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I mutamenti dello scenario epidemiologico, demografico e sociale, in particolare la diffusione delle malattie croniche e l’allungamento della vita, richiedono una ridefinizione dei contesti di cura, specialmente nell’approccio alle malattie inguaribili. Il ricorso al domicilio, come luogo di cura nella cronicità, comporta l’implicazione dei pazienti e dei familiari nei percorsi di assistenza, il che rende necessario ricomporre il rapporto fra i saperi scientifici e i saperi esperienziali, fra le cure formali e le cure informali. Il lavoro di cura nella cronicità ha bisogno di una presa in carico forte che tenga conto della dimensione biopsicosociale della malattia, mentre i modelli organizzativi in sanità rimangono ancora fortemente ancorati a modelli d’intervento ospedalocentrici a discapito delle cure primarie. Questo disallineamento fra bisogni e cure offerte mette in sofferenza anche i professionisti dei servizi sanitari. Nel presente contributo viene riportata la storia di un modello innovativo di educazione terapeutica, mirato a cogliere le nuove esigenze di presa in carico dei pazienti più fragili denominato Family learning sociosanitario, ideato e sperimentato nella realtà marchigiana.
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La professione medica in Italia attraversa una fase di intensa ridefinizione, sospesa tra pressioni manageriali, riduzione di autonomia e spinte vocazionali ancora vive. Attraverso una survey rivolta agli studenti di Medicina dell’Università di Napoli Federico II, il presente contributo mira ad evidenziare sia la persistenza di ideali di «servizio», sia il disallineamento crescente verso aree specialistiche critiche come l’emergenza-urgenza. Tali dinamiche sottolineano la necessità di politiche formative integrate, in grado di orientare aspirazioni individuali e fabbisogni reali del Servizio sanitario nazionale. Da una prospettiva sociologica, ciò implica un ripensamento dell’orientamento professionale e del sostegno istituzionale lungo l’intero percorso formativo. L’insieme di questi fattori ridefinisce tanto l’identità quanto la funzione sociale del «medico del futuro», sollecitando un dibattito sul rapporto tra vocazione, sicurezza economica e responsabilità collettiva.
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Dietro l’acronimo Rsa, Residenze sanitarie assistite, si cela un mondo fatto di bisogni e professionalità che merita di essere correttamente inquadrato, sia sotto il profilo dell’utenza che sotto il profilo del lavoro. Sono state raccolte numerose testimonianze di chi opera all’interno delle Rsa, ma più in generale nell’ambito del settore socio-sanitario, in centri di riabilitazione o di chi è impegnato in attività socio-sanitario assistenziale educativo di tipo domiciliare, da cui emergono spaccati di realtà e vita quotidiana che fanno ben comprendere come a fronte di blocchi nei rinnovi contrattuali, diritti normativi non riconosciuti, i lavoratori continuino a portare avanti la loro «missione» con grande spirito di sacrificio. Come Funzione pubblica Cgil abbiamo rilevato la necessità di avviare una riflessione seria e strutturata che porti ad un cambiamento dell’attuale sistema di gestione delle Residenze sanitarie assistite e, conseguentemente, dell’organizzazione del lavoro. A stesso lavoro, pubblico o privato che sia, devono corrispondere lo stesso salario e gli stessi diritti.
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La legge di bilancio 2021 ha individuato un livello essenziale delle prestazioni di un assistente sociale ogni 5.000 abitanti ed ha previsto un contributo di 40mila euro annui per ogni assistente sociale assunto a tempo indeterminato dagli enti locali oltre il rapporto di 1:6500, fino al rapporto di 1:5000. La misura rafforza i servizi sociali territoriali, ma la previsione della soglia minima di 1:6500 potrebbe penalizzare le aree più arretrate. Tuttavia, le risorse disponibili sono sufficienti per finanziare tutti i territori ed i Comuni possono reclutare assistenti sociali in deroga ai correnti vincoli assunzionali ed utilizzare il Fondo di solidarietà comunale per raggiungere la soglia. I dati mostrano una crescente reattività all’incentivo anche da parte dei territori più arretrati. Aumentano le risorse attribuite, i concorsi banditi e gli assistenti sociali assunti, mentre si riduce il divario fra le Regioni del Nord e quelle del Centro e del Mezzogiorno.
