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Donne che decidono di migrare, che fanno dell’andare altrove un progetto di vita, sia che partano da sole sia che vogliano ricongiungersi ai propri familiari. Nei complessi scenari delle odierne migrazioni internazionali, il protagonismo femminile costituisce uno dei tratti più rilevanti. Ma fino a che punto ciò rappresenta una novità rispetto al passato? Quali sono le continuità e i mutamenti rintracciabili nei percorsi delle lavoratrici migranti di ieri e di oggi? I saggi contenuti in quest’opera a più mani provano a rispondere a questi interrogativi, attraverso una riflessione tutta centrata sul ruolo giocato dal lavoro nella mobilità geografica femminile storica e attuale. Studiata in questa prospettiva, la vicenda migratoria femminile appare come un tema gravido di questioni e interrogativi che riguardano tutte le donne, mettendo a nudo una realtà dove permangono disuguaglianze nell’accesso al mercato del lavoro, disparità di diritti e di salari, politiche che sostengono e legittimano la divisione sessuale del lavoro.
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Federico Fellini, una storia lunga, di grande respiro. Il regista è scomparso nel 1993, a settantatré anni, e tuttavia il tempo che è passato dal giorno della scomparsa si estende, scavalca il presente, va verso il futuro. Una guida fra le nebbie. Rimini, Roma, Cinecittà e oltre: le stazioni di un unico viaggio che continua grazie ai film e all’interesse che ancora circonda il grande regista. Tappe di spostamenti, di ricordi che superano il titolo di un suo celebre film, «Amarcord», e di emozioni che non finiscono con «La voce della luna», ultima opera. Non ci sarà un’ultima fermata per Federico. Italo Moscati, in questo suo nuovo libro sul cinema, parte da un’intervista alla tv rilasciata da Fellini sul finire della carriera, in cui il regista dichiarò che non avrebbe mai voluto scrivere la parola «fine» in fondo ai suoi film, perché trovava insopportabile l’idea che i suoi personaggi potessero salutare con un addio i loro spettatori e lui stesso. Moscati riapre il film di una vita, di una carriera; rimuove la parola «fine» e racconta a tutto tondo Fellini e i suoi personaggi in cammino. Un pianeta di avventure. A novant’anni dalla nascita.
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Questa non è l’ennesima inchiesta giornalistica sul sindacato italiano e sul suo stato di salute. Né è un pamphlet pro o contro il sindacato. È piuttosto una messa a punto agile, ma basata sulle teorie della rappresentanza e del sindacalismo, volta a stabilire dove sia il sindacato oggi e dove stia andando, o possa andare. Il riferimento è al sindacato italiano, ma l’ottica è quella degli studi comparativi sui sindacati contemporanei. La presunzione è di dire qualcosa che vada oltre le polemiche contingenti e di breve respiro e possa aiutare a comprendere, più in generale e a partire dai dati di fatto, le potenzialità e i limiti del sindacalismo nella fase di trasformazione dell’economia e del capitalismo da tempo in corso. Il libro inizia con una puntualizzazione sulle caratteristiche strutturali della rappresentanza sindacale, che ne costituisce la chiave di lettura e di interpretazione generale. Il fuoco è poi sulle dinamiche, i successi, i limiti, i problemi aperti, le prospettive possibili del rapporto di rappresentanza – dell’identità stessa del sindacato, quindi – in un periodo in cui il mondo del lavoro cambia profondamente.
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Cosa è stato il femminismo sindacale in Italia? Come è nato? Quali erano i temi che premevano in una società in trasformazione? Ma soprattutto: come lo hanno vissuto e interpretato le protagoniste dell’epoca? Il volume, che attinge a fonti documentarie e orali, offre un approfondimento di quell’importante momento storico e civile, per riproporre alla riflessione e alla discussione dell’oggi una stagione che ha dato un apporto decisivo all’evoluzione di una grande «organizzazione di donne e di uomini», la CGIL. Come ben sintetizza Anna Rossi-Doria, «...i Coordinamenti donne della FLM conducono una lotta per un obiettivo così arduo da rivelarsi alla fine irraggiungibile: affermare autonomamente i bisogni delle donne, trasformandoli in diritti, dentro al sindacato e allo stesso tempo trasformare quest’ultimo sulla base della nuova idea della politica che dalle assemblee e dai gruppi di sole donne era nata. Anche se si dimostrerà impossibile, quella sfida, come questi lavori dimostrano, consentirà, proprio per la sua altezza e carica utopica, lo sviluppo di idee ed esperienze ricche di insegnamenti per il futuro». Il libro, che raccoglie le tesi di laurea di tre giovani autrici, costituisce un significativo contributo offerto alla conoscenza della storia sindacale e della memoria del paese.
