• Il background teorico che sottostà al ritorno d’attenzione alle questioni della politica industriale contiene elementi analitici nuovi che si discostano drasticamente da approcci tradizionali, sostanzialmente coincidenti con l’idea di limitarsi a fornire alle imprese e al mondo produttivo nuova attività regolatoria e incentivi indiretti (tra cui spiccano quelli fiscali) e con l’invito a stimolare la concorrenza. L’approccio maggiormente di rottura con le analisi e le pratiche invalse con il lungo ciclo neoliberista è quello dello Stato «strategico» e dei suoi rapporti con l’«innovazione», uno Stato più avventuroso e più disponibile ad assumere rischi della stessa iniziativa privata (certamente nella ricerca scientifica e tecnologica ma pure nei campi delle nuove domande sociali o del risanamento ambientale, del riassetto dei territori e della riqualificazione urbana), uno Stato il quale, oltre che indirettamente – mediante incentivi, disincentivi e regolazione –, interviene direttamente, cioè guidando e indirizzando intenzionalmente ed esplicitamente con strumenti appositi. Proprio l’estensione del cam- biamento tecnologico e l’emergenza di nuovi settori – come internet, le biotecnologie, le nanotecnologie, l’economia «verde» – mostrano che lo Stato non interviene solo per contrastare le market failures o per farsi carico della generazione di esternalità, ma rispondendo a motivazioni e obiettivi strategici. Infatti, l’operatore pubblico è l’unico in grado di porsi la do- manda: «Che tipo di economia vogliamo?». L’emergenza di nuovi complessi di attività si deve a un intervento pubblico che non si limita a neutralizzare le market failures, ma che inventa, idea, crea lungo tutta la catena dell’innovazione.
  • La transizione verso l’economia della conoscenza è molto più accidentata di quanto fosse stato anticipato. La comprensione dei cambiamenti strutturali che caratterizzano la transizione verso l’economia della conoscenza è indispensabile sia per distinguere tra dinamiche di breve e di lungo termine sia per identificare i caratteri emergenti dei sistemi economici avanzati. La tradizione schumpeteriana è fondamentale per capire i caratteri e le conseguenze del profondo processo di trasformazione strutturale in corso. La sua integrazione con la tradizione keynesiana consente di mettere a fuoco la nozione di domanda pubblica compe- tente come strumento efficace per «uscire» dalla crisi che è determinata dai cambiamenti dal lato dell’offerta. La crescita della domanda pubblica deve essere finanziata con l’inclusione dei redditi da capitale nei redditi assoggettati alla progressività. Allo scopo di sostenere e accelerare la transizione è indispensabile accompagnare l’uso della domanda pubblica competente con una vera e propria politica economica della conoscenza basata su: i) il rafforzamento dell’infrastruttura di ricerca pubblica; ii) sostegno selettivo all’educazione terziaria finalizzato alla crescita dell’offerta di specifiche capacità Ict; iii) la fornitura di una capillare infrastruttura digitale che aiuti a ridurre i costi di accesso e assimilazione dell’esistente riserva di conoscenza quasi-pubblica; iv) il rafforzamento dell’interazione tra ricerca pubblica e privata; v) una forte domanda pubblica competente di beni e servizi capace di soste- nere la crescita dei Kibs; vi) il sostegno attivo agli investimenti intangibili e alla domanda derivata dei Kibs.
  • Il capitalismo non ristagna in generale, ma in Europa e ancor più in Italia. La risposta va in primo luogo ricercata nell’investimento pubblico. Esso può avere effetti rilevanti sia sulla domanda globale sia sulla produttività delle imprese. La carenza degli investimenti pubblici – scemati ovunque nelle economie avanzate – è particolarmente grave in Italia, non solo nel Mezzogiorno.
  • Gli ultimi decenni hanno visto una estesa privatizzazione della conoscenza che è diventata una delle componenti più importanti del capitale delle imprese. Le rendite monopolistiche della conoscenza privata hanno fatto crescere i profitti ma hanno avuto effetti negativi sulla crescita economica e sulla distribuzione della ricchezza. Nuove economie di scala e di scopo hanno favorito imprese di grandi dimensioni. Questo contesto ha visto un declino dell’eco- nomia italiana che richiede interventi pubblici adeguati alla natura monopolistica dell’economia della conoscenza.