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A più di un anno dall’entrata in vigore delle nuove misure di contrasto alla povertà questo saggio si propone di «fare il punto» sul fenomeno della povertà lavorativa in Italia e sullo stato delle politiche di contrasto. Ricostruendo il tortuoso iter delle riforme, l’articolo individua elementi di continuità e discontinuità tra le misure che si sono susseguite nei recenti cambi di governo. Dopo aver discusso limiti e benefici del Reddito di cittadinanza, prende in esame le nuove misure introdotte con la riforma del governo Meloni – l’Assegno di inclusione (Adi) e il Supporto per la formazione e il lavoro (Sfl), focalizzando l’attenzione sul fenomeno della in-work poverty in Italia in prospettiva comparata. Nella parte conclusiva, l’analisi empirica viene problematizzata alla luce delle tendenze correnti nelle politiche sociali e del lavoro e di possibili alternative che iniziano a essere testate nel dibattito internazionale.
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Il contributo evidenzia la necessità di approfondire e rendere evidente la relazione tra povertà lavorativa e bassa qualità dell’occupazione in Italia, focalizzandosi su salari e tipologie contrattuali di lavoro. Negli ultimi decenni, l’Italia ha visto un calo dei salari reali rispetto a Germania e Francia. Nonostante si lavori più ore, la quota del Pil destinata ai salari è tra le più basse d’Europa. La qualità occupazionale, per intensità e durata dei rapporti di lavoro, influenza fortemente i salari: chi lavora con contratti a termine, a part-time e in modo discontinuo ha una retribuzione in media di meno di 10.000 euro l’anno, mentre i lavoratori con contratti a tempo indeterminato, a tempo pieno e con continuità hanno una retribuzione di oltre 37.000 euro, ma riguarda solo il 38,7% degli occupati del settore privato. Inoltre, il 58% di chi lavora part-time lo fa «involontariamente». L’incidenza del rischio di bassi salari e della povertà lavorativa è più alta per le donne e per i giovani, in ragione del maggiore ricorso di contratti discontinui e a tempo parziale. La povertà lavorativa è aumentata dal 9,5% nel 2010 all’11,5% nel 2022. Per contrastarla, occorre agire su più ambiti d’inter vento: specializzazione dei settori produttivi, sostegno alla contrattazione collettiva, regolazione del mercato del lavoro e rafforzamento delle competenze, puntando su politiche che riducano la precarietà e favoriscano l’occupazione stabile e qualificata.
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In quel che segue procederemo ad una rassegna ragionata delle argomentazioni svolte in tre libri, che in qualche misura si integrano e i cui meriti e limiti si bilanciano, sui temi della crisi ambientale: di Ardeni e Gallegati (La trappola dell’efficienza), di Saitō Kōhei (Il capitale nell’Antropocene) e di Carl Cassegård (Toward a Critical Theory of Nature: Capital, Ecology, and Dialectics). Il nostro scopo non è tanto una mera critica quanto aprire un dialogo. E questo proprio quando l’impellenza di un intervento che prenda di petto quella che Claudio Napoleoni, più che crisi ambientale, preferiva chiamare «la questione della natura» – una natura intesa come alterità essenziale che si riconosce e rispetta, senza con ciò rinunciare romanticamente alla sua trasformazione – e che si fa ogni giorno più drammatica. Da questi testi c’è senz’altro molto da imparare. C’è però anche molto da interrogare.
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Il contributo propone una rilettura critica del paradigma dell’invecchiamento attivo, esplorandone le genealogie teoriche, le modalità di implementazione e le implicazioni sociali. Attraverso una narrative literature review, il lavoro muove da una critica all’approccio prescrittivo che tende a normare l’invecchiamento attraverso metriche rigide e obiettivi uniformi, per chiedersi se – e in quali contesti – il paradigma dell’Active aging possa invece sostenere percorsi differenziati di autonomia e autodeterminazione nella tarda età. Il lavoro mette in discussione l’idea di attivazione come fine e propone, al contrario, di considerare l’autonomia come prerequisito per un invecchiamento attivo autentico. Adottando la prospettiva del life course approach, si sottolinea l’importanza di affrontare le disuguaglianze accumulate lungo l’intero arco della vita. Particolare attenzione è dedicata al livello meso, come spazio privilegiato per tradurre il paradigma in pratiche coerenti con le soggettività anziane.
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