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Tra le grandi figure di dirigenti sindacali e politici del Novecento italiano, Argentina Bonetti Altobelli (1866-1942) occupa una posizione di grande rilievo ed interesse, quale protagonista di una fase cruciale del cambiamento sociale e politico del nostro paese, e interprete tra le più complete dell’impegno civile e della militanza politica. Segretaria della Federazione Nazionale dei Lavoratori della Terra aderente alla CGdL, già dal 1906 fu tra i componenti della Direzione del PSI e del Consiglio Direttivo della Confederazione, rimanendovi per molti anni di seguito. Convinta sostenitrice dell’emancipazione femminile, concepì sempre questo impegno in stretta connessione con la militanza politica, al punto da individuare nel motivo del riscatto economico e morale delle donne dei campi il movente primario della sua adesione al socialismo. Nel 1912 fu una delle prime donne a partecipare a organi istituzionali, come membro del Consiglio Superiore del Lavoro, nel quale si adoperò per estendere ai lavoratori agricoli le prime misure di legislazione sociale ottenute dal proletariato urbano. Attraverso un’attenta e in larga parte inedita selezione degli interventi pubblici e degli scritti si offre qui una lettura originale della sua vicenda sindacale e politica, nella quale il protagonismo femminile si lega ai processi di sindacalizzazione e di politicizzazione dei lavoratori dei campi, che hanno accompagnato l’affermazione della cittadinanza sociale nell’Italia liberale. Il volume è a cura di Sivia Bianciardi.
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Il datore di lavoro può proibire ad un’impiegata di fede islamica di indossare il velo nell’ambiente lavorativo? Può un ente locale tramite ordinanza imporre obbligatoriamente l’esposizione di un simbolo religioso nei suoi locali? Fino a che punto i lavoratori appartenenti a fedi minoritarie nel paese possono rivendicare orari di lavoro compatibili con le proprie esigenze di culto e festività religiose? Quali sono i precetti dell’Islam e quali le richieste che i suoi fedeli pongono alla società italiana? Quale modello di società e di relazione tra cittadini e migranti stiamo costruendo in Italia e in Europa? Come reagire giuridicamente alle discriminazioni per motivi religiosi? Sono queste solo alcune delle molte domande che con sempre maggiore frequenza emergono a fronte della trasformazione della società italiana in senso multiculturale e multireligioso. I saggi raccolti nel volume affrontano in maniera interdisciplinare questa complessa sfida posta al mondo del lavoro e alla società italiana nel suo divenire.
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Dopo la crisi del «Modello Roma», il volume, a partire da una serie di considerazioni critiche sui lavori della Commissione Marzano, offre idee e spunti di riflessione per un possibile e diverso futuro della città che superi la stretta tra edilizia e turismo come motore tradizionale del suo sviluppo. Tra gli obiettivi considerati vi è quello di fare di Roma un esempio di città sostenibile, da ripensare in una dimensione policentricae metropolitana, incentrata su un’economia verde diffusa e a forte innovazione energetica; di mettere fine all’espansione urbana nel territorio dell’Agro romano e riqualificare le periferie con un forte decentramento di attività direzionali, di beni e servizi pubblici; di fare della città un bene pubblico usufruibile da tutti i suoi cittadini; di pensare ad uno sviluppo locale che valorizzi le risorse ambientali, culturali e partecipative del territorio metropolitano.
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L’aspettativa di vita in buona salute cresce, ma non si registra un prolungamento delle carriere professionali. Mentre s’innalzano i criteri anagrafici di accesso alla pensione, l’occupazione per la popolazione oltre i 50 anni, seppur in crescita, risulta ancora molto bassa e non si attenua il fenomeno dell’espulsione precoce dal lavoro. Ciò si accompagna all’emergere di nuovi rischi sociali, rispetto ai quali il tradizionale sistema di ammortizzatori sociali garantisce una parte sempre più esigua di lavoratori. Il volume analizza la condizione dei lavoratori anziani nel mercato del lavoro italiano e i meccanismi istituzionali di regolazione dell’uscita dall’occupazione verso il pensionamento. In questo quadro si presentano i risultati di una ricerca sui lavoratori di due siti industriali ex Alfa Romeo (Arese e Pomigliano d’Arco), basata sull’analisi dell’esperienza soggettiva dei lavoratori in relazione sia alle dinamiche di fine carriera e all’uscita dall’occupazione, sia alle conseguenze relazionali e identitarie connesse alla transizione dal lavoro alla pensione.
