uno scontro fisico con un collega e ha rivolto al direttore del personale l'epiteto «delinquente». Per questo comportamento l'azienda, dopo averlo sottoposto a procedimento disciplinare, lo ha licenziato. Egli ha chiesto al pretore di Napoli di annullare il licenziamento in quanto sanzione eccessiva, sostenendo, tra l'altro, che con l'epiteto rivolto al dirigente egli aveva voluto deplorare la mancata eliminazione, da parte dell'azienda, di alcune disfunzioni nella gestione dello spaccio aziendale. Il pretore ha annullato il licenziamento per sproporzione della sanzione. Questa decisione è stata integralmente riformata dalla Corte d'Appello di Napoli che ha ravvisato, nel comportamento addebitato al lavoratore, un'infrazione di gravità  tale da giustificare il licenziamento. Bruno D. ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte d'Appello di Napoli per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La Corte di Napoli ' ha osservato la Cassazione ' ha esaminato accuratamente i comportamenti contestati (diverbio litigioso con passaggio a vie di fatto nei confronti di un collega e uso di una frase irriguardosa nei confronti del responsabile del personale), valutandoli globalmente e tenendo conto anche del contesto nel quale gli stessi sono stati posti in essere; in particolare la Corte d'Appello, nel valutare la gravità  dell'offesa al dirigente, ha osservato, da un lato, che l'episodio è avvenuto in presenza di numerosi impiegati, dall'altro, che l'incidenza offensiva dell'epiteto deve essere valutata in relazione alle regole che disciplinano lo speciale vincolo esistente fra il lavoratore subordinato e il suo superiore gerarchico. Da tale motivazione ' ha affermato la Cassazione ' si evince che le conclusioni della Corte di merito in ordine alla sussistenza della giusta causa di licenziamento sono state adottate in corretta applicazione dell'art. 2119 cod. civ., che disciplina la suddetta fattispecie, come pure dell'art. 2106 cod. civ., che pone il principio della proporzionalità  della sanzione.
Il dirigente pubblico illegittimamente licenziato deve essere reintegrato nel posto di lavoro
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Pieremilio A. avendo superato, risultando tra i vincitori, un corso concorso di formazione dirigenziale promosso dalla Scuola superiore di pubblica amministrazione,ha sottoscritto il 29 aprile 2002 con l'Agenzia delle dogane un contratto individuale di lavoro con inquadramento quale dirigente di seconda fascia ai sensi del Ccnl comparto ministeri area dirigenti e con l'incarico di assistente di direzione presso la direzione regionale del Piemonte e della Valle d'Aosta dell'Agenzia delle dogane, a far tempo dal 2 maggio 2002; nel contratto, della durata di due anni, era previsto un periodo di prova di sei mesi di effettivo servizio che andava contrattualmente a scadere il 12 novembre 2002. Tuttavia il 28 marzo 2003 gli è stata comunicata la risoluzione del rapporto di lavoro per mancato superamento del periodo di prova. Il dirigente ha chiesto al Tribunale di Torino di dichiarare illegittima la risoluzione del rapporto perché intervenuta dopo la scadenza del periodo di prova, e di condannare la convenuta alla reintegrazione nel posto di lavoro, al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento a quella della reintegra e al risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell'illegittimo licenziamento. Con sentenza in data 9 giugno 2004 il giudice ha accolto il ricorso, condannando l'Agenzia delle dogane alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni globali di fatto maturate dal giorno del licenziamento a quello dell'effettiva reintegra. Il Tribunale, ritenuta la illegittimità  del licenziamento, ha rilevato in particolare che le conseguenze che ne scaturivano erano quelle di cui all'art. 51 del d.lgs. n. 165 del 2001 che prevede espressamente l'applicazione della legge n. 300/70 alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti. La Corte di Appello di Torino, con sentenza depositata il 26 aprile 2005, ha respinto il primo motivo di appello dell'Agenzia delle dogane, volto a far dichiarare tempestivo il recesso, e, in accoglimento del secondo motivo, ha respinto la domanda di reintegra nel posto di lavoro e ridotto la condanna al risarcimento del danno al pagamento delle retribuzioni dal giorno del licenziamento a quello di scadenza del contratto. Il giudice d'appello ha basato la propria decisione di accoglimento sulla equiparazione di disciplina, anche negli aspetti risolutori, tra dirigente dell'impiego privato e dirigente pubblico contrattualizzato; anzi ha ritenuto questa soluzione tanto più obbligata, per il rilievo che nella dirigenza pubblica l'incarico dirigenziale è per espressa disposizione di legge di carattere temporaneo. La Corte di merito ha affermato altresà che anche gli effetti dell'illegittimità  del licenziamento dovevano essere necessariamente circoscritti alla durata biennale dell'incarico dirigenziale, essendo il rapporto regolato dal contratto di diritto privato stipulato il 29 aprile 2002 che prevedeva appunto che l'incarico avesse durata biennale, per cui il risarcimento del danno doveva essere circoscritto al pagamento delle retribuzioni dal giorno del licenziamento a quello della scadenza del contratto. Pieremilio A. ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Torino per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. La Cassazione ha ritenuto che la Corte di Torino sia incorsa in errore allorché ha affermato che la norma di cui all'art. 51, comma 2, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 («La Legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni e integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti ») vada applicata negli stessi termini in cui essa si applica ai dipendenti privati, e quindi con l'esclusione dei dipendenti aventi qualifica dirigenziale (stante l'esclusione operata dall'art. 10 legge 15 luglio 1966, n. 604). L'affermazione dell'identità  tra la disciplina del rapporto di lavoro dei dirigenti privati e quella dei dirigenti pubblici contrattualizzati ' ha osservato la Suprema Corte ' si pone in contrasto con la vigente normativa di legge. Nel settore pubblico l'accesso alla qualifica di dirigente avviene tramite concorso per esami (art. 28, comma 1, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, già  art. 28 d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29), il quale accerta l'idoneità  alla qualifica dirigenziale. Dal superamento del concorso sorge il diritto al trattamento economico stabilito dal contratto collettivo (art. 28, comma 5, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165). La giurisdizione sulla procedura concorsuale compete al giudice amministrativo (art. 63, comma 4, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165). Una volta costituito il rapporto secondo le regole del diritto pubblico ' ha affermato la Corte ' esso viene consegnato ai poteri di diritto privato del datore di lavoro pubblico, e al controllo giurisdizionale del giudice ordinario, quale giudice del lavoro; nella fase privatistica di gestione del rapporto avviene l'attribuzione dell'incarico della funzione dirigenziale, a norma dell'art. 19 d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, tenendo conto delle attitudini e delle capacità  professionali del singolo dirigente in rapporto a ciascun incarico; ma il dirigente pubblico può rimanere senza incarico, senza per questo perdere il suo status di pubblico dipendente con qualifica dirigenziale, ad esempio prima dell'assegnazione del primo incarico, negli intervalli tra un incarico e l'altro, o perché collocato in disponibilità . Ancora più differenziate, rispetto alla disciplina privatistica ' ha osservato la Corte ' sono le disposizioni legislative in tema di recesso; Mentre nel rapporto dirigenziale privato vale il principio della recedibilità  ad nutum, a norma dell'art. 2118 cod. civ., di cui costituisce una delle residue ipotesi di vigenza (e salva la disciplina contrattuale risarcitoria in caso di recesso ingiustificato), nel pubblico impiego il mancato raggiungimento degli obiettivi non comporta la possibilità  di risoluzione ad nutum del rapporto, ma tre sbocchi graduati a seconda della gravità  del caso, tutti causali: l'impossibilità  di rinnovo dell'incarico, la revoca dello stesso, il recesso dal rapporto di lavoro (art. 21, comma 5, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, ora comma 1, come sostituito dall'art. 2 legge 15 luglio 2002, n. 145). In tale quadro normativo ' ha affermato la Corte ' la norma cruciale risulta essere dunque l'art. 21 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 che nel testo originario cosà disponeva: «Nel caso di grave inosservanza delle direttive impartite dall'organo competente o di ripetuta valutazione negativa, ai sensi del comma 1, il dirigente, previa contestazione e contraddittorio, può essere escluso dal conferimento di ulteriori incarichi di livello dirigenziale corrispondente a quello revocato, per un periodo non inferiore a due anni; nei casi di maggiore gravità  l'amministrazione può recedere dal rapporto di lavoro, secondo le disposizioni del codice civile e dei contratti collettivi». Il testo modificato dalla legge 15 luglio 2002, n. 145 recita: «Il mancato raggiungimento degli obiettivi, ovvero l'inosservanza delle direttive imputabili al dirigente, valutati con i sistemi e le garanzie di cui all'articolo 5 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286, comportano, ferma restando l'eventuale responsabilità  disciplinare secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo, l'impossibilità  di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale. In relazione alla gravità  dei casi, l'amministrazione può, inoltre, revocare l'incarico collocando il dirigente a disposizione dei ruoli di cui all'articolo 23, ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo». Solo le mancanze più gravi, anche attinenti ad ambiti extra lavorativi (art. 27 medesimo Ccnl) ' ha osservato la Corte ' possono portare a recedere dal rapporto di lavoro e, con esso, dall'incarico sovrastante; la disciplina del recesso dal rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici non è dunque quella dell'art. 2118 cod. civ., propria dei dirigenti privati, ma segue i canoni del rapporto di lavoro dei dipendenti privati con qualifica impiegatizia, in coerenza con la tradizionale stabilità  del rapporto di pubblico impiego. La sentenza impugnata ' ha affermato la Corte ' risulta corretta nella parte in cui, ritenuta l'illegittimità  del recesso, ha condannato l'Agenzia delle dogane al risarcimento del danno costituito dalla perdita delle retribuzioni fino alla scadenza biennale dell'incarico dirigenziale, ma è affetta da violazione di legge nella parte in cui ha ritenuto che la scadenza dell'incarico comporti altresà la risoluzione del rapporto fondamentale stabile sottostante; deve infatti ritenersi che le conseguenze di un recesso illegittimo dal rapporto fondamentale, privo di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, siano di carattere reintegratorio. La Suprema Corte ha cosà motivato, sul punto, la sua decisione: 1) Interpretazione dell'art. 51 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. Tale norma apre il titolo IV dedicato alla disciplina del rapporto di lavoro di tutti i pubblici dipendenti di cui agli artt. 2, commi 2 e 3, e 3, comma 1, che comprendono anche i dirigenti, per i quali il titolo II disciplina gli aspetti relativi all'organizzazione degli uffici. Nell'ambito di queste norme organizzative è previsto che il pubblico dipendente che abbia determinati requisiti riassumibili nella sua attitudine dirigenziale, possa essere investito di un incarico dirigenziale, il quale accede al rapporto di lavoro di cui è titolare e si connota, quanto ai diritti e agli obblighi delle parti, secondo le previsioni contenute negli artt. 15 e ss. È previsto anche che entro certi limiti l'incarico dirigenziale possa essere affidato a soggetti estranei alla pubblica amministrazione e a questa non legati da alcun rapporto di lavoro. La disposizione che segue immediatamente al comma 2, secondo cui la legge 20 maggio 1970, n. 300 si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti, pone una deroga ai limiti di applicabilità  della legge stessa stabiliti dall'art. 35 dello Statuto, in relazione alle dimensioni occupazionali (15 dipendenti) delle imprese industriali e commerciali, per le quali la legge 20 maggio 1970, n. 300 era stata originariamente pensata. L'unicità  di tale deroga ha indotto la sentenza impugnata a ritenere che la legge 20 maggio 1970, n. 300 si applichi con i limiti categoriali di cui all'art. 10 legge 15 luglio 1966, n. 604, e cioè con esclusione dei dirigenti. Ma poiché il rapporto fondamentale stabile dei dipendenti pubblici con attitudine dirigenziale è assimilato dall'art. 21 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 a quello della categoria impiegatizia, e poiché l'art. 10 legge 15 luglio 1966, n. 604 si riferisce ai dirigenti privati, il Collegio ritiene che l'estensione operata dall'art. 51, comma 2, si applica anche al rapporto fondamentale di lavoro dei dirigenti pubblici. 2) Alla luce di questa interpretazione dell'art. 51 deve essere interpretato il contratto collettivo, cui l'art. 21, nuovo testo, rinvia per la disciplina della casistica e degli effetti del recesso illegittimo. L'art. 28 del Ccnl dispone che il licenziamento è nullo in tutti i casi in cui tale conseguenza è prevista dal codice civile e dalle leggi sul rapporto di lavoro dei dirigenti di impresa, e in particolare se è dovuto a ragioni politiche, religiose, sindacali, ovvero riguardante la diversità  di sesso, di razza o di lingua; o se è intimato, senza giusta causa, durante i periodi di sospensione previsti dall'art. 2110 cod. civ., salvo quanto previsto dagli artt. 20, comma 3 (sulla risoluzione del rapporto per inidoneità  per fisica permanente) e 21, comma 2 (sulla malattia riconosciuta dipendente da causa di servizio). In tutti i casi di licenziamento discriminatorio dovuto alle ragioni di cui alla lettera a) del comma 1 si applica l'art. 18 della legge 300 del 1970. Da tale ultima previsione la sentenza impugnata ha dedotto, con argomento a contrario, che nei licenziamenti non discriminatori non si applica l'art. 18. Si deve notare che lo stesso contratto collettivo, sull'art. 27, prevede che l'annullamento delle procedure di accertamento della responsabilità  fa venire meno il recesso; lo stesso contratto prevede pertanto la continuità  del rapporto per vizi formali circa l'accertamento delle responsabilità . 3) Nessun argomento a contrario può trarsi dal rinvio operato, in precedenza dall'art. 21, secondo comma, al codice civile, e ora dal contratto collettivo (art. 27) alla disciplina dell'art. 2119, perché tale norma, nel suo valore precettivo attuale, esprime soltanto l'esigenza che esista una giusta causa di recesso, mentre gli effetti che essa faceva discendere dalla mancanza di giusta causa (mero pagamento del preavviso) erano collegati alla disciplina dell'art. 2118, allora di portata generale, che sappiamo non essere applicabile ai dirigenti pubblici. 4) Il contratto collettivo della dirigenza pubblica applicabile al ricorrente non predispone una tutela risarcitoria per il recesso privo di giusta causa o giustificato motivo, a differenza dei contratti collettivi dei dirigenti industriali, che disciplinano le conseguenze risarcitorie del licenziamento ingiustificato. La Suprema Corte ha rinviato la causa, per nuovo esame, alla Corte d'Appello di Genova, enunciando per il giudice del rinvio, il seguente principio di diritto: «La illegittimità  del recesso dal rapporto di lavoro di una pubblica amministrazione con un dirigente della stessa comporta l'applicazione al rapporto fondamentale sottostante della disciplina dell'art. 18 legge 20 maggio 1970, n. 300, a norma dell'art. 51, comma 2, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, mentre all'incarico dirigenziale si applica la disciplina del rapporto a termine sua propria».
