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Questo studio si concentra sull’analisi della mobilitazione sindacale in Italia negli ultimi tre decenni utilizzando la metodologia Protest Event Analysis (Pea), alla luce del concetto di Social Movement Unionism emerso dalla contaminazione del campo delle relazioni industriali con quello dei movimenti sociali. I risultati indicano che i sindacati tendono a impegnarsi in un lavoro di ridefinizione dell’identità collettiva, includendo attori sociali marginali, adottando nuove forme di espressione collettive e ampliando il loro frame al di là delle questioni lavorative e dei confini nazionali, quando coordinano la loro protesta in coalizione con altri attori sociali. In particolare, i sindacati di base sono più propensi a catalizzare il Social Movement Unionism più dei sindacati confederali. Questa discrepanza ha implicazioni significative per l’inclusività sociale delle proteste e per la rivitalizzazione dell’identità sindacale.
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Le Casse di resistenza nascono e si sviluppano in Italia tra autotutela mutualistica e sindacalizzazione dei lavoratori. Nell’età liberale concorrono a definire i caratteri distintivi dei principali modelli sindacali nel rapporto tra solidalità di classe, sindacalizzazione e forme di lotta. Il fascismo distrugge con la violenza, con la dittatura politica e con il sindacato di Stato l’autotutela sindacale del lavoro. Nella Repubblica democratica, ancorata alla costituzione, questo istituto diretto della solidarietà operaia si integra nel complesso meccanismo finanziario della sindacalizzazione confederale del lavoro. La discussione sul ruolo specifico delle Casse, dopo la lunga onda della riscossa padronale, riemerge con l’inversione a livello internazionale del ciclo conflittuale prolabour.
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Circa il 70% dei lavoratori sono iscritti ai sindacati. I sindacati hanno fondi per lo sciopero ben forniti. Insieme agli ampi diritti di conflitto, ciò significa un grande potenziale per scioperi lunghi ed estesi, ma la frequenza dei conflitti in Svezia è estremamente bassa, anche dal punto di vista nordico. Spesso è sufficiente una notifica di sciopero, per esercitare pressione sui datori di lavoro. Fino agli anni ‘30 il numero di giorni lavorativi persi a causa di conflitti era tra i più alti al mondo, ma due accordi di cooperazione tra le parti del mercato del lavoro hanno cambiato la situazione: l’Accordo di Saltsjöbaden del 1938 e l’Accordo industriale del 1997. Secondo quest’ultimo, i sindacati e le associazioni dei datori di lavoro dell’industria manifatturiera fissano il «marchio» per gli aumenti salariali nell’intero mercato del lavoro.
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Quando si studiano gli scioperi in Europa negli ultimi vent’anni circa, emergono due osservazioni. In primo luogo, si registra complessivamente una tendenza sul lungo termine al ribasso. Tale diminuzione complessiva viene tuttavia «interrotta», di tanto in tanto, per via di relativi picchi nel volume degli scioperi – a esempio nel 2002, 2010 e 2019 – per lo più a causa di scioperi del settore pubblico. Inoltre, in gran parte alimentato dall’inflazione in vari paesi, un nuovo picco si è registrato nel 2022. In secondo luogo, il quadro appare più sfumato a livello dei singoli paesi. Persistono nel tempo differenze tra paesi nel volume complessivo dei conflitti (con i paesi dell’Europa centrale e orientale che si collocano a un livello molto basso), spiegate dagli scioperi su vasta scala nel settore pubblico e dagli scioperi generali, che sono particolarmente diffusi nei paesi dell’Europa meridionale, tra cui Italia e Belgio. Si consideri che, dal 2009 in poi, mancano dati ufficiali sugli scioperi in Italia.
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I nuovi conflitti
- Il conflitto di lavoro in Italia
- Tempo e spazio del lavoro
- Per una nuova cultura del lavoro
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