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Un borghese che si definisce progressista assiste casualmente allo sbarco di una delle tante carrette del mare cariche di disperati che approdano sulle coste del nostro Sud. Un anno dopo lo ritroviamo in volo per Nuevo Laredo, Messico. Lavorerà in una missione di religiosi scalabriniani nel deserto al confine con gli Usa, la «Casa del migrante», che assiste uomini, donne, bambini che ogni giorno tentano di scavalcare il muro della morte o di guadare il Rio Bravo per entrare in Texas. Sarà un lungo, intenso ed emozionante periodo, in cui proverà a comprendere il problema dell’emigrazione, le sue cause e origini, andando a vivere dall’altra parte della barricata. Compagni di quei giorni saranno loro, i migranti. Emergono, attraverso alcuni ritratti, le loro piccole storie ricavate dalle interviste raccolte sul posto, vite esemplari che danno voce alle migliaia che voce non hanno. Dopo aver concluso una fase di quell’esperienza, il protagonista ritorna in quei luoghi. Si misurerà con l’arroganza delle guardie di frontiera nord-americane e con la loro ignoranza; conoscerà la disperazione della favela di Nuevo Laredo dove assiste delle bambine cerebrolesi; insieme ai religiosi della missione denuncerà calunnie ed ipocrisie rivolte ai migranti, piantando sulla barriera della morte 66 croci bianche in ricordo degli altrettanti migranti morti affogati nel Rio Bravo nei primi nove mesi del 2009. Un ventaglio di riflessioni etiche, politiche e religiose nate dall’osservazione dei tanti modi diversi in cui può diffondersi lo stesso messaggio evangelico, unite da un filo di indignazione e di speranza.
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In una società dove conta solo ciò che serve a breve termine, l’educazione e l’istruzione sono oramai beni irrilevanti. La scuola pubblica, che è lo spazio fondamentale in cui tali beni prendono forma – e che non può sopravvivere se non sa guardare oltre né praticare valori duraturi –, è di conseguenza abbandonata, incompresa, diventa terreno di politiche sempre subalterne ad altri obiettivi. Eppure è un mondo animato da passioni, frustrazioni, speranze, delusioni, lotte e rinunce di adulti, bambini, adolescenti; un’umanità straordinaria che, per quanto studiata e indagata, raramente riesce a essere pienamente conosciuta. Ora Dario Missaglia, che della scuola ha fatto lo spazio di un’intera vita, ha voluto raccontare quel mondo dando voce a parole, sentimenti, conflitti, aspettative. Ed è un narrare in cui realtà e immaginazione si contaminano a vicenda: perché la realtà così evocata finalmente ci riconsegna per intero quel mondo complesso e restituisce credito e fiducia al compito più difficile che ogni adulto è chiamato a svolgere.
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Un tratto caratteristico degli attuali cambiamenti nel lavoro è la contrazione delle protezioni collettive, non solo con l’erosione del diritto del lavoro, ma anche con lo «smontaggio di fatto» di tutele e prestazioni sociali. La diffusione dei rapporti di impiego temporanei rappresenta uno dei capitoli più importanti della decollettivizzazione dei rischi e dei meccanismi per prevenirli, ridurli, fronteggiarli. I lavoratori con occupazioni instabili – soprattutto nel modello di flex-insecurity italiano – precipitano in una condizione di elevata esposizione al mercato, di elevata «mercificazione». La conseguenza è un progressivo deteriorarsi degli «equilibri» individuali e sociali. L’autore muove dalla ricostruzione delle trasformazioni nei modelli di organizzazione produttiva, delle strategie e dei comportamenti adottati dalle imprese per flessibilizzare il lavoro, grazie anche agli interventi legislativi promossi dai governi dei paesi europei. Quindi, attraverso le storie di lavoratori parasubordinati (con lunghe esperienze nella precarietà), racconta i tentativi di regolazione individuale del lavoro e delle sue condizioni, l’indebolimento di identità, culture e azioni collettive, il deficit di prestazioni del welfare state, la difficile sostenibilità a lungo termine di protezioni «fai da te».
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Nella comunicazione politica di Berlusconi ha assunto una funzione sempre più prevalente il momento retorico del comico. Non solo figure, situazioni, immagini e argomenti comici entrano a far parte del suo discorso politico, così spesso sui generis sul piano dei contenuti, dello stile, della recitatio. Ma, quando parla in pubblico, assorbe egli stesso, nella sua actio, movenze comiche e atteggiamenti attoriali che sembrano annullare irreparabilmente la specificità della comunicazione politica. Scherza, gesticola, imita, corre per strada inseguito dalle telecamere e rivolge una raffica di domande retoriche alla folla ricevendo sempre le risposte prefissate secondo un copione. Svuotata di ogni senso la politica ridotta a chiacchiericcio del tutto irriflessivo, per il ritrovamento dei significati pubblici bisogna rivolgersi altrove, al mondo dell’azienda, del denaro, degli interessi particolari. Il nichilismo del comico, che sbeffeggia la rappresentanza politica tradizionale, evoca dunque l’aziendalismo di un imprenditore che si propone agli elettori come il supremo decisore monocratico infastidito dagli stanchi riti della separazione dei poteri.
