• L’idea di una politica europea sul salario minimo mira essenzialmente a far sì che ogni lavoratore in Europa possa ricevere una retribuzione equa e dignitosa. Oggi invece in molti paesi europei i salari minimi sono fissati a livelli bassi e in ogni caso non sufficienti a porre al riparo dalla povertà. Considerate le forti differenze fra i vari livelli oggi esistenti, un salario minimo europeo non può consistere nella determinazione di uno stesso ammontare per tutti i paesi, ma deve piuttosto tradursi in un accordo intorno a un comune principio normativo. Esso potrebbe stabilire una certa soglia minima in rapporto percentuale al salario medio o mediano nazionale. Oggi una norma sul salario minimo europeo equivalente ad almeno il 60% delle medie nazionali coprirebbe qualcosa come 28 milioni di lavoratori europei, pari al 16% del totale della forza lavoro. L’implementazione di una politica di questo tipo dovrebbe in ogni caso rispettare le tradizioni nazionali e i rispettivi sistemi di formazione del salario.
  • Il saggio analizza il progetto di legge italiano sul salario minimo legale. Innanzitutto l’autore affronta il problema della garanzia di un salario minimo per tutti i contratti di lavoro, sia subordinati sia autonomi. In secondo luogo, il saggio esamina il rapporto fra salario minimo legale e i requisiti del salario previsti nell’art. 36 della Costituzione italiana. La tesi esposta è che il salario minimo legale è sicuramente funzionale a una politica di inclusione sociale e di tutela delle forme di sfruttamento del lavoro; nondimeno, il salario minimo legale è coerente con la tendenza a spostare il livello principale di contrattazione collettiva da quello nazionale di categoria a quello aziendale. In questo senso, il salario minimo legale ha una precisa funzione economica coerente con le misure di austerità imposte agli Stati membri dell’Unione Europea.
  • Molti anni di ricerca sulla povertà hanno dimostrato che i sistemi sviluppati di welfare non riescono più a ridurre la povertà tra la popolazione in età lavorativa, e ciò a dispetto della crescita dell’occupazione, dei livelli costantemente elevati di spesa sociale e della continua, seppure rallentata, crescita economica. Tenuto conto di questo scenario, analizzeremo ciò che è accaduto in Europa per quanto concerne le reti di sicurezza per le persone abilitate a percepire il reddito minimo durante il passato decennio. In primo luogo, prenderemo in esame il ruolo delle misure di contrasto alla povertà e quello dell’assistenza sociale nell’ambito degli obiettivi e del modus operandi della sicurezza sociale. In seguito illustreremo i servizi forniti alle persone in età lavorativa abilitate a percepire il reddito minimo nei paesi dell’Unione Europea, discutendo in dettaglio le tendenze relative ai livelli di prestazione garantiti. Infine, daremo conto di alcuni indicatori selezionati delle attuali politiche di attivazione mirate alle persone in età lavorativa abilitate a percepire il reddito minimo. La nostra conclusione è che fino al 2012 la tutela del reddito minimo per le persone in età lavorativa che ne avevano titolo è stata ampiamente insufficiente, malgrado gli incrementi reali registrati nel precedente decennio. Tutti gli attuali schemi di reddito minimo in Europa, inoltre, incorporano elementi di condizionalità per poter accedere ai benefici.
  • Dopo una prima parte dedicata all’illustrazione delle conseguenze della recente crisi sulla povertà tra le famiglie italiane, l’articolo ripercorre le motivazioni che rendono urgente e praticabile l’introduzione di uno schema universale di reddito minimo di inserimento contro la povertà. Vengono infine quantificati costi ed effetti distributivi di un reddito minimo dal disegno molto semplice, ma sufficientemente vicino ad analoghi strumenti in vigore in altri paesi europei.
