- Potere e progresso
- La Confederazione europea dei sindacati
- Verso un sistema di relazioni post-industriali?
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Come cambiare la Pubblica amministrazione
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Il contributo indaga sulle ragioni che rendono difficile una riforma in senso maggiormente universalistico del sistema di cura delle persone anziane non autosufficienti. Adottando una prospettiva di neo-istituzionalismo storico, mostra come anche quando si sono aperte possibilità di riforma, inclusa quella recente legata al Pnrr, una serie di fattori e istituzioni, a partire dall’indennità di accompagnamento e dalla diffusa presenza di un mercato irregolare della cura, ha agito da forte meccanismo di blocco.
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La progressiva e rapida crescita della popolazione over 65, in Italia come in Europa, impone la riconsiderazione delle politiche e dei servizi dedicati espressamente a questa fascia di citta-dini/e. La non autosufficienza si pone al margine estremo di una condizione di difficoltà di movimento o di ridotta autonomia che riguarda comunque una parte consistente degli an-ziani. Il contributo evidenzia come le misure attualmente previste dal nostro sistema di wel-fare, in gran parte sostegni monetari, faccia sì che molti dei fabbisogni assistenziali siano coperti dalle famiglie. Un modello di welfare familiare e privato che, sebbene si sia dimostrato efficace, ancorché sostenuto prevalentemente dalle donne, oggi mostra limiti evidenti. Negli anni si sono susseguiti e sviluppati numerosi interventi, l’Italia si è dotata di un Fondo per la non autosufficienza, ma la complessità della governance del sistema e le differenze territoriali sono rimaste una costante del nostro paese. Con il Pnrr e dopo una lunga battaglia delle organizzazioni sindacali, in particolare di quelle dei pensionati, si è raggiunto un obiettivo importante con la legge 33 del 2023 «Deleghe al Governo in ma-teria di politiche in favore delle persone anziane», un disegno di legge che contiene criteri e princìpi che devono essere seguiti per configurare il futuro assetto dell’assistenza sociale sanitaria e socio-sanitaria per le persone non autosufficienti in tutta Italia. I limiti, so-prattutto riferiti alla mancanza di risorse, del primo decreto attuativo della delega, l’as-senza di una riflessione e valorizzazione del lavoro di cura che rimane poco valorizzato socialmente ed economicamente, la crescita dei bisogni devono costituire per il sindacato un grande terreno di azione politica, vertenziale e negoziale, nella consapevolezza che dal miglioramento delle risposte per le persone non autosufficienti passa la qualità della vita delle intere comunità.
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Il contributo sottolinea come la riforma della presa in carico delle persone non autosufficienti debba fondarsi sul principio per cui quella anziana è una stagione attiva socialmente, econo-micamente e culturalmente. È anche la stagione in cui molte persone si ammalano e spesso diventano dipendenti dall’assistenza e dall’aiuto degli altri. È proprio nel momento in cui la persona anziana, per le sue condizioni fisiche e mentali, diviene persona disabile che appare della massima importanza poter disporre di un unico sistema integrato che sia capace di garantire a tutte le persone non autosufficienti, disabili e anziani disabili, le più accessibili e idonee forme per la valutazione e la presa in carico, con una innovativa capacità di valoriz-zazione del contesto di vita domiciliare e la promozione degli interventi necessari a scongiurare il rischio di isolamento e confinamento nel rispetto delle differenze che ciascuna situazione presenta. Dopo aver approfondito i punti qualificanti che uniscono i differenti progetti e pro-poste degli ultimi venti anni, il contributo evidenzia le criticità dello schema di legge recante deleghe al governo in materia di politiche in favore delle persone anziane n. 3372023 e del d.lgs. n. 28/2024.