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Le microstorie del vino, di una fotografia familiare, dell’amicizia in un quartiere del paese sono un affondo nella memoria. Nel richiamo di avvenimenti e di turbamenti, i racconti si distendono nella quiete dei ricordi e nel lento vortice del pensiero, del tempo e dello spazio di tutta una comunità locale. In questo doppio registro narrativo l’autore nasconde un gioco sottilmente ineffabile. Infatti il linguaggio delle memorie per gradi viene estromesso, asciugato e il lettore all’improvviso si ritrova in bilico nel presente del Paese. Senza passato e senza futuro. Solo di fronte alla tecnica, ai simulacri della verità e smagrito della cittadinanza del lavoro così come oggi è nel destino di moltitudini di persone. Nel corrente esilio dal tempo, l’autore indica la speranza di un imminente inizio in cui le persone colme di memoria e di diritti danno avvio alla propria esperienza temporale, l’unica ad avere dignità di narrazione. Un libro insolito in cui la contaminazione di più linguaggi apre nuovi significati del mondo e porge la fiducia della parola per il futuro nonostante le soverchianti retoriche del consumo e la perfezione del nulla della tecnica.
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Eugenio ha respirato veleni per anni, senza che nessuno gli dicesse che quello stanzino era saturo di sostanze pericolose. Poi gli è venuto il morbo di Parkinson e soltanto dopo un lungo processo ha avuto (almeno) giustizia. Giorgio spingeva enormi bobine con la sola forza fisica, senza strumenti, fino a quando la schiena non ha più retto. Grazia continua a sollevare materassi, emarginata soltanto perché ha tentato di tutelare la propria salute dopo che le sue mani si sono arrese a uno sforzo pesantissimo, ripetuto molte volte al giorno, per molti anni. E poi c’è Vittoria, che adesso fa fatica a compiere semplici gesti della sua quotidianità domestica. Ma prima che le sue braccia venissero schiantate dai pesi che muoveva in legatoria era orgogliosa del suo lavoro. Dopo l’hanno cacciata… Certe malattie professionali riportano a tempi che sembrano lontani. Ma per molti lavoratori sono l’ergastolo con cui fare i conti per il resto dei propri giorni, magari con l’aggiunta di oltraggi e umiliazioni, perché quando ti fai male non servi più e allora… Questo libro racconta alcune di queste storie di malattia sul lavoro. E i protagonisti, al di là della rabbia e dell’ansia di giustizia, hanno qualcosa da dire ai tanti altri lavoratori che rischiano ogni giorno la salute.
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Hanno presidiato le fabbriche, hanno fatto lo sciopero della fame, hanno occupato strade, stazioni e vecchie carceri, sono saliti sui tetti e sulle gru. Trascurati dalle tv e dai giornali, abbandonati dal governo e dalla politica, delusi dalla sinistra e a volte lontani anche dai sindacati, milioni di lavoratori, garantiti e no, hanno cercato in questa lunga e dolorosa crisi italiana di farsi sentire e di farsi vedere, di testimoniare con il loro impegno il diritto a difendere un’occupazione, un reddito dignitoso, una speranza di cambiamento. Hanno combattuto, e combattono, una battaglia forse fuori dal tempo, in un paese che non riconosce più il lavoro come un valore su cui costruire una società giusta e solidale. Le loro storie rappresentano l’altra faccia, quella vera, di un’Italia smarrita e delusa dalle promesse berlusconiane.
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Dopo il precedente volume Lavoro pubblico: ritorno al passato?, che analizzava i contenuti della legge 15/2009, «Delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni nonché disposizioni integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro e alla Corte dei conti», si è tornati sull’argomento con una nuova iniziativa che ha affrontato i contenuti del decreto attuativo della legge Brunetta (d.lgs. 150/2009, «Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni»). Il contenuto del decreto delegato conferma quanto era stato evidenziato al momento del varo della legge 15/2009. Si tratta di un provvedimento negativo per l’efficacia delle amministrazioni pubbliche; centralistico, mentre nello stesso governo si invoca il federalismo fiscale ed istituzionale; burocratico nel sistema dei controlli; di ritorno al passato per i diritti del lavoro nel sistema pubblico e nei settori della conoscenza. Un provvedimento che verrà attuato mentre la politica dei tagli nelle pubbliche amministrazioni continua a produrre effetti nefasti sull’operatività di settori ai quali la Costituzione affida compiti fondamentali di universalità e qualità dei diritti delle persone.
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La storia del Cantiere navale di Monfalcone è la storia che ha visto migliaia di uomini e donne, operai, tecnici e impiegati, forgiare, insieme all’acciaio per costruire le navi, anche se stessi, il loro modo di vivere, di pensare e di vedere il mondo. Il libro ricostruisce gli eventi, le circostanze, le cause e gli effetti che hanno caratterizzato «l’altra storia» del Cantiere, quella dei lavoratori e del movimento sindacale, delle rivendicazioni e delle conquiste che hanno segnato lo sviluppo economico e sociale, non solo dello stabilimento navale, ma anche della città di Monfalcone e del suo territorio. Il volume, dunque, costituisce un contributo rilevante a una riflessione critica e apre la strada a ulteriori approfondimenti. Oltre 200 fotografie accompagnano la narrazione storica e documentano passaggi e momenti decisivi della vita centenaria del cantiere.