La sentenza di reintegrazione deve essere eseguita anche se durante il processo il lavoratore abbia compiuto 65 anni
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Antonio D., dipendente della Spa Poste italiane è stato licenziato il 1° febbraio 1995 per raggiungimento della massima anzianità  contributiva.Il pretore di Roma, al quale egli si è rivolto, con sentenza del 13 gennaio 1998 ha annullato il licenziamento ordinando la sua reintegrazione nel posto di lavoro. Il 3 febbraio 1998 il lavoratore ha comunicato all'azienda l'opzione, in base all'art. 18 Stat. lav., per il pagamento di quindici mensilità  della retribuzione, in luogo della reintegra. Poste italiane, rilevato che nel frattempo il lavoratore aveva compiuto il 65° anno di età , ha dichiarato di ritenere inapplicabile la reintegra perché il rapporto si era risolto ipso iure e per tale ragione ha rifiutato il pagamento dell'indennizzo. Antonio D. ha allora ottenuto un decreto ingiuntivo, contro il quale Poste italiane ha proposto opposizione. Il Tribunale di Roma ha respinto l'opposizione. In seguito a impugnazione proposta dall'azienda, la Corte di Appello di Roma ha confermato la sentenza di primo grado, cosà motivando: ' anche se il lavoratore ultrasessantenne non fruisce della tutela reale, una volta emessa sentenza di reintegrazione questa va eseguita; ' la questione inerente al compimento del 65° anno di età  da parte del lavoratore doveva essere proposta prima dell'emissione di tale sentenza; ' non può essere contestata la sussistenza del provvedimento di reintegra, laddove Antonio D. doveva, se del caso, essere nuovamente licenziato; ' finché la sentenza di reintegra non venga riformata, il lavoratore può validamente optare per il versamento delle quindici mensilità ; ' il rapporto di lavoro cosà ricostituito si estingue non già  al momento dell'esercizio della facoltà  di opzione, ma al momento del relativo pagamento; ' la misura dell'indennizzo deve essere rapportata al momento dell'esercizio dell'opzione e quindi deve corrispondere alla retribuzione globale di fatto, con esclusione delle voci eventuali o meramente indennitarie, ma comprese le corresponsioni continuative quali il premio di produttività  e l'indennità  di funzione. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte d'Appello per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. Dinanzi a un giudicato il quale accerta il diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro ' ha affermato la Corte ' non può il datore di lavoro unilateralmente ritenere che il rapporto di lavoro si sia risolto per altra causa, dovendo l'eventuale circostanza impeditiva alla reintegrazione essere fatta valere nel giudizio in cui la reintegrazione è stata disposta. Poiché per giurisprudenza costante, il Ccnl di settore, nella parte in cui prevede l'automatica risoluzione del rapporto di lavoro al compimento del 65° anno di età  del lavoratore, deve ritenersi nullo per violazione di norme imperative, la Corte di Appello ha esattamente ritenuto che la società  convenuta avrebbe, se del caso, dovuto procedere a nuovo licenziamento del lavoratore e non eccepire la presunta estinzione de iure del rapporto.
Per ottenere il trattamento di maternità non è indispensabile che la lavoratrice produca le previste certificazioni
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Maria T., dipendente della Ditta La Scaurese, dopo avere avuto un bambino, è stata licenziata al termine del periodo di astensione obbligatoria per maternità .Ella ha chiesto al pretore di Napoli di dichiarare la nullità  del licenziamento per violazione della normativa posta a tutela delle lavoratrici madri, di ordinare la sua reintegrazione nel posto di lavoro e di condannare l'azienda al pagamento della retribuzione dovuta dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione. L'azienda si è difesa sostenendo, tra l'altro, che la dipendente non aveva presentato né il certificato di gravidanza né quello di assistenza al parto, né quello di esistenza in vita del bambino. Il pretore ha dichiarato nullo il licenziamento e ha ordinato la reintegrazione di Maria T. nel posto di lavoro, ma non ha riconosciuto il suo diritto a percepire la retribuzione maturata nel periodo dal licenziamento alla reintegrazione. In grado di appello il Tribunale di Napoli, oltre a confermare la nullità  del licenziamento e l'ordine di reintegrazione, ha condannato l'azienda al pagamento delle retribuzioni per il periodo successivo al licenziamento, osservando che dagli atti processuali risultava l'effettiva conoscenza, da parte del datore di lavoro, della gravidanza e della maternità . L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione del Tribunale di Napoli, tra l'altro, per non avere attribuito rilevanza alla mancata presentazione da parte della lavoratrice della documentazione relativa alla maternità . La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. È vero ' ha osservato la Corte ' che la lavoratrice è tenuta a presentare al datore di lavoro e all'istituto assicurativo il certificato di gravidanza, e che, come prevede l'art. 4, terzo comma, del d.P.R. 25 novembre 1976, n. 1026, «la mancata prestazione di lavoro durante il tempo intercorrente tra la data di cessazione effettiva del rapporto di lavoro e la presentazione non dà  luogo a retribuzione», ma questo non significa che la presentazione del certificato sia indispensabile, anche soltanto al fine limitato del diritto alla retribuzione, e che non possa essere sostituita, a tutti gli effetti, dalla conoscenza effettiva, ottenuta anche altrimenti, che il datore di lavoro abbia avuto dello stato di gravidanza della lavoratrice. Quello che rileva, e che condiziona il diritto alla retribuzione ' ha affermato la Corte ' , è, in realtà , il fatto sostanziale della conoscenza da parte del datore di lavoro dello stato di gravidanza della dipendente, non il fatto formale dell'invio del certificato medico. Altrettanto vale, del resto, per quel che riguarda il parto e l'esistenza in vita del bambino: quello che rileva ai fini del diritto alle prestazioni collegate a questi eventi è la conoscenza effettiva che ne abbia il datore, non l'invio delle relative certificazioni mediche. Nel caso in esame ' ha precisato la Corte ' occorreva accertare perciò se in concreto la società  La Scaurese avesse avuto conoscenza della gravidanza della signora Maria T.; il Tribunale di Napoli ha compiuto questa indagine ed è giunto alla conclusione che era «indiscussa la preventiva conoscenza» da parte della società  «dello stato di gravidanza della dipendente, chiaramente evincibile dalla documentazione versata in atti, relativa alla corrispondenza intercorsa tra le parti». Di conseguenza la dipendente aveva diritto alla retribuzione intera, indipendentemente dal fatto formale della trasmissione, o meno, del certificato medico.
Il licenziamento del dirigente pubblico deve essere preceduto dalla richiesta di parere del comitato dei garanti
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Giovanni T. dipendente del Comune di Monselice con la qualifica dirigenziale di comandante della polizia municipaleè stato sottoposto a procedimento disciplinare, nel luglio del 2000, con una serie di addebiti: assenza di collaborazione con il segretario generale e con i colleghi; avere creato un clima di tensione nell'ambito della polizia municipale; avere assegnato incarichi dequalificanti ai suoi «nemici»; mancata conclusione di procedimenti; mancata organizzazione dei servizi; avere avuto comportamenti antitetici alla posizione dell'amministrazione in occasione di riunioni con partecipazione di terzi estranei all'ente; uso indebito della divisa; cancellazione indebita di files; percezione di indennità  non spettanti; ottenimento di un'illegittima autorizzazione a svolgere la professione di avvocato. Egli ha chiesto al Tribunale di Padova di dichiarare il licenziamento nullo e inefficace, e di condannare il Comune a reintegrarlo nel posto di lavoro e a risarcirgli il danno, sia perché il provvedimento era stato intimato senza la preventiva richiesta di parere al Comitato dei garanti previsto dall'art. 21 del decreto legislativo n. 29 del 1993, sia perché gli addebiti mossigli dovevano ritenersi tardivi e infondati. Il Comune di Monselice si è difeso sostenendo, tra l'altro, che la richiesta di parere preventivo del Comitato dei garanti era prevista solo in caso di «responsabilità  dirigenziale», mentre a Giovanni T. era stata attribuita una responsabilità  disciplinare. Il Tribunale di Padova ha rigettato il ricorso in quanto ha ritenuto legittimo il licenziamento. La Corte d'Appello di Venezia ha parzialmente riformato la sentenza di primo grado in quanto ha ritenuto che gli addebiti fossero in parte tardivi, perché riferiti a fatti verificatisi nel 1998 e nel 1999, e nelle residua parte non provati. La Corte ha peraltro escluso che dovesse essere richiesto il parere preventivo del Comitato dei garanti, trattandosi di licenziamento disciplinare e ha negato al dirigente la tutela reintegratoria limitandosi a condannare il Comune al pagamento di un'indennità  supplementare di 18 mensilità , per l'illegittimità  del licenziamento. Il dirigente ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza della Corte d'Appello di Venezia per avere escluso la necessità  della richiesta di parere preventivo al Comitato dei garanti e per avere negato la reintegrazione nel posto di lavoro. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. Quando il mancato raggiungimento degli obiettivi dipende da negligenza o inerzia del dirigente ' ha osservato la Corte ' la responsabilità  dirigenziale è tutt'uno con quella disciplinare o per mancanze; se il dirigente comunale assume posizioni in contrasto con le direttive dell'assessore o del sindaco, ovvero se conduce il servizio in modo da disorganizzarlo, la responsabilità  dirigenziale coincide con quella disciplinare. Nel caso in esame ' ha rilevato la Corte ' gran parte delle mancanze contestate al dirigente possono essere ricondotte o alla categoria del «mancato raggiungimento degli obiettivi», come ad esempio la disorganizzazione dell'ufficio o la mancata organizzazione dei servizi, ovvero a quella della «inosservanza grave» di direttive impartite dagli organi superiori, come l'assunzione di comportamenti antitetici a quelli espressi dall'amministrazione in caso di conferenze con enti terzi. Non è sufficiente, al riguardo, che il Comune abbia contestato gli addebiti come mancanze disciplinari per escludere il parere del Comitato dei garanti; viceversa, il parere è necessario in quanto gli addebiti corrispondano alle fattispecie previste dalla legge; altrimenti opinando ' ha osservato la Corte ' sarebbe sufficiente che un Comune contesti una serie di addebiti qualificandoli come «disciplinari» per eludere la necessità  del parere del Comitato dei garanti. Pertanto ' ha affermato la Corte ' deve ritenersi che in questo caso il parere del Comitato dei garanti fosse necessario e che la conseguenza del mancato interpello del Comitato sia la nullità  e inefficacia del licenziamento; infatti il parere di tale organo è un indefettibile presupposto per l'adozione del licenziamento del dirigente, in funzione di garanzia e a tutela del lavoratore contro l'arbitrio e comunque la discrezionalità  assoluta degli organi politici. Mancando tale presupposto, il provvedimento di licenziamento risulta adottato in carenza di potere, in mancanza di un presupposto di garanzia del lavoratore e quindi non semplicemente annullabile, ma nullo e inefficace, tale da comportare la prosecuzione de iure del rapporto di lavoro dirigenziale. Pertanto ' ha affermato la Corte ' il dirigente ha diritto a essere reintegrato in servizio e a percepire la retribuzione maturata a far tempo dalla data del licenziamento.
