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L’obiettivo cognitivo del contributo è fornire un quadro aggiornato del mercato del lavoro italiano in chiave di comparazione europea e di constatazione dei possibili effetti dell’evoluzione del quadro normativo. Dall’analisi condotta sui dati delle Forze di lavoro vengono restituite le tradizionali anomalie del mercato in termini di bassi tassi di occupazione femminile ed elevate disparità territoriali, accanto alla elevata quota di lavoratori in proprio. Il dato che emerge dall’esame delle Comunicazioni Obbligatorie è l’elevatissimo numero (complessivamente, circa 20 milioni all’anno) di attivazioni e cessazioni, per la metà relative a rapporti di lavoro dalla durata non superiore ai tre mesi. Tale elemento coesiste con una quota non elevata, nel confronto europeo, del tempo determinato nell’occupazione dipendente.
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Lo scopo di questo articolo è duplice: descrivere le principali novità stabilite dal decreto di riforma degli ammortizzatori sociali e, soprattutto, verificare, in termini qualitativi e con l’ausilio di alcune simulazioni su come cambiano in seguito alla riforma le tutele potenziali dei lavoratori dipendenti del settore privato, se la sostituzione di Aspi e Mini-Aspi con la Naspi aumenti le tutele a cui i lavoratori dipendenti avrebbero diritto in caso di licenziamento o se, al contrario, la riforma possa rivelarsi peggiorativa per alcuni lavoratori. A tal fine si guarderà a tutte le dimensioni attraverso cui si concreta uno schema di indennità di disoccupazione, ovvero, i requisiti di accesso, la durata di erogazione delle prestazioni e gli importi previsti come indennità e come contribuzione figurativa a fini pensionistici.
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L’articolo esamina le recenti modifiche che lo schema di decreto legislativo emanato dal Governo il 20 febbraio 2015 in attuazione della legge n. 183/2014 (Jobs Act), intende apportare alla disciplina delle mansioni del lavoratore. Partendo dall’analisi legislativa e giurisprudenziale in materia, le autrici affrontano da un punto di vista di diritto costituzionale le implicazioni che le nuove norme sul demansionamento, abbinate a quelle sui licenziamenti, potrebbero avere sulla garanzia di diritti fondamentali dei lavoratori, quali il diritto alla salvaguardia della professionalità e alla conservazione del posto di lavoro, che sembrano destinati dalle nuove norme ad una tensione inconciliabile.
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L’articolo analizza la disciplina dei licenziamenti introdotta, soltanto per i lavoratori nuovi assunti, dal decreto legislativo n. 23 del 2015, nell’ambito del cd. Jobs Act del Governo Renzi. Il saggio ricostruisce le linee di fondo del provvedimento e ne valuta l’impatto sulle relazioni di lavoro e sull’azione delle organizzazioni sindacali. Vengono anche evidenziati i possibili effetti critici del provvedimento, quali l’effetto sulle condizioni di concorrenza tra le imprese, soprattutto in alcuni settori economici, e sulla spinta delle imprese a sostituire il personale già in servizio con lavoratori più giovani e meno costosi. L’autore delinea infine i terreni sui quali la contrattazione collettiva potrebbe temperare gli aspetti socialmente ed economicamente negativi della nuova disciplina legale.
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Lo scopo di questo articolo è descrivere i contenuti della norma che ha previsto la fiscalizzazione per un triennio dei contributi a carico del lavoro sui contratti a tempo indeterminato stipulati nel corso del 2015 e valutare, da un lato, i possibili effetti di tale norma sulle convenienze delle imprese a sostituire contratti a termine con contratti a tutele crescenti e, dall’altro, i possibili oneri per il bilancio pubblico derivanti dalla concessione degli sgravi contributivi.
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L’Italia soffre da ormai due decenni di mancanza di crescita. Il deterioramento della sua economia si è accentuato drammaticamente dal 2008 con lo scoppio della crisi finanziaria internazionale, divenuta nei paesi europei una crisi di domanda aggregata. La dinamica negativa degli investimenti, della produttività, del progresso tecnologico alimenta la trappola della produttività, che né ulteriori riforme del mercato del lavoro né tagli del cuneo fiscale sul costo del lavoro possono interrompere. La via di uscita piuttosto potrà trovarsi solo nel ribaltamento dell’attuale modello di sviluppo, che riporti al centro del processo produttivo la conoscenza, gli investimenti e il lavoro, di qualità e duraturo. Ma ciò non può avvenire che nel coordinato consesso europeo di una rinnovata politica industriale.
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L’articolo analizza il ruolo giocato dall’istruzione di lavoratori e imprenditori nel condizionare (promuovere) diverse dimensioni della qualità del lavoro. Le analisi empiriche sono sviluppate sulla base dei dati della Rilevazione sulle imprese e sui lavoratori (Ril) condotta dall’Isfol per il 2010 e permettono di evidenziare i seguenti risultati. Primo, il livello di istruzione degli imprenditori è un fattore fondamentale per favorire gli investimenti in formazione professionale, l’adozione della contrattazione integrativa sui salari e l’occupazione con contratti a tempo indeterminato. Secondo, il livello di istruzione dei lavoratori è positivamente correlato alla propensione delle imprese a effettuare investimenti formativi, ma non costituisce un freno all’uso dei contratti a temine né agevola l’adozione della contrattazione integrativa sui salari. Tali risultati mettono in luce come il capitale umano dei datori di lavoro costituisca un elemento critico per aumentare la qualità del lavoro e, quindi, per la crescita economica e sociale del paese.
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