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Artisti, cineasti, intellettuali furono al fianco dei lavoratori che per tredici mesi, tra il 1968 e il 1969, occuparono a Roma la tipografia Apollon. Fu l’inizio di un nuovo rapporto solidale tra mondo del lavoro e mondo della cultura, cementato anche dalla lotta per sottrarre i mezzi di comunicazione al controllo del potere politico ed economico, per la riforma della Rai, per una nuova politica cinematografica, del teatro e della cultura musicale. Come rilanciare quel rapporto oggi, a distanza di quarant’anni, dopo la crisi della politica e l’eclisse dell’«intellettuale impegnato», mentre il cinema torna a interessarsi dei temi del lavoro? Tra storia e attualità, le testimonianze, le riflessioni e le proposte di scrittori, pittori, registi, politici, storici, lavoratori.
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Lo sciopero dei marittimi di cinquant’anni fa è ignorato. Anche dagli storici. Eppure è stato un grande sciopero mondiale. L’unico che, partito dall’Italia, ha avuto come palcoscenico l’intero pianeta, i porti dei cinque continenti e tutti i grandi mari, e che ha visto la partecipazione di 118 navi di cui più della metà in porti stranieri, dove quasi ovunque ha incontrato la solidarietà non soltanto delle marinerie locali, ma anche della popolazione. Le navi si fermarono al primo approdo – questa la parola d’ordine –, oltre che in tutti i porti italiani, nelle Americhe, in Africa, in Asia e in Oceania. In Europa lo sciopero avvenne nei porti di Las Palmas e Barcellona, Marsiglia e Nizza, Anversa e Atene. Lo sciopero, durato 40 giorni, venne organizzato per il rinnovo del contratto, vecchio di 28 anni, e il riconoscimento del sindacato sulle navi, del diritto di sciopero e di contrattazione. Ebbe un’importanza storica e fu «parte integrante, per certi versi anticipatrice – scrive Iginio Ariemma nella presentazione – di quel moto di popolo che pose fine agli anni cinquanta» e che determinò, con la caduta del Governo Tambroni, la conclusione della stagione politica del centrismo, che durava da oltre un decennio e che si era caratterizzata per la repressione del movimento dei lavoratori. Alla fine di quel viaggio, ricco di incognite ma affascinante, i lavoratori marittimi tornarono a bordo delle navi «come uomini liberi».
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Quali regole per la rappresentanza sindacale specie in presenza di contratti collettivi separati? La domanda non è nuova. Nel 1997 Massimo D’Antona ne ha dato una soluzione nell’area delle pubbliche amministrazioni. Oggi, a distanza di più di dieci anni, l’interrogativo ritorna di attualità nel settore privato: il fenomeno dei contratti separati è in aumento, con una grave incertezza sulle regole da applicare e sulla validità stessa del contratto collettivo. Il volume affronta appunto questa complessa problematica ripubblicando innanzitutto il saggio di Massimo D’Antona sull’articolo 39 della Costituzione. Seguono analisi di contesto, economico e sociale, sui livelli di reddito e sulle relazioni sindacali. Concludono l’opera varie proposte di riforma del sistema di relazioni sindacali, enucleate intorno a due opzioni alternative: affidare le sorti della contrattazione alla prassi oppure alle regole pubblicistiche della democrazia? E tali regole implicano una revisione dell’articolo 39 della Costituzione? Al fondo della divaricazione persiste una diversa lettura del mercato del lavoro, dell’ordinamento sindacale e della capacità stessa del legislatore, per quanto avveduto, di dare risposte lungimiranti, specie in un contesto di economia globale. Il volume, pur non potendo offrire soluzioni definitive, si segnala per il quadro esauriente delle proposte in campo.
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Racaille, feccia: così l’aveva definita l’allora ministro degli Interni Nicolas Sarkozy. Di questa «feccia» facevano parte anche Zyed e Bouna, 17 e 15 anni, morti mentre scappavano, inseguiti dalla polizia. È la scintilla che fa scattare la rivolta nelle banlieues, cinque anni fa. Gli scontri si susseguono per giorni, le immagini di quelle diecimila auto bruciate fanno subito il giro del mondo e si ripetono tre anni dopo ad Atene. Sono immagini che assomigliano a quelle di Los Angeles, solo che stavolta gli scontri razziali non c’entrano nulla: le rivolte di Parigi ed Atene sono, infatti, i simboli più evidenti del «modo» in cui intere generazioni hanno scelto di comunicare la loro rabbia e i loro desideri. Non si tratta del «malessere» dei figli dell’immigrazione, ma dell’espressione di una condizione di vita precaria che caratterizza tutti i giovani in Europa. Le periferie popolari francesi in cui infuria la protesta sono state per molti anni luoghi di emancipazione e di esperienze di protagonismo sociale, ma i grandi processi di ristrutturazione economica ne hanno cambiato il volto. Oggi la storia delle banlieues racconta solo la violenza poliziesca e l’incontro mancato tra la sinistra e le ultime generazioni, che rifiutano tutte le forme di rappresentanza, anche quelle introdotte col ’68. Ecco perché quelle periferie costituiscono la chiave di lettura per capire i nuovi fenomeni legati al lavoro e denunciano drammaticamente il vuoto di democrazia in Europa.
