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I contributi che presentiamo sono il frutto di un lavoro preparatorio finalizzato alla realizzazione di una relazione presentata dalla Fondazione in occasione della Conferenza internazionale «Workers’ Participation at Plant Level. An International Comparison» (Bochum, 21-23 agosto 2013). Nei saggi vengono approfondite la storia della partecipazione in Italia ed alcune esperienze significative; il dibattito interno alle organizzazioni di rappresentanza sul tema e le attuali proposte; i cambiamenti indotti nella partecipazione a partire dall’applicazione dei nuovi modelli organizzativi nella fabbrica post-fordista; infine, i principali elementi di discussione, da un punto di vista giuridico, a livello comunitario sul tema della partecipazione.
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L’articolo inizia col descrivere tre differenti modelli di unione economica e monetaria e le diverse dinamiche politiche sottostanti. Tali dinamiche incidono sull’architettura dell’unione monetaria, che ha un enorme impatto sulle relazioni industriali nazionali e sulle politiche di welfare. L’ipotesi sviluppata dagli autori è che, all’inizio delle difficoltà finanziarie, nel 2008, la «crisi dell’euro» che ne è seguita abbia consacrato la trasformazione di un determinato modello di unione economica in un altro. Nell’articolo vengono descritte una serie di scelte politiche, circostanze e opportunità che hanno permesso che tale particolare visione del modello monetario dell’Unione venisse accettata. Nel contesto di tale modello, l’unione politica non è considerata una via accessibile per gestire la crisi, poiché il salvataggio dell’euro è considerato praticabile solo in un’economia più competitiva. La dimensione sociale, di conseguenza, diventa la variabile di aggiustamento. Si descrive così il nuovo complesso sistema di governance messo in atto per implementare questo nuovo modello di governance economica dell’unione economica e monetaria. Si tratta di un sistema ancora in costruzione, ma già in grado di mettere sotto pressione le relazioni industriali (in termini di salari e decentralizzazione) e il welfare (politiche del mercato del lavoro e delle pensioni).
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L’articolo propone alcune riflessioni sui significati, anche molto divergenti, che vengono solitamente attribuiti alla «crisi della democrazia», in particolare alla crisi della «democrazia rappresentativa». In effetti, le diverse interpretazioni di tale «crisi» presuppongono comunque un’idea o un modello di democrazia, da cui discendono non solo letture diverse della realtà, ma anche possibili soluzioni politiche alternative. Una riflessione teorica normativa sulla democrazia, quindi, è necessaria, e deve essere pienamente portata alla luce. Da questo punto di vista, l’articolo sostiene che la principale linea discriminante possa e debba essere individuata distinguendo, da un lato, una visione della democrazia fondata sull’immediatezza delle relazioni tra il «volere» del popolo e le «decisioni» delle istituzioni politiche; dall’altra, una visione della democrazia fondata invece sulle forme della mediazione e della rappresentanza. Una visione, quest’ultima, in cui cruciale diviene la creazione di una sfera pubblica critica e riflessiva in grado di interagire con i processi decisionali. È evidente, tuttavia, che nelle condizioni delle odierne democrazie contemporanee, le forme e gli attori della «rappresentanza» non possono essere solo quelli imperniati sulla accountabiity e sulla responsiveness elettorale, ma devono essere concepiti in termini più ricchi, ampi e rinnovati. In particolare, un crescente rilievo stanno assumendo, e possono ricevere, tutte quelle forme della rappresentanza che si possono definire self-authorized, ovvero fondate su un’istanza di rappresentatività che trascende i tradizionali meccanismi elettivi.
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Obiettivo principale dell’articolo è quello di esaminare quali sono state le strategie e i modelli di rappresentanza adottati dalla Cgil per rappresentare i lavoratori non standard. Si evidenzia come sia possibile migliorare la comprensione delle diverse e molteplici strategie, a partire dall’analisi dei fattori interni al sindacato, identificando quali siano gli attori sindacali e i rapporti di forza tra questi esistenti. L’articolo si conclude con alcune riflessioni sullo studio delle strategie dei sindacati nei diversi paesi.