  • In questo articolo sono proposte alcune riflessioni circa la natura e l’evoluzione della politica industriale e il ruolo dello Stato quale attore capace di indirizzare in modo «strategico» lo sviluppo delle economie, così come descritto da Pennacchi (2016). Viene discussa, inoltre, la relazione tra la politica industriale e il contesto macroeconomico e istituzionale – con specifico riferimento alle istituzioni del mercato del lavoro – nell’ambito del quale la stessa politica è disegnata e implementata. Si sottolinea come l’efficacia della politica industriale può essere minata allorquando il contesto macroeconomico si caratterizzi per una debole dinamica della domanda aggregata (e, in particolare, della componente pubblica della stessa domanda) e per istituzioni del mercato del lavoro che tendano a facilitare l’adozione di strategie competitive basate sulla riduzione dei costi piuttosto che sulla qualità, l’innovatività dei prodotti e sull’investimento in capitale umano. Infine, si discute criticamente l’approccio di politica economica sin qui adottato in Europa identificando nell’adozione di grandi progetti «mission oriented» (a guida pubblica) una strada alternativa per stimolare efficace- mente la crescita economica e la trasformazione tecnologica dell’economia europea. L’analisi condotta si basa su una serie di recenti contributi sugli stessi temi (Cimoli, Dosi, Stiglitz 2009; Mazzucato et al. 2015; Dosi et al. 2016; Fana, Guarascio, Cirillo 2016; Guarascio, Simonazzi 2016).
  • La stagnazione che continua a caratterizzare la zona dell’euro, e le vecchie e nuove incertezze rappresentate dall’uscita dell’Inghilterra dall’Unione europea, dalla difficile situazione patrimoniale delle banche, non solo italiane, dalla irrisolta crisi greca, tratteggiano un orizzonte cupo per il futuro dell’area, e soprattutto per la sua periferia meridionale. È qui infatti che la crisi ha colpito più duramente, sia a seguito delle fragilità con cui questi paesi sono entrati nell’Unione, sia per le politiche seguite prima e nella crisi. Mentre un’inversione delle politiche macroeconomiche è certamente indispensabile, cresce la consapevolezza che le sole politiche di espansione della domanda non sono sufficienti per fare ripartire una crescita sostenibile. Sono tuttavia grandi le divergenze su quali «politiche dell’offerta» e che tipo di «riforme strutturali» siano necessarie. Se da un lato si sottolinea la necessità di ancora maggiore de-regolamentazione dei mercati del lavoro e dei prodotti, dall’altro cresce il consenso sulla necessità di una «nuova» politica industriale. Diverse sono però le interpretazioni sul come attuarla. Dopo un breve richiamo dell’evoluzione della teoria dello sviluppo, il saggio analizza le diverse possibili modalità attuative di una nuova politica industriale che vada a sostenere la crescita e lo sviluppo dei paesi della «periferia» dell’eurozona.
  • Gli investimenti pubblici sono stati una delle voci maggiormente sacrificate nella stretta fiscale del triennio 2010-2013, che origina da fattori teorici, istituzionali e politici profondi. Dopo le elezioni europee del 2014 i Socialisti e democratici hanno avviato una correzione delle politiche di austerità che si è concretizzata nella Comunicazione sulla flessibilità e nel Piano Juncker. La fragilità della ripresa e i venti contrari alla crescita rendono ora necessario un orientamento più marcatamente espansivo della politica fiscale europea e in partico- lare di un’azione più forte a sostegno degli investimenti pubblici e privati.
  • L’articolo analizza le traiettorie dei sindacati in Trentino e la loro interazione con gli altri attori. Il ritratto che emerge dalla survey, basata su interviste a sindacalisti e delegati, è quello di un sindacato molto solido tanto sul piano sociale che su quello dell’accesso all’arena politico-istituzionale. La variabile chiave usata per spiegare questo relativo maggior successo consiste nel processo di concertazione istituzionalizzata che aiuta le relazioni industriali e supplisce ai loro limiti.
  • Il tema proposto dalla ricerca, di cui questo saggio è parte integrante, è relativo all’analisi comportamentale dei soggetti che svolgono lavori ad alto rischio in cantieri socialmente sensibili blindati – come quello dell’Alta Velocità della Val di Susa. Il saggio, oltre a far «conoscere» i lavoratori applicati nel cantiere, analizza sia il grado di relazioni esistenti con la popolazione della vallata, avversa all’opera, sia il rapporto con le forze dell’ordine e i media. Emerge ad esempio, una contrapposizione tra il valore attribuito all’opera dal movimento NoTav e quello dato dai lavoratori. In sintesi: il senso, il valore il contenuto per un’opera che la popolazione non vuole in quanto costosa, non utile e devastante per l’ambiente contrapposto alla necessità di reddito per i lavoratori applicati alla costruzione della Tav. Una contrapposizione che ha portato alla militarizzazione del cantiere, a militarizzare il lavoro. Il saggio cerca di rispondere anche a una domanda: perché nessuno parla di questi lavoratori? e anche: perché il loro silenzio? e come leggere la mancanza del racconto della comunità del lavoro del cantiere? Si può considerare il cantiere della Val di Susa simile ad altri cantieri edili e di conseguenza «chiuderlo e leggerlo» solamente nel perimetro contrattuale; oppure il cantiere Tav rappresenta un paradigma, quello dell’attuale sviluppo basato sulle grandi opere che divide l’opinione pubblica, e quindi si sta da una parte o dall’altra. Un vero conflitto pertanto che impedisce una possibile saldatura tra due diverse comunità.