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Nell’ultimo trentennio le politiche migratorie hanno goduto in Italia di una visibilità pub-blica e di un’attenzione retorica via via crescenti, cui ha però corrisposto, in misura spesso inversamente proporzionale, un’attenzione disordinata e priva di visione programmatoria alle reali esigenze di governo sociale e dei diritti da parte dei differenti decisori, se non limitatamente ad alcuni aspetti – dalle sanatorie di regolarizzazione alla gestione dei flussi – o momenti, in particolare quelli elettorali. E tuttavia, il consolidarsi di un approccio di policy restrittivo, in prevalenza concentrato sulla gestione dei flussi, sembra lasciare ulte-riormente scoperta l’area delle politiche di integrazione degli immigrati e dei loro figli. Il contributo propone un profilo evolutivo dell’interazione tra dinamiche migratorie e poli-tiche di controllo e integrazione nel caso italiano, mostrando come questo si avvicini, più di quanto generalmente considerato, all’esperienza di altre democrazie continentali, sebbene con un più marcato ritardo nell’agenda delle politiche per gli immigrati.
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L’immigrazione straniera in Italia, iniziata almeno cinquant’anni fa, ha dato origine a una sedimentazione delle presenze che ha reso la popolazione di origine straniera sempre più complessa, composta da una pluralità di profili demografici e sociali la cui individua-zione necessita di criteri e strumenti informativi mirati. Con i dati del Censimento perma-nente del 2020 sono state analizzate le caratteristiche demografiche e le differenze in ter-mini di istruzione di sei specifici gruppi di popolazione, con o senza background migrato-rio. Si è cercato di comprendere in che misura essere stranieri, nuovi italiani o italiani da sempre, nati in Italia o all’estero, comporta delle differenze nei livelli di istruzione degli adulti e nei percorsi formativi dei giovani. Il divario con gli autoctoni si presenta molto ampio per gli stranieri immigrati ma anche per le seconde generazioni e abbastanza rile-vante pure per i nuovi italiani, a conferma che l’origine straniera influisce sulla buona riuscita del percorso formativo. Situazione che pone la necessità di superare nella raccolta dei dati, nell’analisi delle informazioni statistiche e nelle conseguenti scelte politiche ap-procci e letture inadeguati a descrivere e affrontare la complessità della realtà attuale.
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Con la crescita delle seconde generazioni di immigrati, sta diventando sempre più impor-tante monitorare la transizione all’istruzione terziaria dei minori di origine straniera, anche in base alle aspirazioni di ciascuno. Utilizzando le informazioni provenienti dall’in-dagine campionaria Istat sull’Integrazione delle seconde generazioni del 2015, il presente contributo analizza le aspirazioni degli studenti delle scuole superiori. Successivamente, effettuando il linkage con i dati amministrativi del Miur sugli studenti universitari, è stato possibile valutare quanti degli studenti intervistati durante la scuola superiore si siano effettivamente iscritti all’università. L’integrazione dell’informazione sui cittadini italiani per acquisizione ha consentito di considerare tra la popolazione con background migratorio anche quella componente naturalizzata. I risultati evidenziano come gli stu-denti con background migratorio frequentino l’istruzione terziaria in misura minore rispetto ai coetanei autoctoni. Tale gap è presente anche tra coloro che hanno aspirazioni di alta formazione durante la scuola secondaria, con conseguenti ripercussioni negative sull’equità sociale e sulle pari opportunità.
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L’inserimento nel mercato del lavoro degli immigrati è stato studiato con grande interesse nelle scienze economiche e sociali degli ultimi decenni. Lo scopo del presente contributo è valutare, attraverso l’utilizzo di un modello di tipo Probit, l’associazione tra l’essere o meno occupato e il livello di integrazione misurato con approccio multidimensionale distin-guendo tra gli ambiti culturale, sociale e politico. A tale scopo si fa ricorso ai dati dell’in-dagine campionaria su «Condizione e integrazione sociale dei cittadini stranieri», condotta dall’Istat nel 2011-2012. I risultati indicano che integrazione culturale e sociale sono fortemente associate alla probabilità di occupazione degli immigrati, mentre la dimensione dell’integrazione politica non pare svolgere un ruolo di rilievo. Tali evidenze sottolineano il ruolo centrale giocato dall’integrazione nell’inserimento lavorativo, sebbene con impor-tanti differenze in base a età e genere.
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La cura dei figli è un tema cruciale per le implicazioni con il sistema di welfare, la partecipa-zione femminile al mercato del lavoro e la fecondità. Il tema assume particolare rilievo per le madri immigrate in Italia che vivono la rarefazione dei loro legami familiari, causata dalla migrazione e dalla regolamentazione sui ricongiungimenti, in un contesto di arrivo fortemente familistico. Ricorrendo all’Indagine «Condizione e integrazione sociale dei cittadini stranieri» (Istat, 2011-2012), l’articolo analizza le strategie di cura informale per conciliare lavoro e famiglia delle lavoratrici immigrate. I risultati mostrano come le madri occupate, rispetto a quelle non occupate, abbiano maggior bisogno di delegare la cura dei figli, indipendentemente dal tipo di contratto di lavoro. La presenza all’interno della famiglia di persone che possono occuparsi dei figli aumenta il ricorso alla cura informale. Circa il tipo di cura informale, emergono scelte diverse per paese di origine: rispetto alle romene, le albanesi e le madri prove-nienti da altri paesi dell’Asia sono più propense a ricorrere alla cura familiare, mentre le madri provenienti dall’Africa subsahariana sono le meno propense.
