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Collecchio, 19 dicembre 2003. Un comunicato battuto alle 7,50 informa che alla Bank of America di New York non esiste alcun conto di 4 miliardi di euro riconducibile alla Parmalat Spa. È la parola fine per la Parmalat di Calisto Tanzi. La favola della multinazionale nata 42 anni prima da un salumificio di provincia finisce così, con queste righe che ufficializzano la notizia del crac finanziario più catastrofico della storia d’Europa. Tanzi è arrestato, Parmalat è posta in amministrazione straordinaria, si appurano i falsi in bilancio e si conosce l’anima nera dell’azienda candida creata dal monsignore del latte Calisto, benefattore e uomo di Chiesa. Ma è proprio da quella fine che comincia una nuova storia perché sono gli operai e gli impiegati, con i sindacati e i pochi manager superstiti, a prendersi la fabbrica. È la storia del salvataggio della Parmalat e del paradosso dei paradossi del capitalismo italiano: un’azienda che secondo le leggi del mercato e della cultura liberista avrebbe dovuto fallire continua invece a fare latte e derivati e succhi di frutta. E in cima alla pila traballante dei 14 miliardi e passa di buco tiene in equilibrio migliaia di posti di lavoro, migliaia di famiglie e di vite, conserva inalterati gli accordi sindacali, e gli stipendi e i premi di produzione, non facendo ricorso a un’ora di sciopero, così supplendo all’etica di un gruppo imprenditoriale divorata dall’illecito e dal demone del profitto ad ogni costo.
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L’articolo propone alcune riflessioni sui significati, anche molto divergenti, che vengono solitamente attribuiti alla «crisi della democrazia», in particolare alla crisi della «democrazia rappresentativa». In effetti, le diverse interpretazioni di tale «crisi» presuppongono comunque un’idea o un modello di democrazia, da cui discendono non solo letture diverse della realtà, ma anche possibili soluzioni politiche alternative. Una riflessione teorica normativa sulla democrazia, quindi, è necessaria, e deve essere pienamente portata alla luce. Da questo punto di vista, l’articolo sostiene che la principale linea discriminante possa e debba essere individuata distinguendo, da un lato, una visione della democrazia fondata sull’immediatezza delle relazioni tra il «volere» del popolo e le «decisioni» delle istituzioni politiche; dall’altra, una visione della democrazia fondata invece sulle forme della mediazione e della rappresentanza. Una visione, quest’ultima, in cui cruciale diviene la creazione di una sfera pubblica critica e riflessiva in grado di interagire con i processi decisionali. È evidente, tuttavia, che nelle condizioni delle odierne democrazie contemporanee, le forme e gli attori della «rappresentanza» non possono essere solo quelli imperniati sulla accountabiity e sulla responsiveness elettorale, ma devono essere concepiti in termini più ricchi, ampi e rinnovati. In particolare, un crescente rilievo stanno assumendo, e possono ricevere, tutte quelle forme della rappresentanza che si possono definire self-authorized, ovvero fondate su un’istanza di rappresentatività che trascende i tradizionali meccanismi elettivi.
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Il lavoro può essere ridotto al puro scambio tra prestazione e denaro? Se è vero che i lavoratori hanno questa idea, perché invece nelle indagini svolte tra i cittadini italiani ed europei questi indicano il lavoro come «fonte di espressione e di relazione sociale, cioè un luogo dove realizzare la propria personalità in mezzo a persone gradevoli»? Dalle indagini italiane esaminate emerge anche la presenza congiunta, nei posti di lavoro, di nuove e di vecchie forme di frustrazione e di disagio lavorativo (disagio basilare o fantasma, stress, burn-out, mobbing, e numerose altre sindromi), che appare in controtendenza con il moltiplicarsi delle dichiarazioni da parte di studiosi, responsabili aziendali e sindacalisti a favore di politiche di worker satisfaction, cioè di un diverso modo di lavorare, più attento al ruolo e al benessere complessivo dei lavoratori. Sarà possibile allora che il concetto di benessere organizzativo si affermi nelle aziende? E soprattutto si potrà agevolare questo processo e come?