Legge Finanziaria 2007
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Il testo della legge Finanziaria 2007 si compone di un unico articolo formato da 1364 commi.Di seguito se ne riportano i più significativi in materia di lavoro, previdenza sociale e occupazione. Sulle procedure di regolarizzazione e stabilizzazione si rinvia comunque a quanto osservato nel precedente numero da A. Piccinini (in q. Riv. n. 1/2007, p. 27 ss.) Il comma 469 prevede che il Governo, con uno o più regolamenti, su proposta del ministro del Lavoro, di concerto con il ministro dell'Economia, e sentite le organizzazioni sindacali, proceda al riordino, alla semplificazione e alla razionalizzazione degli organismi preposti alla definzione dei ricorsi in materia pensionistica, al fine di ridurre il complesso della spesa di funzionamento delle amministrazioni pubbliche e di incrementarne l'efficienza. Il comma 523 specifica che le limitazioni per gli anni 2008 e 2009, relative alle assunzioni a tempo indeterminato, che interessano le amministrazioni pubbliche non si applicano per le assunzioni di personale appartenente a categorie protette e a quelle connesse con la professionalizzazione delle Forze armate. Per ciascun anno le amministrazioni pubbliche potranno procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato nel limite di contingente di personale complessivamente corrispondente a una spesa pari allo zero per cento di quella relativa alle cessazioni avvenute nell'anno precedente. Il comma 622 stabilisce che, dall'anno scolastico 2007/08, l'istruzione è obbligatoria per almeno dieci anni, al fine di far conseguire, entro il diciottesimo anno di età , un titolo di studio di scuola secondaria superiore o di una qualifica professionale di durata almeno triennale. «L'età  per l'accesso al lavoro è conseguentemente elevata da quindici a sedici anni». Il comma 749, modificando l'articolo 23 del decreto legislativo n. 252/2005, anticipa al 1° gennaio 2007 gli effetti della riforma della previdenza complementare, ciò significa che entro il 30 giugno 2007 i lavoratori potranno destinare o meno il trattamento di fine rapporto maturando ai Fondi pensione complementare. Per i lavoratori assunti dopo il 1° gennaio 2007 tale scelta sarà  da comunicare entro sei mesi dalla data di assunzione. Se entro tali scadenze il lavoratore non presenta al proprio datore di lavoro gli appositi moduli predisposti dal ministero del Lavoro con decreto del 30 gennaio 2007, scatta il silenzio-assenso. In tal caso il datore verserà  il Tfr, maturato nel corso dei sei mesi, alla forma pensionistica collettiva prevista dagli accordi o dai contratti collettivi o ad altra forma collettiva individuata con un diverso accordo aziendale. Qualora non esista alcuna di queste forme pensionistiche, il datore di lavoro dovrà  versare il Tfr alla forma pensionistica complementare istituita presso l'Inps. Dal 1° gennaio 2007 le imprese con almeno cinquanta dipendenti dovranno versare mensilmente al «Fondo per l'erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto di cui all'articolo 2120 del Codice civile», gestito per conto dello Stato dall'Inps su un apposito conto corrente aperto presso la Tesoreria dello Stato, il Tfr che i dipendenti hanno deciso di non versare ad alcuna forma pensionistica complementare. Per gli artigiani e i commercianti iscritti alle gestioni autonome dell'Inps l'aliquota contributiva è del 19,5 per cento per l'anno 2007 e del 20 per cento a partire dall'anno 2008 (comma 768). Per gli iscritti all'assicurazione generale obbligatoria, l'aliquota a carico del lavoratore viene aumentata dello 0,30 per cento, fermo restando che l'aliquota complessiva dovuta per l'Ivs non può comunque superare il 33 per cento (comma 769). Il comma 770 eleva, a partire dal 1° gennaio 2007, al 23 per cento l'aliquota contributiva pensionistica per gli iscritti alla Gestione separata dell'Inps (art. 2 comma 26 della legge n. 335/1995) che non risultino iscritti presso altre gestioni pensionistiche obbligatorie. Mentre l'aliquota per gli iscritti alla g estione separata dell'Inps e ad altre gestioni pensionistiche obbligatorie è pari al 16 per cento. Secondo il comma 772 tali incrementi contributivi non possono determinare una riduzione del compenso netto percepito dal collaboratore superiore a un terzo dell'aumento dell'aliquota. Inoltre «i compensi corrisposti ai lavoratori a progetto devono essere proporzionati alla quantità  e qualità  del lavoro eseguito e devono tenere conto dei compensi collettivi nazionali di riferimento». Il comma 773 stabilisce che la contribuzione dovuta dai datori di lavoro per gli apprendisti è, a decorrere dal 1° gennaio 2007, pari al 10 per cento della retribuzione imponibile a fini previdenziali. Per i datori di lavoro che hanno alle proprie dipendenze meno di dieci dipendenti tale percentuale si riduce all'8,5 per cento per il primo anno di contratto di apprendistato, e al 7 per cento per il secondo anno. Vengono inoltre estese agli apprendisti le disposizioni in materia di indennità  giornaliera di malattia. Il comma 774 stabilisce che, per le pensioni di reversibilità  decorrenti dall'entrata in vigore della legge n. 335/1995, l'indennità  integrativa speciale, già  in godimento del dante causa, sia riconosciuta nella misura percentuale fissata per il trattamento di reversibilità . Il comma 788 introduce per i lavoratori a progetto, e categorie assimilate, iscritti alla gestione separata dell'inps e «non titolari di pensione e non iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie, è corrisposta un'indennità  giornaliera di malattia a carico dell'Inps entro il limite massimo di giorni pari a un sesto della durata complessiva del rapporto di lavoro e comunque non inferiore a 20 giorni nell'arco dell'anno solare, con esclusione degli eventi morbosi di durata inferiore a quattro giorni». La prestazione è pari al 50 per cento dell'importo corrisposto a titolo di indennità  per degenza ospedaliera previsto per i lavoratori iscritti alla gestione separata. In caso di degenza ospedaliera sono indennizzabili massimo 180 giorni per anno solare. Ai lavoratori a progetto in tal caso sono applicabili le disposizioni in materia di fasce di reperibilità  e di controllo dello stato di malattia previste dall'art. 5 del decreto legge n. 463/1983. Ai lavoratori a progetto che abbiano titolo all'indennità  di maternità , è corrisposto un trattamento economico per congedo parentale, per un periodo di tre mesi entro il primo anno di vita del bambino, pari al 30 per cento del reddito preso a riferimento per la corresponsione dell'indennità  di maternità . Il comma 911 che sostituisce il comma 2 dell'articolo 29 del d.lgs. n. 276/2003 introduce l'importante principio secondo il quale il committente, l'appaltatore e ogni eventuale subappaltatore sono obbligati in solido a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti. Tale obbligo sussiste entro il limite di due anni dal termine dell'appalto. Il comma 910 modificando l'art. 7 del d.lgs. n. 626/1994, stabilisce che il datore di lavoro, non solo in caso di affidamento dei lavori a imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi all'interno della propria azienda, o di una singola unità  produttiva della stessa deve verificare l'idoneità  tecnico-professionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi, ma anche nell'ambito dell'intero ciclo produttivo dell'azienda medesima. Inoltre si specifica che «l'imprenditore committente risponde in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali ulteriori subappaltatori, per tutti i danni per i quali il lavoratore, dipendente dall'appaltatore o dal subappaltatore, non risulti indennizzato a opera dell'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro». Il comma 1160 istituisce l'accordo di solidarietà  tra generazioni con il quale è prevista, su base volontaria, la trasformazione a tempo parziale dei contratti di lavoro di dipendenti che abbiano compiuto 55 anni di età  e contemporaneamente l'assunzione con contratto di lavoro a tempo parziale, per un orario di lavoro pari a quello ridotto, di giovani inoccupati o disoccupati di età  inferiore ai 25 anni, o ai 29 anni se in possesso di diploma di laurea. Un decreto del ministro del Lavoro, di concerto con il ministro dell'Economia e delle finanze, stabilirà  le modalità  della stipula e i contenuti di tali accordi (comma 1161). Nel settore agricolo, l'omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti configura violazione penale ai sensi della legge n. 638/1983 (comma 1172). Dal 1° luglio 2007 tutti i tipi di benefici sia normativi che contributivi, previsti dalla normativa in materia di lavoro e legislazione sociale sono subordinati al possesso, da parte di datori di lavoro, del documento unico di regolarità  contributiva (Durc), fermo restando gli altri obblighi di legge e il rispetto degli accordi e contratti collettivi nazionali, nonché di quelli regionali, territoriali o aziendali stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (comma 1175). Un apposito decreto del ministro del Lavoro definirà  le modalità  del rilascio, i contenuti analitici del Durc, nonché le tipologie di pregresse irregolarità  di natura previdenziale e in materia di tutela delle condizioni di lavoro da non considerare ostative al rilascio del documento (comma 1176). Il comma 1177 quintuplica gli importi delle sanzioni amministrative previste per la violazione di norme in materia di lavoro, legislazione sociale, previdenza e tutela della sicurezza e salute nei luoghi di lavoro che sono entrate in vigore prima del 1° gennaio 1999. Il comma 1178 precisa altresà che l'omessa istituzione e l'omessa esibizione dei libri matricola e di paga sono punite con la sanzione amministrativa da euro 4.000 a euro 12.000. Il comma 1180, sostituendo il comma 2 dell'articolo 9-bis del decreto-legge n. 510/1996, stabilisce che la comunicazione di instaurazione del lavoro subordinato e autonomo, sia nella forma coordinata e continuativa che nella forma di collaborazione a progetto, di socio lavoratore di cooperativa e di associato in partecipazione con apporto lavorativo, deve essere fatta sia dai datori di lavoro privati che pubblici al centro per l'impiego competente nel cui ambito territoriale è ubicata la sede di lavoro entro il giorno antecedente a quello di instaurazione del rapporto, mediante documentazione avente data certa di trasmissione. La comunicazione deve essere effettuata anche per i tirocini di formazione e di orientamento e a ogni altro tipo di esperienza lavorativa a essi assimilata. Le Agenzie del lavoro sono invece tenute a comunicare, l'assunzione, la proroga e la cessazione dei lavoratori temporanei assunti nel mese precedente, entro il ventesimo giorno del mese successivo alla data di assunzione al centro per l'impiego competente nel cui ambito territoriale è ubicata la sede operativa. È previsto che solo in caso di urgenza, per motivi produttivi, la comunicazione dettagliata possa essere effettuata entro cinque giorni dall'instaurazione del rapporto. Entro il giorno antecedente deve comunque essere effettuata una comunicazione al centro per l'impiego competente, avente data certa di trasmissione, contenete la data di inizio della prestazione, le generalità  del lavoratore e del datore di lavoro. Il comma 1183 estende l'obbligo di comunicazione ai centri per l'impiego dei trasferimenti e dei distacchi dei lavoratori, della modifica della ragione sociale del datore di lavoro e al trasferimento di azienda o di ramo di essa. Non è più necessaria la comunicazione all'autorità  di pubblica sicurezza da parte di chi assume un lavoratore extracomunitario (comma 1181). Nel momento in cui sarà  effettivamente operativo il sistema di trasmissione dei dati fra i diversi enti, le comunicazioni di assunzione, cessazione, trasformazione e proroga dei rapporti di lavoro subordinato, autonomo, associato, dei tirocini e di alte esperienze professionali, inviate al centro per l'impiego competente, saranno valide ai fini dell'assolvimento degli obblighi di comunicazione nei confronti delle Direzioni regionali e provinciali del lavoro, dell'Inps, dell'Inail o di altre forme previdenziali sostitutive o esclusive, nonché della Prefettura ' Ufficio territoriale del Governo (comma 1184). Secondo il comma 1190 il ministro del Lavoro, di concerto con il ministro dell'Economia e delle finanze, può disporre, entro il 31 dicembre 2007, concessioni dei trattamenti di cassa integrazione guadagni straordinaria, di mobilità  e di disoccupazione speciale, nel caso di programmi di gestione di crisi occupazionali ovvero miranti al reimpiego di lavoratori coinvolti in detti programmi definiti in specifici accordi in sede governativa intervenuti entro il 15 giugno 2007 che recepiscono le intese già  stipulate in sede istituzionale territoriale e inviate al ministero del Lavoro entro il 20 maggio 2007. Il comma 1191 prevede che sia un decreto del ministro dei Trasporti, di concerto con il ministro del Lavoro, a stabilire i criteri secondo i quali erogare, per l'anno 2007, ai lavoratori portuali che prestano lavoro temporaneo nei porti, una indennità  pari al trattamento massimo di integrazione salariale straordinaria, nonché la relativa contribuzione figurativa e gli assegni al nucleo familiare. (Gazzetta Ufficiale del 27 dicembre 2006 n. 299, suppl. ordinario n. 244/l)