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Il Rapporto sui diritti globali, giunto alla sua ottava edizione,propone una lettura dei diritti come interdipendenti. È uno strumento fondamentale di informazione e formazione per quanti operano nella scuola, nei media, nella politica, nelle amministrazioni pubbliche, nel mondo del lavoro, nelle professioni sociali, nelle associazioni. Per Guglielmo Epifani si tratta di «uno strumento unico a livello internazionale per ampiezza dei temi trattati e per profondità di analisi».Padre Bartolomeo Sorge lo ha definito «una Bibbia laica».Tom Benetollo ne ha sottolineato il carattere di «indicatore di marcia». Il Rapporto si propone non solo di radiografare l’esistente ma anche di tentare di costituire una bussola per il cambiamento. Il Rapporto, ideato e realizzato dalla Associazione Società INformazione ONLUS, è promosso dalla CGIL nazionale in collaborazione con ARCI, ActionAid, Antigone, Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza (CNCA), Fondazione Basso-Sezione Internazionale, Forum Ambientalista, Gruppo Abele, Legambiente, vale a dire con le associazioni italiane tra le più autorevoli, rappresentative e territorialmente diffuse che sono concretamente impegnate sulle problematiche trattate dal Rapporto. In ognuno degli otto capitoli viene definito il punto della situazione e vengono delineate le prospettive del 2010. L’analisi e la ricerca sono corredate da cronologie dei fatti, da approfondite schede tematiche, dai dati statistici più aggiornati, da un accurato glossario, dai riferimenti bibliografici e web, dalle sintesi dei capitoli e dall’indice dei nomi e delle organizzazioni citate. Prefazione di Guglielmo Epifani, introduzione di Sergio Segio, interventi di Paola Agnello Modica, Lucio Babolin, Paolo Beni, Aldo Bonomi, Nicola Borello, Massimo Campedelli, Susanna Camusso, Carla Cantone, Luigi Ciotti, Vittorio Cogliati Dezza, Franco Corleone, Brian Currin, Maria Rosa Cutillo, Sergio D’Elia, Marco D’Eramo, Giuseppe Di Lello, Andrea Di Stefano, Fulvio Fammoni, Haluk Gerger, Patrizio Gonnella, Candido Grzybowski, Maurizio Gubbiotti, Christopher Hein, Vera Lamonica, Michele Mangano, Alessandro Margara, Agostino Megale, Raffaele Minelli, Jason Nardi,Nicola Nicolosi, Ivan Novelli, Moni Ovadia, Mauro Paissan, Mauro Palma, Enrico Panini, Antonio Papisca, Ciro Pesacane, Teresa Petrangolini, Antonello Petrillo, Paolo Pezzana, Morena Piccinini, Nicoletta Rocchi, Farian Sabahi, Giulio Sensi, Vandana Shiva, Marco Simonelli, Fabrizio Solari, Gianni Tognoni, Danilo Zolo.
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Un Di Ruscio scatenato, furibondamente vitale, comico e caustico allo stesso tempo, irriverente al massimo, torna nelle pagine di questo libro con una lingua graffiante ed eversiva che, come scrisse Italo Calvino: «Ricorda Céline, per la volontà di scaricare nel flusso delle parole una cupa aggressività». Attuale e potente come pochi per la forte capacità di testimonianza, oltre che per l’indiscusso valore stilistico, La neve nera di Oslo cresce lungo una narrazione fluviale in prima persona, e in presa diretta, che lo scrittore fa avanzare tra bizzarre considerazioni politiche e filosofiche, intrecciate al vivere sociale e quotidiano, alle aspirazioni e ai sogni di un emigrato italiano. Argomenti della narrazione so no la privata quotidianità, l’odissea della vita di fabbrica e l’orgoglio di far parte di una classe operaia che va oltre l’ap partenenza diventando condizione uma na universale. Intorno il ma linconico ed esistenzialissimo pae saggio lunare di Oslo, che il nostro attraversa in bicicletta o a piedi, una metropoli tra i ghiacci che sentirà per sempre straniera. Ottantenne, molto amato da Franco Fortini, Paolo Volponi, Salvatore Quasimodo – che lo definì «uomo d’avanguardia nel senso positivo, cioè della fede nell’attualità e per la violenza del discorso» –con questo nuovo libro,forse tra i suoi il più bello e lirico, Luigi Di Ruscio sembra chiudere un’esperienza letteraria durata oltre mezzo secolo dove vita e scrittura s’incontrano per diventare una cosa sola, mostrandoci qui cosa significa per uno scrittore emigrare in Scandinavia e vivere in un isolamento linguistico e sociale che è da sempre quello di tutti i migranti.