  • A maggio del 2014 è mancato Vittorio Rieser, uno degli intellettuali più acuti e originali del movimento operaio italiano della seconda metà del secolo scorso. La sua attività di studio e di ricerca si è intrecciata per oltre mezzo secolo con la militanza nelle organizzazioni politiche della sinistra di classe e nel sindacato. Tra i suoi molteplici filoni di ricerca spiccano i contributi sull’impostazione della ricerca sociale, sulle trasformazioni del lavoro dipendente, sulla crisi della fabbrica fordista e sul post-fordismo, sulle relazioni sindacali nei luoghi di lavoro, sulla memoria e la coscienza di classe. Dotato di molti talenti e di vastissima cultura, il suo insegnamento rimane tuttora attuale per comprendere i cambiamenti del lavoro e i comportamenti dei lavoratori.
  • Il saggio, scritto da Vittorio Rieser nel 1990 e qui riproposto, affronta il tema del controllo dei lavoratori nell’impresa capitalistica. Facendo interagire lo schema di analisi marxista con quello weberiano, si sostiene che il regime autoritario della fabbrica capitalistica non risiede solo nella proprietà privata dei mezzi di produzione, ma anche nella presenza di una burocrazia tecnico-manageriale. Ne discende che il conflitto tra capitale e lavoro è rivolto a ridurre l’asimmetria di potere, costitutiva dell’impresa capitalistica, attraverso una strategia di controllo, capace di innescare elementi di democratizzazione parziale della vita sociale e politica. Viene delineata una prospettiva di democrazia industriale ancorata a forme di autogoverno e di controllo dal basso, di cui sono rintracciabili elementi embrionali nell’attuale mondo del lavoro.
  • Il saggio prende avvio dalla ricostruzione del ruolo del movimento sindacale nella storia dell’Italia contemporanea e anche nello sviluppo della sua identità. Allo stesso tempo, in linea con le trasformazioni dello scenario nazionale e internazionale, viene sottolineata la necessità di ridefinire il ruolo e le funzioni del sindacato. Si sostiene, infatti, che la profonda debolezza e il declino del paese, e più in generale dell’Europa, sia strettamente legata alle sfide poste dalla crisi e, dunque, alla necessità di individuare a livello europeo un nuovo modello di sviluppo.
  • L’articolo si focalizza sull’insicurezza soggettiva, o cognitive job insecurity, definita come la percezione di una minaccia per la continuità della propria situazione lavorativa e come il senso di impotenza o di mancanza di potere di fronte a tale minaccia. Utilizzando i dati di un’indagine nazionale sulle condizioni di lavoro degli occupati italiani, esplora in che modo alcune caratteristiche socio-anagrafiche, professionali, del contesto lavorativo e istituzionale influenzano tale percezione, comparando quanto avviene tra i lavoratori con rapporti non-standard e tra quelli assunti a tempo indeterminato (scontato è l’effetto esercitato dal tipo di relazione di lavoro). Per entrambi i gruppi viene confermata l’importanza del livello della retribuzione, delle responsabilità familiari, così come del far parte di un’organizzazione di lavoratori. Al contrario, poco significative risultano, tra coloro che hanno rapporti atipici, variabili solitamente ritenute importanti, come le competenze e la professione; che in questi casi sembrano proteggere in modo assai limitato dall’insicurezza e dal senso di impotenza circa la continuità (desiderata) della propria situazione lavorativa.
  • L’elaborato analizza la storia e il ruolo svolto dall’Istituto di promozione dei lavoratori della Provincia autonoma di Bolzano. Ci si sofferma, in particolare, sul legame tra l’Istituto altoatesino e le Arbeiterkammer austriache, dalle quali l’Istituto trae ispirazione. Viene analizzata la struttura dell’Istituto a partire dalla legge istitutiva e dallo Statuto che ne disciplina gli organi e il funzionamento. Vengono quindi illustrate le materie di cui si occupa l’Istituto e le attività svolte, che sono principalmente la formazione, la ricerca e la consulenza. L’analisi della realtà dell’Istituto di promozione dei lavoratori conduce a un ragionamento più generale sull’importanza di un buon sistema di relazioni industriali, basato sulla partecipazione, per poter coniugare le esigenze delle imprese che chiedono maggiore produttività e innovazione e le esigenze dei lavoratori che, attraverso la contrattazione decentrata, possono ottenere benefit economici legati all’andamento della produzione. Si analizzano, infine, punti di forza e di debolezza dell’Istituto per rendere l’Alto Adige un nuovo modello di relazioni industriali partecipative.