Supervisione enti pensionistici
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In attuazione della direttiva 2003/41/Ce il decreto in oggetto integra il decreto legislativo n. 252/2005,che disciplina le forme pensionistiche complementari, definendo che: a) un decreto del ministero dell'Economia e delle finanze, di concerto con il ministero del Lavoro e sentita la Covip, individuerà  le attività  nelle quali i fondi pensione possono investire le loro disponibilità , fissando eventualmente limiti massimi di investimento in un'ottica prudenziale; b) sono i fondi pensione a definire gli obiettivi e i criteri della propria politica di investimento e a dare informativa agli iscritti delle scelte di investimento, secondo modalità  definite dalla Covip; c) il patrimonio del fondo pensione deve essere investito in misura predominante sui mercati regolamentati; d) «i fondi pensione sono autorizzati dalla Covip all'erogazione diretta delle rendite, avuto riguardo all'adeguatezza dei mezzi patrimoniali costituiti e alla dimensione del fondo per numero di iscritti»; e) chiunque eserciti l'attività  di forma pensionistica senza le previste autorizzazioni è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con sanzioni pecuniarie. (Gazzetta Ufficiale n. 70 del 24 marzo 2007)
Le hostess impiegate per i congressi possono essere ritenute lavoratrici subordinate
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La Spa Palacongressi ha utilizzato, negli anni dal 1995 al 2000, numerose collaboratrici con funzioni di hostess per i congressi, in base a contratti di lavoro autonomo.L'Inps ha chiesto all'azienda il pagamento dei contributi previdenziali nella misura prevista per i rapporti di lavoro subordinato. L'opposizione proposta dalla società  è stata rigettata dal Tribunale di Trento, la cui decisione è stata confermata dalla locale Corte d'Appello, che ha rilevato, tra l'altro, l'assoggettamento delle lavoratrici alle disposizioni di una coordinatrice. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza della Corte di Trento per non avere, fra l'altro, considerato che le prestazioni richieste alle hostess erano di durata molto breve e che le relative modalità  erano concordate di volta in volta. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La Corte di Appello ' ha osservato la Cassazione ' ha motivato adeguatamente la sua decisione rilevando: «Che i lavoratori erano inquadrati all'interno dell'organizzazione lavorativa della società  appellante ricevendo indicazioni specifiche sulle mansioni da svolgere impartite dall'azienda, nel briefing successivo alla stipula del contratto», con la conseguenza che soltanto in questa riunione (quando l'impegno oramai era stato assunto, e non prima, quando il contratto non era stato stipulato), «erano precisate le connotazioni essenziali operative della prestazione lavorativa»; che le hostess erano tenute all'osservanza di queste prescrizioni per quanto riguarda l'orario di lavoro e che per le eventuali violazioni erano sottoposte a controlli e a rimproveri da parte della coordinatrice; che le modalità  di pagamento del compenso «uguale per tutti e rapportato alle ore lavorate», non erano incompatibili «con l'esistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato, apparendo la retribuzione rapportata a un comune indice di riferimento e cioè le ore delle prestazioni effettuate». Tutti questi elementi ' ha affermato la Suprema Corte ' sono stati coordinati logicamente in un quadro unitario secondo cui «i dipendenti paiono inseriti all'interno dell'organizzazione aziendale del datore di lavoro, a cui favore mettevano a disposizione le proprie energie lavorative, in assenza di alcun rischio e sempre sotto la direzione e la vigilanza da parte datoriale, espressa in direttive operative impartite nel briefing e affidati, per il controllo, alla coordinatrice, che esercitava il potere gerarchico e disciplinare».
Il pericolo di «burn out» per il personale sanitario non è sufficiente a giustificare la chiusura di un reparto psichiatrico
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Giovanni I., responsabile del Presidio ospedaliero di Latina, è stato sottoposto, nel 1989, a procedimento disciplinare,con l'addebito di aver chiuso per 24 ore il reparto psichiatrico, con sospensione delle accettazioni e dismissione dei pazienti, motivando la sua decisione con riferimento alle condizioni di sovraffaticamento del personale medico e paramedico, da lui ritenuto a rischio di «burn out» (esaurimento da stress cronico). L'azienda non ha accolto le sue giustificazioni, riferite alle gravi carenze organizzative del reparto, e lo ha licenziato. Il procedimento penale avviato nei suoi confronti per interruzione di pubblico servizio è stato archiviato. Giovanni I. ha chiesto al Tribunale di Latina l'annullamento del licenziamento e la reintegrazione nel posto di lavoro. Il Tribunale ha accolto la domanda. La Corte d'Appello di Roma ha invece ritenuto legittimo il licenziamento, osservando che nessun elemento consentiva di ritenere la sussistenza di una situazione di affaticamento del personale cosà prolungata da divenire assolutamente intollerabile; in ogni caso ' ha affermato la Corte ' anche di fronte al rischio di «burn out» cui era esposto il personale medico e paramedico, il responsabile del Servizio avrebbe dovuto adottare possibili misure alternative alla chiusura del reparto. Giovanni I. ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Roma per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, in quanto ha ritenuto che la Corte d'Appello abbia correttamente motivato la sua decisione affermando che sospendere le accettazioni, dimettere i pazienti e chiudere il reparto, anche solo per 24 ore, rappresentava, tenuto conto del tipo di servizio reso (a pazienti psichiatrici) un provvedimento estremo che non trovava adeguata giustificazione nelle pur oggettive condizioni di difficoltà  e di disagio del personale.
La qualifica di dirigente dello stato si acquisisce solo dopo la stipula del contratto con l’amministrazione
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Informazione e consultazione dei lavoratori
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Il decreto, in attuazione della direttiva 2002/14/Ce, istituisce un quadro generale in materia di diritto all'informazionee alla consultazione dei lavoratori nelle imprese situate in Italia che impiegano almeno cinquanta lavoratori. Tale limite numerico si verifica sul numero medio ponderato mensile dei lavoratori subordinati impiegati negli ultimi due anni, e i lavoratori «con contratto a tempo determinato sono computabili ove il contratto abbia durata superiore ai nove mesi». Il decreto definisce «informazione» come «ogni trasmissione di dati da parte del datore di lavoro ai rappresentanti dei lavoratori, finalizzata alla conoscenza e all'esame di questioni attinenti alla attività  di impresa» e come «consultazione » «ogni forma di confronto, scambio di opinioni e dialogo tra rappresentanti dei lavoratori e datore di lavoro su questioni attinenti alla attività  di impresa». Le modalità , i contenuti, le sedi e i tempi di informazione e consultazione dei lavoratori, ferme restando le eventuali prassi più favorevoli, devono essere definiti dai contratti collettivi. L'informazione e la consultazione devono riguardare: «a) l'andamento recente e quello prevedibile dell'attività  dell'impresa, nonché la sua situazione economica; b) la situazione, la struttura e l'andamento prevedibile dell'occupazione nella impresa, nonché, in caso di rischio per i livelli occupazionali, le relative misure di contrasto; c) le decisioni dell'impresa che siano suscettibili di comportare rilevanti cambiamenti dell'organizzazione del lavoro, dei contratti di lavoro ». La consultazione deve avvenire in modo da permettere ai rappresentanti dei lavoratori di incontrare il datore di lavoro e di ottenere risposte motivate, nonché di ricercare un accordo sulle decisioni del datore di lavoro. Se per comprovate esigenze organizzative, tecniche o produttive la comunicazione di informazioni può creare notevoli difficoltà  al funzionamento dell'impresa o da arrecarle danno, il datore di lavoro è esonerato dalla comunicazione di informazioni ai rappresentati dei lavoratori e alla relativa consultazione. Il datore di lavoro non è comunque obbligato a comunicare informazioni o a procedere a consultazioni Il decreto stabilisce che le informazioni fornite dal datore di lavoro in via riservata, o qualificate come tali, non possano essere rilevate né ai lavoratori né a terzi da parte dei rappresentanti dei lavoratori e dagli esperti che eventualmente li assistono. Il divieto di rilevare le informazioni permane fino a tre anni dopo la scadenza del mandato di rappresentante dei lavoratori. Qualora il divieto non fosse rispettato si applicano i provvedimenti disciplinari stabiliti dai contratti collettivi. Il decreto inizialmente si applica fino al 23 marzo 2007 solo nei confronti delle imprese che impiegano almeno 150 dipendenti; dal 24 marzo 2007 al 23 marzo 2008 solo nei confronti delle imprese che impiegano almeno 100 dipendenti. (Gazzetta Ufficiale n. 67 del 21 marzo 2007)
Le linee guida del Garante per posta elettronica e internet
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Il Garante ha dettato ai datori di lavoro alcune misure per conformare alle disposizioni vigenti il trattamento di dati personalieffettuato per verificare il corretto utilizzo nel rapporto di lavoro della posta elettronica e della rete internet. Il Garante ha preliminarmente chiarito che se è indubbio che competa ai datori di lavoro assicurare la funzionalità  e il corretto impiego di tali mezzi da parte dei lavoratori, definendone le modalità  d'uso nell'organizzazione dell'attività  lavorativa, occorre comunque tutelare i lavoratori interessati poiché l'utilizzo di internet da parte dei lavoratori può infatti formare oggetto di analisi, profilazione e integrale ricostruzione mediante elaborazione di log file della navigazione web ottenuti, ad esempio, da un proxy server o da un altro strumento di registrazione delle informazioni; anche i servizi di posta elettronica sono parimenti suscettibili (anche attraverso la tenuta di log file di traffico e-mail e l'archiviazione di messaggi) di controlli che possono giungere fino alla conoscenza da parte del datore di lavoro (titolare del trattamento) del contenuto della corrispondenza. Il Garante ha particolarmente sottolineato che in base al principio di correttezza, l'eventuale trattamento deve essere ispirato a un canone di trasparenza. Grava quindi sul datore di lavoro l'onere di indicare in ogni caso, chiaramente e in modo particolareggiato, quali siano le modalità  di utilizzo degli strumenti messi a disposizione ritenute corrette e se, in che misura e con quali modalità  vengano effettuati controlli. Ciò, tenendo conto della pertinente disciplina applicabile in tema di informazione, concertazione e consultazione delle organizzazioni sindacali. Ad avviso del Garante a questi fini può risultare opportuno adottare un disciplinare interno redatto in modo chiaro e senza formule generiche, da pubblicizzare adeguatamente (verso i singoli lavoratori, nella rete interna, mediante affissioni sui luoghi di lavoro con modalità  analoghe a quelle previste dall'art. 7 dello Statuto dei lavoratori, ecc.) e da sottoporre ad aggiornamento periodico. Disciplinare in cui andrebbe specificato (in via esemplificativa): a) se determinati comportamenti non sono tollerati rispetto alla «navigazione» in internet (ad es., il download di software o di file musicali), oppure alla tenuta di file nella rete interna; b) in quale misura è consentito utilizzare anche per ragioni personali servizi di posta elettronica o di rete, anche solo da determinate postazioni di lavoro o caselle oppure ricorrendo a sistemi di webmail, indicandone le modalità  e l'arco temporale di utilizzo (ad es., fuori dall'orario di lavoro o durante le pause, o consentendone un uso moderato anche nel tempo di lavoro); c) quali informazioni sono memorizzate temporaneamente (ad es., le componenti di file di log