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L’articolo racconta il percorso delle recenti riforme del mercato del lavoro, in particolare del Jobs act, a partire dalla sua prima versione, discussa all’interno del Pd, descrivendo il progressivo cambiamento della filosofia, dell’approccio, dei contenuti della proposta. L’esito finale è un ulteriore allentamento dei vincoli per l’uso dei contratti a termine, nessuna riduzione della tipologia di rapporti atipici, la sperimentazione di un modesto ampliamento degli ammortizzatori sociali; la sostanziale eliminazione dell’art. 18 per i nuovi assunti. La riforma rischia allora di rafforzare dualismi e disuguaglianze già esistenti; sicuramente non appare in grado di affrontare in modo efficace il problema della precarietà.
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L’articolo propone un’analisi dell’ultima riforma italiana del mercato del lavoro, denominata «Jobs act». Il percorso della riforma è iniziato a marzo del 2014 e non è ancora completo, ma gli obiettivi sono già chiaramente delineati nei provvedimenti approvati finora. La riforma si colloca nel solco delle due precedenti, tese ad accelerare ed estendere la sostituzione dell’occupazione standard con i «lavori», consolidando il modello di flessibilità basato su forme di temporaneità della prestazione lavorativa interamente controllate dalle imprese. Attraverso la quasi totale eliminazione dei vincoli al licenziamento (resta fuori solo il pubblico impiego), la riforma rende possibile il frazionamento dell’occupazione in «pezzi» che comporranno i nuovi percorsi lavorativi, combinandosi con intervalli di disoccupazione in sequenze variamente sussidiate. In questo modo, la riforma non affronta i problemi più rilevanti del lavoro, ma imprime una accelerazione al processo di ri-regolazione dei rapporti di lavoro.
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La discussione sul Jobs act è stata sin dall’inizio viziata da una rappresentazione del mercato del lavoro stereotipata e superficiale. Una più attenta analisi teorica ed empirica delle dinamiche occupazionali mostra invece come l’aumento della flessibilità in uscita non avrà probabilmente alcun effetto apprezzabile sul livello di occupazione. Al contrario, in assenza di altre riforme sul sistema finanziario e produttivo, la facilitazione dei licenziamenti rischia di incentivare ulteriormente i settori a basso valore aggiunto e a scarso contenuto innovativo.
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Nel ripercorrere i passaggi essenziali di una ricerca Ires sul fenomeno del lavoro cognitivo, il testo mette in evidenza la crescita di nuove figure e le modificazioni che intervengono sul mercato del lavoro. Mostra che le linee di un cambiamento coinvolgono anche attività di lavoro professionale di tipo tradizionale, e che i soggetti a elevata competenza si relazionano in modo nuovo con la propria professione.
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In questo contributo si propone una riflessione sulle fenomenologie sociali del lavoro cognitivo a partire dai risultati di una ricerca empirica Ires-Cgil il cui scopo è stato, primariamente, quello di interrogare la capacità (o meglio, l’incapacità) del sindacato a interpretare le radicali trasformazioni del mondo produttivo che caratterizzano in senso neoliberale il capitalismo contemporaneo. Si propongono quindi a questo scopo alcune riflessioni teorico-generali sul processo di cognitivizzazione del lavoro e sulla questione sindacale che deriva dalla crescente diffusività di tale processo. In altre parole si tenterà di indicare, sulla base dell’analisi delle risultanze empiriche, una proposta di «riforma» dell’organizzazione sindacale al fine di adeguare quest’ultima alle inedite posture sociali del lavoro cognitivo. La questione che vede il sindacato affrontare con difficoltà le novità sociali ed economiche del processo di cognitivizzazione del lavoro è, infatti, una questione urgente e niente affatto marginale e/o periferica sullo stato della sua complessiva salute sociale e politica.
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Obiettivo del presente saggio è definire il ruolo e le forme dell’apprendimento nelle figure professionali del lavoro cognitivo. Dopo aver definito alcuni sintetici punti di riferimento relativi al modo con cui sono interpretate le competenze nel dibattito sulle trasformazioni del lavoro, l’articolo descrive quali sono le modalità di acquisizione di competenze proprie dei lavoratori della conoscenza. Si avvia quindi un’analisi in profondità del lavoro della conoscenza, attraverso la descrizione di ciò che differenzia o accomuna le diverse categorie professionali che lo compongono (oltre alla formazione delle competenze, il loro utilizzo e le criticità avvertite nel processo di lavoro). Segue una disamina di alcuni elementi di valutazione qualitativa tratti dalle interviste effettuate nella ricerca, in particolare relativi alla relazione fra conoscenze formali e informali. Infine vengono avanzate alcune ipotesi per un ulteriore approfondimento: l’eterogeneità dei canali di apprendimento è una risposta individualizzata alle difficoltà delle organizzazioni (imprese, formazione) di misurarsi con le trasformazioni sociali; il riconoscimento dei lavoratori cognitivi come soggetti sociali richiede un’analisi di dettaglio del ruolo lavorativo dei diversi tipi di lavoratori della conoscenza.
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L’articolo propone una parziale ricognizione della letteratura sui «lavoratori cognitivi». In assenza di una definizione univoca, molte sono le criticità ancora aperte, soprattutto per una più solida collocazione delle professionalità «cognitive» sul mercato del lavoro. Gli approcci considerati evidenziano le implicazioni che contrappongono le interpretazioni del fenomeno e le possibili strategie. Cercare di sottrarre il concetto di conoscenza e le aree semantiche contigue (immateriale, intangibile, innovazione e creatività) all’ambivalenza potrebbe contribuire a una più rigorosa sistematizzazione teorica.
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L’obiettivo di questo contributo è discutere i presupposti teorici e alcuni fra i risultati empirici di una ricerca condotta dagli Ires di Emilia-Romagna, Toscana e Veneto, sui lavoratori cosiddetti cognitivi. La ricerca indaga le condizioni di lavoro dei lavoratori della conoscenza in alcuni contesti regionali italiani, sulla base dell’ipotesi del capitalismo cognitivo, secondo la quale (a) il segno distintivo dei processi di accumulazione contemporanei sarebbe il passaggio da una valorizzazione centrata sui processi di produzione a una valorizzazione centrata sui processi di ideazione; (b) il lavoro cognitivo promuoverebbe la soggettività dei lavoratori in una situazione di crescente autonomia degli esecutori; (c) questo presunto guadagno di autonomia preluderebbe a una consapevole fuoriuscita dai rapporti di produzione capitalistici. Nella prima parte di questo contributo (parr. 1 e 2) si illustrano sinteticamente l’origine intellettuale e gli assunti basilari della teoria del capitalismo cognitivo, mettendone in luce, da un lato, l’ispirazione politica e, dall’altro, i limiti analitici. Nella seconda parte (par. 3) si illustrano le principali evidenze empiriche che emergono dalla ricerca degli Ires. Più che confermare l’ipotesi del capitalismo cognitivo, esse sembrano descrivere una condizione occupazionale strutturalmente precaria, con margini di autonomia decisamente ridotti.
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