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L’articolo si concentra sull’introduzione del modello di organizing in Olanda e sulle tensioni relative alla sua implementazione in un contesto di relazioni industriali di tipo neo-corporativo. L’analisi prende in considerazione i fattori che hanno favorito l’emergere delle strategie di organizing, così come i limiti di tale approccio. L’articolo si conclude con alcune riflessioni critiche sul possibile impatto che l’adozione delle strategie di organizing potrebbero avere sul modello di relazioni industriali olandese nel lungo periodo.
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Da qualche anno l’organizing model sviluppato dai sindacati americani è visto come una promessa di rinnovamento per le organizzazioni sindacali. Tuttavia, fino a poco tempo fa questo modello era considerato appropriato solo per quei contesti in cui i sindacati godono di scarsi sostegni istituzionali e sono fortemente dipendenti dalla propria base associativa per esercitare influenza. L’interesse suscitato da questo modello d’azione fra i sindacati tedeschi è stato, quindi, accolto con sorpresa. Perché le organizzazioni sindacali in Germania, inserite in un sistema istituzionale molto forte e favorevole, stavano guardando alle strategie dei sindacati americani come a un modello da imitare? L’articolo sostiene che la risposta a questa domanda vada cercata nelle trasformazioni che hanno avuto luogo nel sistema di relazioni industriali tedesco e nella consapevolezza maturata dalle organizzazioni sindacali del fatto che, in un contesto sempre più ostile, fosse necessario rafforzare le proprie risorse autonome di potere. Attraverso un’analisi del dibattito e della traduzione pratica del modello organizing in due organizzazioni sindacali tedesche, sosterremo che queste trasformazioni hanno reso sempre più difficile per i sindacati esercitare influenza attraverso i canali tradizionali, spingendo verso un rinnovamento strategico.
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Le trasformazioni del mercato hanno determinato in questi anni un crescente allargamento delle distanze tra insider e outsider, tra un nucleo cioè di lavoratori più protetti dal punto di vista della contrattazione e dal sistema di welfare e un crescente e variegato insieme di lavoratori periferici, a bassi salari, con meno tutele contrattuali ed esclusi dai dispositivi ordinari di protezione sociale. In questo quadro il problema della rappresentanza dei soggetti poco o solo parzialmente rappresentati è venuto al centro del dibattito sulle relazioni industriali. In questo articolo si è scelto di focalizzare l’attenzione su quelle forme emergenti di auto-rappresentanza che iniziano a diffondersi per ben delimitate aree del lavoro periferico, spesso a cavallo tra il lavoro dipendente e il lavoro autonomo, combinando mix diversi di tutela mutualistica, rappresentanza collettiva e vertenze per il riconoscimento di diritti contrattuali e nuovi diritti sociali. Senza alcuna pretesa di rappresentatività, l’articolo cerca di mettere in evidenza le caratteristiche salienti, le forme organizzative e le metodologie di rappresentanza e tutela adottate da alcune di queste nuove formazioni, che tendono ad aggiungersi e in alcuni casi a interagire con le grandi organizzazioni sociali.
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La crisi del conflitto di classe nei paesi occidentali è uno degli eventi politici chiave degli ultimi trent’anni. Nel contempo, la crisi economica contemporanea e i suoi effetti sulla produzione industriale conducono a nuove forme di azione collettiva dei lavoratori, rivolte soprattutto a opporsi alla chiusura delle aziende. L’articolo indaga questo tipo di conflitto di lavoro, i fattori di mobilitazione su cui si basa, la presenza o l’assenza – nelle rappresentazioni dei lavoratori – di riferimenti alla lotta di classe, la vicinanza di queste mobilitazioni al paradigma del sindacalismo tradizionale o a quello del sindacalismo di movimento sociale, la prevalenza al loro interno della radice marxista o polanyiana del conflitto sociale.
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