eventualmente registrati) e chi (anche all'esterno) vi può accedere legittimamente; d) se e quali informazioni sono eventualmente conservate per un periodo più lungo, in forma centralizzata o meno (anche per effetto di copie di back up, della gestione tecnica della rete o di file di log ); e) se, e in quale misura, il datore di lavoro si riserva di effettuare controlli in conformità  alla legge, anche saltuari o occasionali, indicando le ragioni legittime ' specifiche e non generiche ' per cui verrebbero effettuati (anche per verifiche sulla funzionalità  e sicurezza del sistema) e le relative modalità  (precisando se, in caso di abusi singoli o reiterati, vengono inoltrati preventivi avvisi collettivi o individuali ed effettuati controlli nominativi o su singoli dispositivi e postazioni); f) quali conseguenze, anche di tipo disciplinare, il datore di lavoro si riserva di trarre qualora constati che la posta elettronica e la rete internet sono utilizzate indebitamente; g) le soluzioni prefigurate per garantire, con la cooperazione del lavoratore, la continuità  dell'attività  lavorativa in caso di assenza del lavoratore stesso (specie se programmata), con particolare riferimento all'attivazione di sistemi di risposta automatica ai messaggi di posta elettronica ricevuti; h) se sono utilizzabili modalità  di uso personale di mezzi con pagamento o fatturazione a carico dell'interessato; i) quali misure sono adottate per particolari realtà  lavorative nelle quali debba essere rispettato l'eventuale segreto professionale cui siano tenute specifiche figure professionali; l) le prescrizioni interne sulla sicurezza dei dati e dei sistemi (art. 34 del Codice, nonché Allegato B), in particolare regole 4, 9, 10 ). Inoltre, con riguardo a eventuali controlli, gli interessati hanno infatti il diritto di essere informati preventivamente, e in modo chiaro, sui trattamenti di dati che possono riguardarli. Le finalità  da indicare possono essere connesse a specifiche esigenze organizzative, produttive e di sicurezza del lavoro, quando comportano un trattamento lecito di dati (art. 4, secondo comma, legge n. 300/1970 ); possono anche riguardare l'esercizio di un diritto in sede giudiziaria. Devono essere tra l'altro indicate le principali caratteristiche dei trattamenti, nonché il soggetto o l'unità  organizzativa ai quali i lavoratori possono rivolgersi per esercitare i propri diritti. Il datore di lavoro può riservarsi di controllare (direttamente o attraverso la propria struttura) l'effettivo adempimento della prestazione lavorativa e, se necessario, il corretto utilizzo degli strumenti di lavoro (cfr. artt. 2086, 2087 e 2104 cod. civ.). Nell'esercizio di tale prerogativa occorre però rispettare la libertà  e la dignità  dei lavoratori, in particolare per ciò che attiene al divieto di installare «apparecchiature per finalità  di controllo a distanza dell'attività  dei lavoratori» (art. 4, primo comma, legge n. 300/1970). Il trattamento di dati che ne consegue può risultare lecito a condizione che rispetti le procedure di informazione e di consultazione di lavoratori e sindacati in relazione all'introduzione o alla modifica di sistemi automatizzati per la raccolta e l'utilizzazione dei dati, nonché in caso di introduzione o di modificazione di procedimenti tecnici destinati a controllare i movimenti o la produttività  dei lavoratori. In applicazione del principio di necessità  il datore di lavoro è chiamato a promuovere ogni opportuna misura, organizzativa e tecnologica volta a prevenire il rischio di utilizzi impropri (da preferire rispetto all'adozione di misure «repressive») e, comunque, a «minimizzare» l'uso di dati riferibili ai lavoratori. Il datore di lavoro ha inoltre l'onere di adottare tutte le misure tecnologiche volte a minimizzare l'uso di dati identificativi (cd. privacy enhancing technologies' PETs). Le misure possono essere differenziate a seconda della tecnologia impiegata (ad es., posta elettronica o navigazione in internet). Il datore di lavoro, per ridurre il rischio di usi impropri della «navigazione» in internet (consistenti in attività  non correlate alla prestazione lavorativa quali la visione di siti non pertinenti, l'upload o il download di file, l'uso di servizi di rete con finalità  ludiche o estranee all'attività ), deve adottare opportune misure che possono, cosà, prevenire controlli successivi sul lavoratore. Tali controlli, leciti o meno a seconda dei casi, possono determinare il trattamento di informazioni personali, anche non pertinenti o idonei a rivelare convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, opinioni politiche, lo stato di salute o la vita sessuale. Il contenuto dei messaggi di posta elettronica ' come pure i dati esteriori delle comunicazioni e i file allegati ' riguardano forme di corrispondenza assistite da garanzie di segretezza tutelate anche costituzionalmente, la cui ratio risiede nel proteggere il nucleo essenziale della dignità  umana e il pieno sviluppo della personalità  nelle formazioni sociali; un'ulteriore protezione deriva dalle norme penali a tutela dell'inviolabilità  dei segreti (artt. 2 e 15 Cost.; Corte cost. 17 luglio 1998, n. 281 e 11 marzo 1993, n. 81; art. 616, quarto comma, cod. pen.; art. 49 Codice dell'amministrazione digitale). Tuttavia, con specifico riferimento all'impiego della posta elettronica nel contesto lavorativo e in ragione della veste esteriore attribuita all'indirizzo di posta elettronica nei singoli casi, può risultare dubbio se il lavoratore, in qualità  di destinatario o mittente, utilizzi la posta elettronica operando quale espressione dell'organizzazione datoriale o ne faccia un uso personale pur operando in una struttura lavorativa. La mancata esplicitazione di una policy al riguardo può determinare anche una legittima aspettativa del lavoratore, o di terzi, di confidenzialità  rispetto ad alcune forme di comunicazione. Tali incertezze si riverberano sulla qualificazione, in termini di liceità , del comportamento del datore di lavoro che intenda apprendere il contenuto di messaggi inviati all'indirizzo di posta elettronica usato dal lavoratore (posta «in entrata») o di quelli inviati da quest'ultimo (posta «in uscita»). Ad avviso del Garante è quindi particolarmente opportuno che si adottino accorgimenti anche per prevenire eventuali trattamenti in violazione dei principi di pertinenza e non eccedenza. Nell'effettuare controlli sull'uso degli strumenti elettronici deve essere evitata un'interferenza ingiustificata sui diritti e sulle libertà  fondamentali di lavoratori, come pure di soggetti esterni che ricevono o inviano comunicazioni elettroniche di natura personale o privata. L'eventuale controllo è lecito solo se sono rispettati i principi di pertinenza e non eccedenza. Nel caso in cui un evento dannoso o una situazione di pericolo non sia stato impedito con preventivi accorgimenti tecnici, il datore di lavoro può adottare eventuali misure che consentano la verifica di comportamenti anomali. Deve essere per quanto possibile preferito un controllo preliminare su dati aggregati, riferiti all'intera struttura lavorativa o a sue aree. Il controllo anonimo può concludersi con un avviso generalizzato relativo a un rilevato utilizzo anomalo degli strumenti aziendali e con l'invito ad attenersi scrupolosamente a compiti assegnati e istruzioni impartite. L'avviso può essere circoscritto a dipendenti afferenti all'area o settore in cui è stata rilevata l'anomalia. In assenza di successive anomalie non è di regola giustificato effettuare controlli su base individuale. Va esclusa l'ammissibilità  di controlli prolungati, costanti o indiscriminati. I sistemi software devono essere programmati e configurati in modo da cancellare periodicamente e automaticamente (attraverso procedure di sovraregistrazione come, ad esempio, la cd. rotazione dei log file ) i dati personali relativi agli accessi a internet e al traffico telematico, la cui conservazione non sia necessaria. In assenza di particolari esigenze tecniche o di sicurezza, la conservazione temporanea dei dati relativi all'uso degli strumenti elettronici deve essere giustificata da una finalità  specifica e comprovata e limitata al tempo necessario ' e predeterminato ' a raggiungerla (v. art. 11, comma 1, lett. e), del Codice ). Sulla base di queste considerazioni il Garante ha pertanto dettato le seguenti prescrizioni vincolanti: «1) prescrive ai datori di lavoro privati e pubblici, ai sensi dell'art. 154, comma 1, lett. c), del Codice, di adottare la misura necessaria a garanzia degli interessati, nei termini di cui in motivazione, riguardante l'onere di specificare le modalità  di utilizzo della posta elettronica e della rete internet da parte dei lavoratori (punto 3.1.), indicando chiaramente le modalità  di uso degli strumenti messi a disposizione e se, in che misura e con quali modalità  vengano effettuati controlli; 2) indica inoltre, ai medesimi datori di lavoro, le seguenti linee guida a garanzia degli interessati, nei termini di cui in motivazione, per ciò che riguarda: a) l'adozione e la pubblicizzazione di un disciplinare interno (punto 3.2.); b) l'adozione di misure di tipo organizzativo (punto 5.2.) affinché, segnatamente: ' si proceda a un'attenta valutazione dell'impatto sui diritti dei lavoratori; ' si individui preventivamente (anche per tipologie) a quali lavoratori è accordato l'utilizzo della posta elettronica e dell'accesso a internet; ' si individui quale ubicazione è riservata alle postazioni di lavoro per ridurre il rischio di impieghi abusivi; c) l'adozione di misure di tipo tecnologico, e segnatamente: â?¢ I. rispetto alla «navigazione» in internet (punto 5.2., a): ' l'individuazione di categorie di siti considerati correlati o non correlati con la prestazione lavorativa; ' la configurazione di sistemi o l'utilizzo di filtri che prevengano determinate operazioni; ' il trattamento di dati in forma anonima o tale da precludere l'immediata identificazione degli utenti mediante opportune aggregazioni; ' l'eventuale conservazione di dati per il tempo strettamente limitato al perseguimento di finalità  organizzative, produttive e di sicurezza; ' la graduazione dei controlli (punto 6.1.); â?¢ II. rispetto all'utilizzo della posta elettronica (punto 5.2., b): ' la messa a disposizione di indirizzi di posta elettronica condivisi tra più lavoratori, eventualmente affiancandoli a quelli individuali; ' l'eventuale attribuzione al lavoratore di un diverso indirizzo destinato a uso privato; ' la messa a disposizione di ciascun lavoratore, con modalità  di agevole esecuzione, di apposite funzionalità  di sistema che consentano di inviare automaticamente, in caso di assenze programmate, messaggi di risposta che contengano le «coordinate» di altro soggetto o altre utili modalità  di contatto dell'istituzione presso la quale opera il lavoratore assente; ' consentire che, qualora si debba conoscere il contenuto dei messaggi di posta elettronica in caso di assenza improvvisa o prolungata e per improrogabili necessità  legate all'attività  lavorativa, l'interessato sia messo in grado di delegare un altro lavoratore (fiduciario) a verificare il contenuto di messaggi e a inoltrare al titolare del trattamento quelli ritenuti rilevanti per lo svolgimento dell'attività  lavorativa. Di tale attività  dovrebbe essere redatto apposito verbale e informato il lavoratore interessato alla prima occasione utile; ' l'inserzione nei messaggi di un avvertimento ai destinatari nel quale sia dichiarata l'eventuale natura non personale del messaggio e sia specificato se le risposte potranno essere conosciute nell'organizzazione di appartenenza del mittente; ' la graduazione dei controlli (punto 6.1.); 3) vieta ai datori di lavoro privati e pubblici, ai sensi dell'art. 154, comma 1, lett. d), del Codice, di effettuare trattamenti di dati personali mediante sistemi hardware e software che mirano al controllo a distanza di lavoratori (punto 4), svolti in particolare mediante: a) la lettura e la registrazione sistematica dei messaggi di posta elettronica ovvero dei relativi dati esteriori, al di là  di quanto tecnicamente necessario per svolgere il servizio e-mail; b) la riproduzione e l'eventuale memorizzazione sistematica delle pagine web visualizzate dal lavoratore; c) la lettura e la registrazione dei caratteri inseriti tramite la tastiera o analogo dispositivo; d) l'analisi occulta di computer portatili affidati in uso; 4) individua, ai sensi dell'art. 24, comma 1, lett. g), del Codice, nei termini di cui in motivazione (punto 7), i casi nei quali il trattamento dei dati personali di natura non sensibile possono essere effettuati per perseguire un legittimo interesse del datore di lavoro anche senza il consenso degli interessati».