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Giovanna, diretto nel 1955 da Gillo Pontecorvo e sceneggiato da uno dei più importanti sceneggiatori italiani, Franco Solinas, racconta la lotta determinata e coraggiosa di un gruppo di operaie tessili contro la decisione dell’azienda di licenziare alcune di loro: esse occupano la fabbrica, iniziando un’esperienza nuova in cui il conflitto con il proprietario si mescola con i problemi che nascono con le loro famiglie e i loro figli; infatti accanto alla solidarietà della città emergono anche insofferenze patriarcali e maschiliste per questa inedita iniziativa di donne. Il mediometraggio fu presentato alla Mostra del cinema di Venezia del 1956, dove questa prima esperienza narrativa di film a soggetto del giovane regista fu molto apprezzato dalla critica, che parlò di «purissimo film neorealista». Nel volume, curato da Antonio Medici, il film è analizzato da un saggio introduttivo di Lietta Tornabuoni; ne viene pubblicata la sceneggiatura desunta, con un corredo fotografico; sono presentati documenti come il visto di censura e la descrizione del brano che fu censurato. Il racconto della sua storia produttiva è affidato alle testimonianze del regista, Gillo Pontecorvo, di due dei suoi principali collaboratori, Giuliano Montaldo e Franco Giraldi, del direttore della fotografia, Enrico Menczer, della protagonista, Armida Gianazzi, e ad una documentazione relativa al film internazionale collettivo sulle donne La Rosa dei Venti, di cui Giovanna era l’episodio italiano. Paola Scarnati e Mario Musumeci raccontano la storia del restauro del film, salvato e conservato dall’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico. Il volume è a cura di Antonio Medici.
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Del Nepal, la più giovane repubblica del mondo, che sta conducendo un travagliato cammino per l’affermazione della democrazia e dei diritti sociali, poco si conosce. Con l’ascesa al governo, dopo un’inattesa vittoria elettorale, dell’ex guerrigliero Prachanda, che ha messo fine a dieci anni di guerra popolare, i maoisti hanno abbandonato le armi per partecipare al processo democratico. Conflitti sociali e politici, rivendicazioni territoriali ed etniche caratterizzano il complicato percorso di scrittura della nuova Costituzione, repubblicana, democratica, federalista. Mentre il piccolo paese, schiacciato tra i due sub-continenti cinese e indiano, fatica a trovare la strada per uno sviluppo sostenibile che sollevi una larga parte della popolazione dalla soglia della povertà. Il volume, nato dal racconto del viaggio compiuto nel paese nell’aprile del 2009, in occasione del congresso del sindacato Gefont, ci informa sulla storia recente del Nepal, nella speranza di risvegliare l’attenzione per quel vero e proprio crogiuolo di popoli che vive sul tetto del mondo.
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Un’opera collettiva, testimonianze diverse che si dipanano nel ricordo vivo di quel 1968 che, insieme al resto del mondo, avrebbe cambiato in profondità anche l’Italia. Grazie al filo lungo della memoria, con questo volume la Fondazione Giuseppe Di Vittorio e la Federazione dei lavoratori della conoscenza della Cgil, la Flc, ripercorrono così quell’anno cruciale indagando sulle dinamiche, le persone e i processi che avrebbero condotto alla nascita del Sindacato Scuola della Cgil e a una nuova stagione di lotte sindacali degli insegnanti e di produzione culturale senza precedenti nelle scuole e nelle università. Il libro rievoca episodi che richiamano un momento assai alto e partecipato della politica, ricco come non mai di idee, di passioni, di conflitti. Oggi, a più di quarant’anni di distanza, si può forse sorridere degli eccessi ideologici e di una certa adolescenziale supponenza che ne hanno allora animato i protagonisti. A ben guardare, però, ci si accorge di come i contenuti di fondo di quella stagione continuino ad incalzarci e ad interrogarci in profondità.
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Le attività sportive popolari e proletarie sono state scarsamente prese in considerazione nella storiografia del movimento dei lavoratori del nostro Paese, anche se, come quelle in montagna, si sono intrecciate non di rado con passione politica, tensioni sociali e presa di coscienza collettiva. Questo volume si propone di colmare tale lacuna ripercorrendo una storia che già a fine Ottocento, intorno alla Società di mutuo soccorso e alle Camere del Lavoro, vede nascere in Italia le prime forme organizzate dell’associazionismo sportivo dei lavoratori – tra cui quelle dell’alpinismo e dell’escursionismo in montagna –, alle quali si legano le prime rivendicazioni sindacali per conquistare la «vacanza operaia». Con l’avvento del fascismo, insieme a quelle politiche e sindacali, anche tutte le forme di libero associazionismo vengono annientate o assorbite nelle strutture controllate dal regime. Non tutti però si rassegnano, e in quella fase storica un filo rosso, sottile ma resistente, unisce le esperienze dell’associazionismo proletario di montagna e quelle degli alpinisti «sovversivi». Subito dopo la Liberazione, grazie al movimento giovanile unitario e alla CGIL, nascono i Comitati per lo sport popolare e in seguito l’UISP. Arrivando ai giorni nostri, nel volume l’escursionismo e l’alpinismo popolari vengono indagati nel contesto delle vicende politiche e sindacali di un secolo e mezzo di storia del nostro Paese. E tra le pagine si incontrano molti dei protagonisti di questa storia, uniti dall’amore per la montagna, da Tita Piaz a Ettore Castiglioni, da Massimo Mila a Guido Rossa e a tanti altri.