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Il ciclo pandemico ha aggravato le diseguaglianze e le emergenze politico-sociali esistenti, non ultime quelle fondate sul genere. In risposta all’acutizzarsi del fenomeno della violenza domestica, nel dicembre del 2020 il governo italiano ha approvato una nuova misura, denominata Reddito di libertà (Rdl), che destina alle donne vittime di violenza un contri-buto di 400 euro mensili diretto a sostenerne quell’autonomia economica e abitativa con-siderata essenziale per sottrarsi al contesto di violenza. Gli obiettivi della misura sono solo contenitivi, o sono piuttosto diretti a far emergere il fenomeno nelle sue dimensioni effettive: una policy sentinella? Il disegno della policy pre-senta la stessa efficacia di copertura e la stessa capacità di intercettare la domanda di accesso alla prestazione tra donne italiane e straniere residenti? L’articolo intende rispon-dere a queste domande. Partendo dalla letteratura su immigrazione e violenza di genere, e usando un frame di analisi delle politiche sociali, la ricerca prova ad avanzare un modello di stima delle potenziali eleggibili alla misura (target) e a misurare l’efficacia del Rdl per incrocio della domanda sociale (take-up). L’obiettivo è quello di verificare due ipotesi: che si tratti di una policy sentinella, e che la misura funzioni, per come è disegnata, in modo insoddisfacente rispetto alla domanda proveniente dalle donne immigrate vittime di vio-lenza.
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Da oltre quindici anni l’occupazione di artigiani e commercianti, la forma di lavoro indipen-dente tradizionale più diffusa in Italia, è in netta riduzione. Il declino interessa però solo i lavoratori nativi poiché il lavoro autonomo degli immigrati è notevolmente aumentato. Ma non si tratta dell’affermazione di economie etniche e di enclave poiché gli immigrati rilevano spesso attività autonome, poco qualificate e poco redditizie, che i nativi abbandonano, non di rado per la difficoltà della successione generazionale. Utilizzando i microdati della Rileva-zione sulle forze di lavoro dell’Istat e il modulo ad hoc sulle condizioni del lavoro indipendente del 2017, l’articolo analizza il lavoro autonomo degli immigrati evidenziando come la sua espansione sia concomitante al declino del lavoro autonomo e imprenditoriale dei nativi e come, tra le caratteristiche individuali, l’area di origine e l’anzianità migratoria sono quelle che esercitano la maggiore influenza. Utilizzando la rara informazione sulle motivazioni addotte per svolgere un’occupazione indipendente, l’analisi mostra che la quota di immigrati per cui la scelta è forzata è minoritaria, pur non trascurabile. Tuttavia le differenze per area di origine e per titolo di studio suggeriscono di non generalizzare l’ipotesi della prevalenza dei fattori di attrazione del lavoro in proprio, ma di considerare che il lavoro indipendente possa avere un diverso ruolo nei diversi gruppi di origine.
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Salari e inflazione
- Il lavoro a Milano e Torino
- Gli orientamenti politici e culturali dei lavoratori
- Un nuovo scambio politico?
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Un’indagine sulle associazioni italiane nel mondo, tra le generazioni di migranti del dopoguerra e i flussi di nuova emigrazione degli ultimi 20 anni, che hanno portato all'estero oltre un milione di giovani italiani.
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Un’indagine sulle associazioni italiane nel mondo, tra le generazioni di migranti del dopoguerra e i flussi di nuova emigrazione degli ultimi 20 anni, che hanno portato all'estero oltre un milione di giovani italiani.
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Vent’anni di riforme prevalentemente sottrattive di ispirazione neoliberista (1992-2011) hanno ripristinato la sostenibilità economico-finanziaria del sistema pensionistico italiano, lasciando però criticità, sia nel breve che nel medio-lungo periodo, sul versante della soste-nibilità sociale e della connessa tenuta politica del sistema. Nel quadro delle compatibilità economiche-finanziarie, la sfida è dunque come ri-disegnare un modello pensionistico in grado di risolvere il «trilemma dell’adeguatezza»: l’efficiente, efficace ed equa combinazione tra 1) prevenzione della povertà e 2) mantenimento di un livello adeguato di reddito per i lavoratori pensionati, 3) ad età pensionabili ritenute con-grue e sostenibili. Elaborate entro la rigida cornice del metodo contributivo, gran parte delle proposte di riforma circolanti nel dibattito pubblico non sembrano però in grado di disattivare i trade-off che si generano tra le diverse dimensioni del «trilemma». Pare dunque necessario, a tre decenni dalle «grandi riforme» degli anni novanta e in un contesto strutturale comple-tamente trasformato, avviare una riflessione di più ampio respiro, che consenta di superare i cinque «miti» che costringono il dibattito pubblico sulle pensioni italiane, riducendo di fatto le alternative di riforma disponibili. Oltre i «miti previdenziali», in un paese che non può permettersi incrementi di generosità generalizzati e di espandere sensibilmente la spesa per pensioni, il principio a cui ancorare il disegno delle nuove regole dovrebbe essere l’«equità sostanziale» sia rispetto alle condizioni di accesso al pensionamento che nel calcolo delle prestazioni e nelle modalità di finanziamento.