Normativa sul commercio Regione Liguria
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L'Autorità  garante ha formulato alcune osservazioni in merito alla legge 1/2007 della Regione Liguria,con cui è stato approvato il Testo Unico del Commercio in Liguria. L'Autorità  ha osservato che alcune disposizioni della legge in questione appaiono presentare profili di contrasto con la normativa a tutela della concorrenza, di cui alla legge 287/90, favorendo la cristallizzazione degli assetti esistenti e arrestando in modo artificioso l'evoluzione dell'offerta nel settore commerciale. In particolare, avrebbe portata potenzialmente restrittiva della concorrenza nel settore del commercio al dettaglio le norme relative alla classificazione dei punti vendita, nella misura in cui tale classificazione tra esercizi di vicinato, medie e grandi strutture di vendita, fornita dall'art. 15 della legge regionale, si discosta sensibilmente da quella prevista nel decreto legislativo 114/98. Secondo la disciplina regionale punti vendita di dimensioni limitate, anziché rientrare nella categoria dei cd. «esercizi di vicinato», sono qualificati come medie e grandi strutture di vendita, con il risultato di rendere più onerosa e sicuramente meno libera la loro apertura o ampliamento, giacché l'apertura delle medie strutture di vendita è soggetta ad autorizzazione rilasciata dal Comune competente per territorio mentre l'apertura delle grandi strutture di vendita è subordinata al rilascio dell'autorizzazione del Comune competente per territorio mediante Conferenza di servizi. Fornendo parametri dimensionali inferiori per le definizioni di media e grande struttura di vendita, la legge regionale finisce indirettamente per imporre oneri ingiustificatamente restrittivi all'apertura e all'ampliamento dei punti vendita di minori dimensioni. Inoltre con riferimento alla disciplina delle vendite promozionali, la legge regionale stabilisce limitazioni temporali e merceologiche allo svolgimento di tali vendite che risultano in contrasto con il divieto di imporre limitazioni di ordine temporale, tranne che nei periodi immediatamente precedenti i saldi di fine stagione per i medesimi prodotti, contenuto nell'art. 3, comma 1, lett. f) della legge 248/2006 ed eccessivamente penalizzanti della libertà  di iniziativa economica degli operatori del settore e tale da limitare gli strumenti e gli spazi di concorrenza tra gli stessi. L'Autorità  ha quindi auspicato un riesame della materia da parte della Regione Liguria.
Regione Lazio: affidamento del servizio di soccorso in emergenza
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L'Autorità  garante ha formulato alcune osservazioni in merito alle modalità  di affidamento del servizio di soccorso in emergenza nella città  di Latina e provincia.La legge regionale del Lazio n. 9/2004 affida all'ente regionale Ares 118 il compito di attivare «procedure per l'eventuale utilizzazione dei mezzi di soccorso autorizzati al funzionamento, gestiti [â?¦] dagli altri enti e organismi pubblici e privati, ivi compresa l'Associazione italiana della Croce rossa, accreditati ai sensi della normativa vigente». Alla luce di tale disposizione l'Ares 118 ha affidato a Cri in via diretta, ossia senza lo svolgimento di una gara, il servizio in questione. L'Autorità  ha ribadito che, al fine di garantire il libero gioco della concorrenza nei settori in cui è necessario affidare la gestione di un servizio pubblico a un solo soggetto, l'affidamento del servizio mediante gara (la cd. concorrenza per il mercato) costituisce un essenziale strumento per l'individuazione dei gestori del servizio secondo modalità  che consentano il corretto funzionamento del mercato. In applicazione dei principi dell'economia di mercato e della libera concorrenza oltre che a garanzia della libera prestazione dei servizi nell'ambito del mercato unico europeo, il diritto comunitario prevede una disciplina degli appalti pubblici di servizi fondata sulla non discriminazione, sulla parità  di trattamento e sulla trasparenza. Coerentemente, tale disciplina individua la gara come procedura tendenzialmente esclusiva di aggiudicazione. Come noto, tali regole generali sono state considerate applicabili anche alle concessioni di pubblici servizi, come chiarito dalla Commissione Ue (Comunicazione interpretativa sulle concessioni nel diritto comunitario del 12 aprile 2000) e come sancito dalla Corte di Giustizia (sentenza del 7 dicembre 2000, Telaustria Verlags GmbH e Telefonadress GmbH contro Telekom Austria AG, causa C-324/98). Peraltro, tali principi informano anche l'ordinamento nazionale che ha esplicitato all'articolo 117, comma 2, lettera e) della Costituzione il principio di tutela e promozione della concorrenza. Sulla base di tali principi, dunque, l'Autorità  ha sottolineato la necessità  di rispettare il principio di tutela e promozione della concorrenza, che si concretizza nel caso in esame nella necessità  di procedere all'affidamento di tale servizio attraverso procedimenti pubblici di selezione. La selezione del contraente a mezzo gara può non operarsi solo nei settori in cui specifiche caratteristiche oggettive dell'attività , tecniche ed economiche, impongono e giustificano una limitazione del numero dei soggetti ammessi a operare. Anche le organizzazioni sanitarie, soggette a un regime speciale che forniscono servizi di trasporto di urgenza, sono imprese; ciò, peraltro, anche nei casi in cui taluni obblighi di servizio pubblico possono rendere i servizi forniti dall'organizzazione sanitaria meno competitivi dei servizi resi da altri operatori non vincolati da alcun obbligo di servizio pubblico (Corte di Giustizia, V sez., 25 ottobre 2001). Inoltre, la rilevanza economica del servizio pubblico in questione sarebbe confermata dalla circostanza per cui tale servizio era stato precedentemente fornito da enti di diritto privato e che l'affidamento a Cri prevede lo stesso tipo di remunerazione riconosciuta ai precedenti operatori. Anche le caratteristiche di Cri, quale ente attivo nel volontariato e ispirato anche a principi di solidarietà , non esimono la stessa Cri dall'assoggettabilità  alle regole di concorrenza almeno nei casi in cui svolga attività  economica.
Delibera di indirizzo sulla concentrazione nel trasporto aereo
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La Commissione ha espresso l'avviso che, in attesa della revisione della disciplina di settore,la concentrazione degli scioperi nel settore dell'assistenza al volo è consentita, nella stessa data e nello stesso orario, quando interessino lo stesso Centro di controllo e, quindi, non importino un ampliamento degli effetti dello sciopero proclamato per primo.
Assemblea nella fascia protetta
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La Commissione ha valutato negativamente l'indizione di assemblee dei lavoratori Alitalia da parte delle Oo.Ss.Fit Cisl e Uiltrasporti della Regione Lombardia per un giorno per cui era stato indetto uno sciopero proprio in orario ricompreso nella fascia protetta stabilita dall'art. 9 della Regolamentazione provvisoria delle prestazioni indispensabili nel Trasporto aereo (deliberazione n. 1/92 del 19 luglio 2001). La Commissione ha ribadito l'orientamento espresso con la delibera di indirizzo generale sull'applicabilità  della legge n. 146/1990 secondo cui «l'assemblea in orario di lavoro, pur se incidente nei servizi pubblici essenziali, non è assoggettata alla disciplina di cui alla legge n. 146/1990 e successive modifiche, laddove sia convocata e si svolga secondo quanto previsto dall'art. 20 della legge n. 300/1970 e dalla contrattazione collettiva, a condizione che la disciplina contrattuale garantisca l'erogazione del servizio minimo. Ogni assemblea che ' pur convocata ai sensi dell'art. 20 della legge n. 300/1970 ' si svolga con modalità  differenti rispetto a quelle previste dalla contrattazione collettiva, ivi compresa la mancata assicurazione dei servizi minimi, sarà  considerata astensione dal lavoro soggetta alla disciplina della legge n. 146/1990 e successive modifiche, laddove incidente sui servizi pubblici essenziali ». Poiché nel caso in esame non erano state garantite le prestazioni minime in costanza di assemblea la Commissione è giunta alla valutazione negativa del comportamento delle Oo.Ss. che avevano indetto le assemblee.
Astensione dal lavoro straordinario «contrattualizzato»
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Secondo il costante orientamento della Commissione di Garanzia, l'astensione dal lavoro straordinario costituisce una forma di scioperosoggetta alle previsioni della legge n. 146/1990 solo in quanto si riferisca a prestazioni di lavoro straordinario «contrattualizzate», che possano essere, cioè, legittimamente richieste dall'azienda ai lavoratori e che questi siano tenuti obbligatoriamente a effettuare (v. delibera n. 03/130 dell'11 settembre 2003. Nel caso in che, secondo il costante orientamento della Commissione di Garanzia, l'astensione dal lavoro straordinario costituisce una forma di sciopero soggetta alle previsioni della legge n. 146/1990 e ss. mod. solo in quanto si riferisca a prestazioni di lavoro straordinario «contrattualizzate», che possano essere, cioè, legittimamente richieste dall'azienda ai lavoratori e che questi siano tenuti obbligatoriamente a effettuare (v. delibera n. 03/130 dell'11 settembre 2003). Nel caso di specie la Commissione ha ritenuto di non valutare negativamente l'astensione improvvisa dall'effettuare prestazioni di lavoro straordinario in quanto dette prestazioni non potevano essere considerate «contrattualizzate», in quanto non obbligatorie per i lavoratori che ne vengono richiesti. Dall'istruttoria, infatti, era emerso che in base ad accordi sindacali, nonché alla prassi per anni costantemente seguita, l'azienda individua preventivamente i lavoratori che dovrebbero assicurare le prestazioni straordinarie consegnando loro con alcuni giorni d'anticipo un biglietto di «assegnazione servizio»; i lavoratori destinatari della «assegnazione servizio », però, possono liberamente ritirare o meno il relativo «biglietto», restando convenuto che il mancato ritiro implica il diniego alla richiesta di effettuazione di prestazioni di lavoro straordinario; l'eventuale diniego espresso attraverso il mancato ritiro del biglietto di «assegnazione servizio» non comporta per i lavoratori alcuna conseguenza, considerato che l'azienda ritiene passibili di provvedimento disciplinare solo quei lavoratori che non rendono la prestazione di lavoro straordinario dopo aver ritirato il biglietto.