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A partire dagli anni settanta i paesi dell’Europa meridionale, Grecia, Italia, Portogallo e Spagna cominciano a diventare paese di immigrazione pur continuando a essere paesi di emigrazione, sia pure con una significativa riduzione dei flussi e una sostanziale stabilizzazione delle comunità nazionali all’estero. La prima questione da affrontare è la seguente: come mai questi paesi cambiano ruolo sulla scena migratoria internazionale proprio negli stessi anni (gli anni settanta) e, quindi, quali sono gli elementi relativi al contesto generale – alla realtà economica e geopolitica –...
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dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni delle periferie nel nostro paese fornisce l’opportunità di analizzare quello che è avvenuto e sta avvenendo nel territorio milanese. Milano ha di fronte a sé una grande sfida e una grande responsabilità: mettere in campo azioni, progettualità, politiche in grado di ridurre le disuguaglianze, creare opportunità e percorsi di inclusione per gli abitanti delle sue periferie. In questo quadro, dopo aver sinteticamente definito il contesto milanese da un punto di vista economico e sociale, obiettivo dell’articolo è, in primo luogo, descrivere i progetti e i percorsi messi in campo dagli attori istituzionali e sociali del territorio; in secondo luogo, mettere in evidenza i punti di forza e quelli di criticità di quello che può essere definito il «modello Milano». Infine, ultimo obiettivo è quello di proporre alcune azioni che possono rafforzarne gli aspetti positivi, contrastandone le debolezze.
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L’articolo ripercorre alcune delle più importanti evoluzioni registrate nel modello sociale europeo, con particolare riguardo al Pilastro europeo dei diritti sociali. Quest’ultimo, riprendendo alcuni convincimenti originari del progetto europeo, è tornato a sottolineare la complementarità fra dimensione sociale e crescita nonché le ragioni intrinseche, in termini di giustizia, alla base delle politiche sociali. Il gap fra obiettivi fissati e risultati ottenuti rimane, tuttavia, elevato e nuove esigenze di intervento si profilano in presenza delle sfide poste dalla doppia transizione ecologica e tecnologica. Affrontare tale situazione richiede cambiamenti nella governance sociale dell’Unione europea nonché un’estensione delle politiche sociali sovra-nazionali europee.
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Questo articolo focalizza l’attenzione sul modello sociale italiano alla luce del Piano nazionale di resilienza e ripresa. L’analisi proposta mira a esaminare se e quanto le innovazioni introdotte a livello europeo siano attrez-zate per rispondere alle nuove domande di protezione sociale sorte in seguito alla pandemia, riconsiderando le op-zioni percorribili per intervenire sui nodi critici del sistema di welfare italiano, sia quelli di lungo periodo (l’infrastrutturazione sociale e la carenza di servizi di welfare), sia quelli che si sono manifestati più di recente con l’ultima tornata di riforme che hanno riguardato in particolare le politiche di contrasto alla povertà e l’inserimento attivo nel mercato del lavoro.
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Un'ampia rivisitazione in chiave storico-politica dell'ascesa e del declino del modello svedese della democrazia industriale.
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Un'ampia rivisitazione in chiave storico-politica dell'ascesa e del declino del modello svedese della democrazia industriale.
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L’articolo analizza un caso di innovazione organizzativa che ha suscitato ampie e accese discussioni: il modello WCM alla Fiat Auto. Nel saggio si sostiene che si tratta di una variante del modello produttivo giapponese, applicato in Fiat a partire dall’inizio degli anni Novanta con l’etichetta “fabbrica integrata”. Rispetto all’impostazione originaria il modello presenta però molteplici novità, che l’autore esamina in modo puntuale; con una particolare attenzione ai meccanismi sociali per il governo delle relazioni di lavoro.
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