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La presenza delle differenze, che esiste da sempre, si è oggi arricchita di nuovi volti e di saperi «altri» ed è caratterizzata dalla volontà di esprimersi ma anche dalla necessità di essere elaborata ed accompagnata. Una società interculturale non è l’evoluzione spontanea e naturale della realtà, ma è il risultato di un impegno intenzionale e condiviso che va pensato, progettato e organizzato. Donne per le donne è un libro che comunica uno stile di integrazione ed una capacità operativa al femminile: contenuti, valori e realizzazioni di un gruppo di donne che hanno dato vita ormai da più di dieci anni ad un laboratorio di cucito e stireria per il riscatto e la dignità di donne socialmente emarginate, specialmente se donne rom, e come prezioso servizio alla cittadinanza. È la testimonianza che l’assunzione di responsabilità, il coinvolgimento personale e la condivisione di parole e prassi lasciano orme profonde nella trasformazione sociale e contribuiscono a «costruire la storia».
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La nascita della Confederazione Generale del Lavoro nel 1906 rappresenta un nodo centrale della vicenda del movimento operaio e sindacale, non solo perché segnò la costruzione di un grande organismo di rappresentanza dei lavoratori italiani, ma soprattutto perché con questo atto la CGdL si incaricò della responsabilità di assurgere al ruolo di risposta storica al problema dell’organizzazione delle classi subalterne nell’Italia post-unitaria. Un evento che si svolge all’interno del complesso, e spesso contraddittorio, processo di relazione tra Stato, società e modernità che aprì la questione dell’ingresso delle masse lavoratrici e proletarie nella vita pubblica. I documenti qui pubblicati consentono, dopo oltre un secolo di storia del sindacato, non solo di inquadrare le problematiche poste dalla necessità di rappresentanza e organizzazione delle forze del lavoro, ma soprattutto di chiarire la collocazione e la funzione storica della Confederazione Generale del Lavoro nel contesto nazionale e internazionale. Il rapporto tra le forze organizzate dei lavoratori e il sistema economico italiano; la necessità di rappresentare le istanze sociali moderne della società; la capacità di svolgere un ruolo rilevante nella collocazione del movimento dei lavoratori al centro della vita e della sfera pubblica; la costruzione di percorsi di accesso e allargamento dei diritti sociali; le lotte e le mobilitazioni di massa e il rapporto con la società politica rappresentano temi che, se trovano la loro radice all’inizio del secolo scorso, mantengono interamente, pur rimettendone in discussione soggetti, forme e mezzi, la loro centralità anche all’inizio del nuovo millennio.
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Queste sedici storie, raccontate da alcuni tra i più significativi scrittori migranti che scrivono in lingua italiana, tutti residenti nel nostro paese, vogliono essere uno sguardo a più occhi e a più voci sull’Italia di oggi. Ne scaturisce uno scenario spietato, a volte molto amaro, dove gli «italiani brava gente» spesso ne escono con le ossa rotte. Gli autori vengono da Romania, Argentina, India, Cina, Egitto, Palestina, Algeria, Eritrea, Senegal, Congo, Togo, praticamente da ogni parte del mondo. Come scrive Enrico Panini nella prefazione, con intento fortemente politico: «In attesa di una piena e definitiva cittadinanza la scrittura diventa un luogo di accoglienza e integrazione fondamentale. Tanto più che in questo volume gli stranieri sono i soggetti e non solo l’oggetto del racconto, affermano cioè un protagonismo, nella scrittura, che non sempre la nostra società riconosce loro. Non è neanche da sottovalutare il fatto che essi scrivono in italiano: vorrà pure dire qualcosa, questo, se l’uso e il possesso di una lingua sono elementi d’integrazione fondamentale». I temi sono i più diversi, si va dalla condizione di sradicamento sociale e culturale, al lavoro assoggettato e sfruttato, fino a tematiche più private, oppure simboliche legate alle culture di riferimento. Ai racconti degli scrittori stranieri che scrivono in lingua italiana fa da «controcanto» una sequenza di immagini del fotografo Mario Dondero, che ritrae gli emigrati nostri, italiani, degli anni cinquanta e sessanta. Sono ad Eboli, da dove partivano, poveri e affamati, o in marcia durante uno sciopero alla Renault in pieno sessantotto francese, oppure a Marcinelle, nella miniera dove nel 1956 ne morirono 136, braccati dalle fiamme, soffocati dall’ossido di carbonio. E così il cerchio si chiude. La letteratura, le letterature, sono le vere ambasciate nelle nazioni più diverse. Poco diplomatiche, ma estremamente vere, sensibili, e sempre politicamente scorrette.