Licenziamenti collettivi – Cessazione delle attività dello stabilimento dovuta alla volontà del datore di lavoro
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Pubblico impiego – Contratto di lavoro a tempo determinato – Successione di contratti nel tempo – Illegittimità
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Pubblico impiego – Diritto allo studio – Permessi retribuiti per esami – Cumulabilità con permessi per la frequenza di co
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Procedura di selezione interna – Svolgimento illegittimo – Risarcimento del danno da perdita di chance
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Infortunio – Malattia professionale – Risarcimento dei danni – Rinunzie e transazioni
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Omessa attribuzione superminimo – Discriminazione – Insussistenza
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Nozione di unità produttiva – Impugnativa trasferimento – Sussistenza
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Demansionamento – Danno esistenziale – Onere della prova
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Contratto di appalto – Somministrazione di lavoro – Effettivo datore di lavoro
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Competenza del giudice – Controversia tra socio e cooperativa – Esclusione del socio lavoratore di cooperativa
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Indizione dell’assemblea – Prerogativa del singolo componente Rsu – Insussistenza – Conseguente comportamento antisindac
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Rimborso spese legali per il processo penale subito da medico convenzionato in dipendenza dell’attività ospedaliera
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Diritto al computo della maggiorazione per lavoro notturno nelle ferie – Insussistenza
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Diritto all’indennità di maternità di lavoratrice agricola – Presunzione di gratuità del rapporto derivante da legame fam
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Accertamento di lavoro subordinato di socio – Esclusione – Provvedimento di esclusione da socio
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Licenziamento collettivo – Falsa collocazione delegato sindacale in reparto soppresso – Comportamento antisindacale: sussist
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Illegittimità del licenziamento per mancata indicazione nella contestazione della sanzione applicabile come previsto dal ccnl
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Un lavoratore conveniva in giudizio la Società  datrice di lavoro impugnando il licenziamento intimatogli per motivi disciplinari,deducendo l'illegittimità  del medesimo per violazione delle disposizioni legislative e contrattuali disciplinanti il procedimento disciplinare e contestando nel merito la fondatezza degli addebiti mossigli. Veniva quindi chiesta la dichiarazione di nullità  e/o illegittimità  del licenziamento con applicazione della tutela reintegratoria ex art.18 legge 300/70; veniva altresà chiesta la pronuncia di illegittimità  della sospensione cautelare dal servizio e dalla retribuzione con condanna della Società  alla corresponsione degli emolumenti stipendiali relativi. Dopo il deposito di memorie e la discussione finale, il giudice del lavoro accoglieva la domanda, deducendo in primo luogo che il Ccnl applicato pacificamente dall'azienda convenuta (settore Igiene ambientale) prevedeva espressamente che le mancanze comportanti provvedimenti superiori al rimprovero verbale dovessero essere tempestivamente contestate per iscritto al lavoratore con l'indicazione dei motivi e degli addebiti, nonché con l'indicazione della sanzione applicabile per la mancanza contestata. La lettera di contestazione formulata dall'azienda non conteneva l'indicazione della sanzione disciplinare applicabile; sul punto la Suprema Corte ha più volte osservato (Cass., 2465/89; Cass., 8702/00) che l'omessa indicazione della sanzione applicabile nel caso in cui ciò sia previsto dalla contrattazione collettiva influisce sulla validità  della sanzione adottata dal datore di lavoro. Ciò inoltre qualora tale omissione sia tale da influire sul sistema difensivo del lavoratore incolpato, ovverosia quando il comportamento del dipendente non costituisca di per sé un'ipotesi tipica di licenziamento per giusta causa, come nel caso di specie. Questo ragionamento conserva la propria validità  nonostante la decisione di sospendere cautelativamente il dipendente presa dall'azienda; infatti, nella specie il datore di lavoro si era limitato a comunicare al dipendente la sospensione cautelativa senza nulla dire in ordine alla retribuzione, applicando quindi una misura cautelativa neutra rispetto al tipo di sanzione applicabile all'esito del procedimento disciplinare, in attesa dell'accertamento della entità  della mancanza. Il giudicante ha quindi ritenuto che il licenziamento impugnato fosse da ritenersi illegittimo a causa dell'inosservanza di una garanzia procedimentale prescritta dalla contrattazione collettiva vincolante per il datore di lavoro; stante l'applicabilità  nel caso di specie del regime di tutela reale, la Società  è stata condannata a reintegrare il lavoratore e a risarcire il danno mediante il versamento delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento sino alla data di reperimento della nuova occupazione, come accertato in corso di causa, oltre alla regolarizzazione assicurativa e previdenziale relativa.
Le risoluzioni consensuali non rilevano ai fini dell'apertura della procedura di mobilità
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Nell'ambito di un progetto di ristrutturazione una società  concordava con le Oo.Ss. un programma di gestione degli esuberi su base consensualeprevedendo forme di incentivazione. All'esito del programma due lavoratori, risultati in esubero rispetto al progettato nuovo assetto dell'azienda venivano licenziati per giustificato motivo oggettivo. I lavoratori impugnavano innanzi al Tribunale di Napoli i licenziamenti deducendo la violazione della procedura di cui alla legge 23 luglio 1991 n. 223. La società  convenuta si costituiva osservando che la procedura di mobilità  non era stata avviata in considerazione del rilievo che l'azienda non aveva effettuato il numero dei licenziamenti previsto dalla normativa ai fini della consultazione con le Oo.Ss. I giudici di merito rigettavano le domande dei lavoratori. La Corte di Cassazione, nel respingere il ricorso di legittimità , ha affermato la correttezza della decisione della Corte di Appello che aveva escluso che l'applicabilità  della procedura in considerazione della differenza che sussiste tra l'intenzione di effettuare almeno cinque licenziamenti e l'intenzione di eliminare almeno cinque posti di lavoro gestendoli in forme alternative al licenziamento. La Cassazione ha quindi affermato l'inammissibilità  di una piena equiparazione tra le diverse forme di gestione degli esuberi atteso che il datore di lavoro può anche avere intenzione di eliminare i posti di lavoro esclusivamente attraverso forme alternative per evitare i «fastidi» e i «rischi» connessi con la procedura di mobilità . La Suprema Corte ha quindi ritenuto che trovi applicazione la procedura di consultazione sindacale solo laddove l'intenzione del datore di lavoro di gestire gli esuberi si accompagni alla volontà  di utilizzare il licenziamento quale mezzo per l'obiettivo prefissato.
L'incapacità a gestire un ufficio può costituire una valida esigenza per intimare un trasferimento di sede
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Un quadro addetto a un ufficio postale della società  veniva trasferito dall'ente poste ad altro ufficio di minore importanza.Il trasferimento veniva motivato dall'inadeguatezza del lavoratore a gestire un ufficio postale di rilevanti dimensioni che aveva evidenziato, nel corso di una ispezione disposta dall'azienda, notevoli carenze nella sua organizzazione della sede e del personale addetto. Il lavoratore contestava il trasferimento ritenendo lo stesso punitivo e avente carattere di una sanzione atipica non ammessa dall'art. 7 dello Statuto. Il trasferimento veniva annullato dal pretore di Latina e dal Tribunale in sede di appello. La decisione di secondo grado è stata riformata dalla Suprema Corte che ha affermato che il trasferimento del dipendente dovuto a incompatibilità  aziendale, trovando la sua ragione nello stato di disorganizzazione e disfunzione dell'unità  produttiva, va ricondotto alle esigenze tecniche, organizzative e produttive, di cui all'art. 2103 cod. civ., piuttosto che, sia pure tipicamente, a ragioni punitive e disciplinari, con la conseguenza che la legittimità  del provvedimento datoriale di trasferimento prescinde dalla colpa (in senso lato) dei lavoratori trasferiti, come dall'osservanza di qualsiasi altra garanzia sostanziale o procedimentale che sia stabilita per le sanzioni disciplinari. In tali casi, il controllo giurisdizionale sulle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, che legittimano il trasferimento del lavoratore subordinato, deve essere diretto ad accertare soltanto se vi sia corrispondenza tra il provvedimento datoriale e le finalità  tipiche dell'impresa, e, trovando un preciso limite nel principio di libertà  dell'iniziativa economica privata (garantita dall'art. 41 Cost.). Nel precisare tale principio la Corte ha ulteriormente chiarito che il controllo stesso non può essere esteso al merito della scelta imprenditoriale, né questa deve presentare necessariamente i caratteri della inevitabilità , essendo sufficiente che il trasferimento concreti una tra le scelte ragionevoli che il datore di lavoro possa adottare sul piano tecnico, organizzativo o produttivo». Nel cassare la decisione Nel caso di specie ' ha osservato la Cassazione ' dal verbale ispettivo, per come riportato dalla sentenza impugnata, emerge che l'ente Poste italiane non ha contestato a Franco T. delle colpe specifiche, né le ha sanzionate con misure disciplinari, ma una inadeguatezza al ruolo di dirigente di una grande filiale, il che esclude anche che il trasferimento abbia avuto un carattere specificamente disciplinare; infatti l'inadeguatezza alla direzione di una struttura aziendale o al raggiungimento di risultati di efficienza non costituisce di per sé un fatto disciplinare, dovendo avere questo come connotato una responsabilità  colposa soggettiva, per il quale si richiede un comportamento volontario almeno colposo. Alla luce dei rilievi svolti e dell'obbligo istituzionale configurabile i capo alla società  detta al servizio postale lo strumento adottato dalla Spa Poste italiane per restituire funzionalità  all'agenzia dove era originariamente addetto il funzionario mediante l'assegnazione di un dirigente più capace risulta essere assolutamente legittimo, e il trasferimento del precedente dirigente, sotto la cui gestione si erano verificati i gravi disservizi (mancata consegna della corrispondenza) rilevati dal servizio ispettivo e non contestati, deve ritenersi confortato da obiettive esigenze organizzative.
L'assegnazione di mansioni inferiori a un lavoratore divenuto in parte inidoneo al lavoro richiede il consenso del lavoratore
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Un lavoratore divenuto inabile al lavoro impugnava innanzi al Tribunale di Catania il licenziamento intimatogli dalla società .Nel corso del giudizio la sentenza di primo grado che aveva dichiarato l'illegittimità  del licenziamento veniva riformata dalla locale Corte di Appello. La Suprema Corte ha respinto il ricorso di legittimità  del lavoratore rilevando che nel caso in cui il lavoratore divenga parzialmente inidoneo al lavoro al dipendente va riconosciuto il diritto a pretendere una collocazione lavorativa non pretestuosa ma idonea a salvaguardare la salute del dipendente nel rispetto dell'organizzazione aziendale. Tale diritto impone al datore di lavoro di esercitare il ius variandi nel rispetto sia dei canoni della correttezza e della buona fede sia delle regole poste a salvaguardia della salute. Sulla base di tali principi ' prosegue la Corte di Cassazione ' il datore di lavoro dovrà  cercare di addurre il lavoratore alle stesse mansioni o al altre equivalenti e, solo se ciò è impossibile, a mansioni inferiori. In tale ultimo caso, ' conclude il giudice di legittimità  ' occorre il consenso del prestatore in quanto è richiesta una modifica del contratto di lavoro al fine di adeguarlo alla nuova situazione di fatti.
Vantare grossolanamente con i colleghi una relazione intima con un superiore gerarchico configura giusta causa di licenziamento
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Un lavoratore dipendente di una casa di cura veniva licenziato per avere formulato delle avances a una collega di lavoro,suo superiore gerarchico, vantando, successivamente con i colleghi in forma grossolana una relazione intima con la lavoratrice. Nel corso del giudizio il Tribunale di Napoli dichiarava l'illegittimità  del licenziamento rilevando che la fattispecie delle molestie sessuali era prevista dal Ccnl applicato dall'azienda che sanzionava tale condotta con un provvedimento conservativo. La locale Corte di Appello riformava la decisione dichiarando la legittimità  del recesso. La Corte di Cassazione, nel respingere il gravame del lavoratore che deduceva la tipicità  della sanzione ai sensi della disciplina collettiva, pur ribadendo che la previsione di un contratto collettivo impedisce al giudicante di applicare una sanzione più grave di quella prevista ha comunque osservato che correttamente la sentenza della locale corte di appello aveva qualificato la grossolanità  delle affermazioni unitamente al millantato rapporto da parte del dipendente circostanze da un lato estranee alla fattispecie contrattuale di molestia e dall'altro, aggravanti la condotta individuata dalle parti stipulanti il contratto collettivo.
La Cassazione torna ancora sulla valutazione equitativa del danno da dequalificazione
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Un lavoratore, addetto originariamente a mansioni implicanti una particolare professionalità  veniva tenuto per lunghi periodi del tutto inattivodalla società  datrice di lavoro. Il lavoratore interessava, quindi, il Tribunale di Torino rivendicando il risarcimento del danno e la domanda veniva respinta dal giudice di primo grado sul presupposto della mancanza della prova di un danno. La Corte di Appello riformava la decisione del giudice di prima istanza condannando la società  al risarcimento in una misura stabilita in via equitativa. La Corte di Cassazione nel respingere il gravame della società  ha rilevato che correttamente i giudici di merito, una volta accertato l'allontanamento lavorativo, avevano ritenuto che tale condotta aveva determinato un danno da perdita di esperienza professionale incidente sul patrimonio del lavoratore valutabile equitativamente dal giudice.
La Corte di Cassazione ritorna ancora sulla determinazione equitativa delle retribuzioni per fatti ambientali e territoriali
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Un lavoratore al fine di vedersi riconoscere il pagamento di differenze retributive calcolate sulla base di minimi del Ccnl metalmeccaniciadiva il pretore di Molfetta che liquidava le differenze retributive stabilendo equitativamente un ammontare inferiore ai minimi del Ccnl in considerazione delle dimensioni dell'azienda e del contenuto costo della vita nella zona dove il prestatore aveva svolto la propria attività  lavorativa. La sentenza veniva confermata in sede di appello dal Tribunale di Trani. La Cassazione, nell'accogliere il ricorso del lavoratore ha richiamato alcuni precedenti in forza dei quali si ritiene l'illegittimità  di ogni statuizione del giudice del merito che determini la retribuzione in via equitativa in misura inferiore ai minimi contrattuali aziendali con il solo richiamo a condizioni ambientali e territoriali e/o alle dimensioni dell'azienda. Tali circostanze ' conclude la Corte ' rendono del tutto errata la motivazione di una decisione che per escludere l'applicabilità  dei minimi salariali si rifaccia alle modeste dimensioni dell'azienda in quanto tale iter argomentativo disattende il precetto costituzionale rivolto a impedire ogni forma di sfruttamento del dipendente anche quando trova radice nella situazione socio economica del mercato del lavoro.
Revirement della Cassazione in tema di onere di motivazione del trasferimento
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Un lavoratore adiva il Tribunale di Pescara deducendo l'illegittimità  e l'inefficacia di un licenziamento intimatoglia seguito della mancata presentazione sul nuovo posto di lavoro cui era stato assegnato a seguito di un trasferimento ritenuto dal dipendente illegittimo. Il giudice di primo grado nel ritenere non giustificato il rifiuto della prestazione opposto dal lavoratore rigettava la domanda con sentenza confermata dalla competente corte di appello abruzzese. La Corte di Cassazione nell'esaminare la doglianza del lavoratore relativamente alla mancata esplicitazione dei motivi del provvedimento di trasferimento rigettava il motivo di gravame precisando da un lato che la corte di appello aveva dato compiutamente conto della circostanza che la lettera di trasferimento era sufficientemente motivata e dall'altro che l'azienda non era tenuta a dare riscontro alla richiesta atteso che il provvedimento di trasferimento richiede alcun onere di forma ma solo quello probatorio delle giustificate esigenze in sede di contestazione.
Invalidi civili e limiti reddituali
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Il Tribunale di La Spezia, con ordinanza pubblicata in G.U. n. 15 dell'11 aprile 2007, ha dichiaratorilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità  costituzionale delle norme impugnate nella parte in cui non prevedono, anche per il richiedente la pensione di inabilità  civile, di cui all'art. 12, legge n. 118 del 1971, l'esclusione, dal computo dei redditi, di quelli percepiti dagli altri componenti il suo nucleo familiare (come invece avviene in relazione alla richiesta di invalidità  civile, per la quale vengono considerati i soli redditi personali). Tale situazione costituisce una grave lesione del principio di uguaglianza, tanto più considerando che a una prestazione come la pensione di inabilità  civile (che presuppone un bisogno socialmente rilevante piuttosto consistente) corrisponde un requisito reddituale più aspro rispetto a quello richiesto per l'invalidità  civile, che di per sé presuppone invece una situazione di minore bisogno del soggetto richiedente.
Dirigenza pubblica e spoils system
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La Corte costituzionale, con sentenza n. 103 depositata il 23 marzo u.s., ha ritenuto fondate le questioni di legittimità  costituzionaledella norma (contenuta nella legge n. 145 del 2002, cd. «riforma Frattini») che ha previsto per i dirigenti generali dello Stato il meccanismo cd. spoils system una tantum. Le questioni di costituzionalità  sono state sollevate da sette ordinanze del Tribunale di Roma. In particolare la Corte ha dichiarato fondata la questione di legittimità  costituzionale dell'art. 3, comma 7, legge n. 145, sollevata dal suddetto Tribunale con quattro ordinanze risalenti al 2006, per contrasto con gli artt. 97 e 98 Cost., nella parte in cui prevede che gli incarichi di funzione dirigenziale di livello generale cessano il sessantesimo giorno dall'entrata in vigore della medesima legge, esercitando i titolari degli incarichi cessati ope legis in tale periodo esclusivamente le attività  di ordinaria amministrazione, salva l'eventuale discrezionale riattribuzione dello stesso incarico o di altro incarico senza vincoli di durata, nemmeno predeterminata nel minimo. E invero i giudici delle leggi ' dopo aver precisato che la norma scrutinata non riguarda i dirigenti cui siano stati affidati incarichi «apicali», ovvero di maggior coesione con gli organi politici (segretari generali, capi dipartimento, ecc.) ' hanno affermato che l'art. 3, comma 7, legge 145, «determinando una interruzione automatica del rapporto di ufficio in corso prima dello spirare del termine stabilito» ' modulato in ragione della peculiarità  della singola posizione dirigenziale e del contesto complessivo in cui la stessa è inserita ' «viola, in carenza di garanzie procedimentali, i principi costituzionali» di continuità , imparzialità  e buon andamento dell'azione amministrativa (artt. 97 e 98 Cost.). È infatti «evidente che la previsione di una anticipata cessazione ex lege del rapporto in corso impedisce che l'attività  del dirigente possa espletarsi in conformità  al modello di azione» disegnato dalle recenti leggi di riforma della pubblica amministrazione, modulo «che misura il rispetto del canone dell'efficacia e dell'efficienza alla luce dei risultati che il dirigente deve perseguire». Secondo la Corte, è pertanto necessario che sia comunque garantita la presenza di «un momento procedimentale di confronto dialettico tra le parti, nell'ambito del quale, da un lato, l'amministrazione esterni le ragioni ' connesse alle pregresse modalità  di svolgimento del rapporto anche in relazione agli obiettivi programmati della nuova compagine governativa - per le quali ritenga di non consentirne la prosecuzione sino alla scadenza inizialmente pattuita; dall'altro, al dirigente sia assicurata la possibilità  di far valere il diritto di difesa ». «L'esistenza di una preventiva fase valutativa è essenziale [â?¦] anche al fine di garantire ' attraverso l'esternazione delle ragioni che stanno alla base della determinazione assunta dall'organo politico ' scelte trasparenti e verificabili dal giudice, [â?¦] in ossequio al precetto costituzionale dell'imparzialità  dell'azione amministrativa». D'altra parte, la stessa inesistenza di una durata minima dell'incarico dirigenziale di livello generale (da ultimo reintrodotta dal comma 1 dell'art. 14-sexies, legge n. 168/2005, che ha indotto la Corte cost. ' con sentenza n. 398 depositata il 25 ottobre 2006 ' a imporre il riesame da parte dei giudici emittenti delle questioni di costituzionalità ) «è indice di una possibile precarizzazione della funzione dirigenziale, che si presenta (quando il termine sia troppo breve) difficilmente compatibile con un adeguato sistema di garanzie per il dirigente ». Con questa sentenza, la Consulta ha in definitiva scolpito i confini tra politica e amministrazione, distinguendo le funzioni dell'una (in quanto necessariamente di parte, specie in un sistema maggioritario) e le caratteristiche della seconda (posta al servizio della Nazione e, con essa, di tutti i cittadini, in condizioni di imparzialità  e di parità  di trattamento). Poiché il dirigente generale (contrariamente al segretario generale e al capo dipartimento) si colloca nell'alveo delle amministrazioni, è connaturata alla sua funzione un adeguato corredo di garanzie: durata minima sufficiente; trasparenza degli atti; procedimento imparziale di responsabilità  amministrativa; revoca dell'incarico per accertata inidoneità  alla funzione. L'identificazione di un nucleo essenziale di tutela del rapporto di lavoro argina una visione «fondamentalista» della contrattualizzazione del rapporto di lavoro dirigenziale e, corrispettivamente, restituisce alla politica il compito suo proprio: la progettazione economica e sociale su cui chiedere e riscontrare i consensi (al di là  della via perversa di una cooptazione clientelare delle affiliazioni sulla base di invasioni corporative del territorio amministrativo). Il carattere perentorio di non poche affermazioni contenute nella sentenza n. 103/07 è stato colto dagli osservatori più attenti e dallo stesso ceto dirigente bipartisan. È evidente che una sentenza non può riformare la pubblica amministrazione; è tuttavia un monito grave a che l'agenda governativa implementi il messaggio della Corte costituzionale mediante un piano che identifichi, con precisione, non solo i confini di dettaglio tra politica e amministrazione bensà anche degli indicatori semplici e affidabili che siano in grado di smaltire il peso, non più sopportabile, delle «rendite di posizione amministrativa». Sulla medesima lunghezza d'onda si colloca la contestuale sentenza della Consulta n. 104 relativa allo spoils system introdotto da alcune leggi regionali. Nel caso della legge della Regione Lazio si prevedeva la decadenza automatica dei direttori generali delle Asl tre mesi dopo la prima seduta del nuovo Consiglio regionale; in quella della Regione Sicilia, invece, si prevedeva la possibilità  di revoca ' per gli incarichi dirigenziali di seconda e terza fascia già  conferiti ' entro novanta giorni dalla data di insediamento del nuovo direttore generale. Entrambe le disposizioni sono finite sotto la scure di incostituzionalità . (A. Allamprese ' A. Andreoni in www.cgil.it/giuridico).
Riscossione crediti previdenziali
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È legittimo attribuire agli enti previdenziali il potere di riscuotere i propri crediti attraverso un titolo(il ruolo esattoriale, da cui scaturisce la cartella di pagamento) che si forma prima e al di fuori del giudizio e in forza del quale l'ente può conseguire il soddisfacimento della pretesa a prescindere da una verifica in sede giurisdizionale della sua fondatezza. La questione sollevata dal tribunale di Torre Annunziata è stata dichiarata dalla Corte manifestamente infondata in quanto, da un lato, non è irragionevole la scelta del legislatore di consentire a un creditore (Inps), attesa la sua natura pubblicistica e l'affidabilità  derivante dal procedimento che ne governa l'attività , di formare unilateralmente un titolo esecutivo, e, dall'altro lato, è rispettosa del diritto di difesa e dei principi del giusto processo la possibilità , concessa al preteso debitore, di promuovere, entro un termine perentorio ma adeguato, un giudizio ordinario di cognizione nel quale far efficacemente valere le proprie ragioni, sia grazie alla possibilità  di ottenere la sospensione dell'efficacia esecutiva del titolo e/o dell'esecuzione, sia grazie alla ripartizione dell'onere della prova in base alla posizione sostanziale (e non già  formale) assunta dalle parti nel giudizio di opposizione.
Soppressione delle indennità di trasferta nel pubblico impiego
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È legittimo, da parte del legislatore, disporre la «soppressione» delle indennità  di trasferta nel pubblico impiegoe stabilire l'inderogabilità  di tale soppressione con riferimento alle clausole dei contratti e degli accordi collettivi che le prevedono. In altri termini, con la norma censurata e con i commi 213 e 223, il legislatore ha abolito in tale settore gli istituti dell'ordinamento civile costituiti dalle indicate indennità  e ha contestualmente stabilito che le clausole che le prevedono sono eliminate dai contratti e dagli accordi collettivi in vigore e vietate per quelli da stipularsi, con ciò fissando un inderogabile limite generale all'autonomia contrattuale delle parti. In tale contesto, le regioni (anche quelle a Statuto speciale) non hanno alcun potere di impedire la suddetta soppressione, vertendosi in una materia di competenza esclusiva dello Stato (ordinamento civile). Né potrebbe obiettarsi che la disciplina censurata è riconducibile alla materia dell'organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti pubblici regionali e dello stato giuridico ed economico del relativo personale: infatti, il rapporto di impiego alle dipendenze di Regioni ed enti locali, essendo stato «privatizzato» ai sensi dell'art. 2 del decreto legislativo n. 165 del 2001, è retto dalla disciplina generale dei rapporti di lavoro tra privati ed è, perciò, soggetto alle regole che garantiscono l'uniformità  di tale tipo di rapporti. Con la conseguenza che la legge statale, in tutti i casi in cui interviene a conformare gli istituti del rapporto di impiego attraverso norme che si impongono all'autonomia privata con il carattere dell'inderogabilità , costituisce un limite alla menzionata competenza residuale regionale e va, quindi, applicata anche ai rapporti di impiego dei dipendenti delle Regioni e degli enti locali. Nella specie, come già  evidenziato, la norma censurata fissa, nell'intero settore del pubblico impiego, un tipico limite di diritto privato, che, secondo la giurisprudenza di questa Corte è «fondato sull'esigenza, connessa al principio costituzionale di eguaglianza, di garantire l'uniformità  nel territorio nazionale delle regole fondamentali di diritto che disciplinano i rapporti fra privati» e, come tale, si impone anche alle Regioni a statuto speciale. La pertinenza della norma denunciata alla materia dell'ordinamento civile esclude quindi la fondatezza di tutte le proposte censure.
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