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La virtù più attuale di Franco Basaglia, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita, è il coraggio di opporsi all’establishment e non soltanto a quello della psichiatria ma anche a quello della ideologia medica. Questa opposizione è fatta di pratiche trasfor-mative concrete e di complesse analisi teoriche e ha permesso all’Italia di chiudere i mani-comi e creare un’assistenza basata sulla dimensione psicosociale della malattia mentale più che su quella psichiatrica. La rottura pratica ed epistemologica operata da Basaglia va ben oltre le istituzioni della medicina e si estende a tutte le istituzioni che opprimano, che tolgano diritti e neghino la soggettività: carceri, istituzioni per anziani e spesso anche gli universi istituzionali della giustizia e della educazione. Basaglia esige e, là dove opera, realizza non una società senza diversi, ma una società diversa, permeata da un forte senso di cittadinanza e democrazia. La sintesi fra l’umanesimo derivatogli dalla fenomenologia e dall’esistenzialismo e l’ade-sione alla visione gramsciana delle disuguaglianze sociali ed economiche fa di Basaglia un gigante del pensiero scientifico e politico del Novecento.
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Le politiche sociali costituiscono un importante caso di studio per il federalismo, in quanto ambito già devoluto alla competenza regionale. L'articolo 117 della Costituzione, infatti, come riformulato nel 2001, già riconosce alle Regioni potestà legislativa esclusiva in tale campo, mentre rimane di competenza statale solo l’individuazione dei Lep, i Livelli essen-ziali delle prestazioni che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. La strada per l’individuazione dei Lep nel sociale si è rivelata, tuttavia, particolarmente ardua e, in loro assenza, il sistema dei servizi sociali si è sviluppato poco e con pronunciate differenze territoriali. D’altra parte, la leva finanziaria, rappresentata dal riparto dei, pur limitati, fondi nazionali destinati al sociale, ha costituito l’unico strumento per assicurare un qual-che minimo coordinamento dei servizi a livello nazionale. Eppure, l’esempio delle politiche sociali sembra ignorato dalla legge 86/2024 sull’autonomia differenziata ed esse rischiano addirittura di essere vittime della nuova legge. La situazione venutasi a creare ha, infatti, già portato al blocco dell’iter dei decreti di individuazione dei Lep nel sociale, previsti dalla legge di bilancio 2022, mentre la possibilità che vengano cancellati o devoluti i fondi sociali nazionali genera preoccupazione per la tenuta complessiva del sistema.
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Nell’ambito delle cosiddette aree interne italiane, esistono numerosi casi caratterizzati da tentativi strategici fallimentari e di opportunità mancate. Un esempio di questo genere riguarda il territorio dell’ex indotto minerario di Cabernardi-Percozzone, collocato all’in-terno dell’Alta Valle del Cesano, area interna a confine tra le province di Ancona e Pesaro-Urbino. Questo lavoro si prefigge l’obiettivo di una ricostruzione delle diverse pa-rabole socio-economiche che questa particolare area, che si trova al di fuori del dibattito e dell’interesse politico, ha avuto negli ultimi cento anni. Il fine è quello di dimostrare come questo territorio, in cui sono presenti diverse risorse infrastrutturali e socio-comunitarie residuali, non sia riuscito a ingenerare un mutamento rispetto alla stasi degli ultimi de-cenni, in particolare nei settori appartenenti alla cosiddetta economia fondamentale (wel-fare, ma anche produzione e distribuzione di beni e servizi «fondamentali»), né tanto meno nel rinnovamento dal punto di vista della cittadinanza sociale e dei soggetti che potrebbero farsene carico.
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L’articolo contribuisce alla letteratura sulle aree interne con un’analisi delle politiche per la resilienza dei territori partendo dal caso di Piombino, città siderurgica della costa to-scana interessata da un processo di deindustrializzazione, ormai in atto da più di un trentennio, che ha trasformato uno dei motori dello sviluppo regionale in un’area margi-nale. Tramite l’utilizzo di uno studio di caso longitudinale, l’articolo mostra che non esiste un automatismo tra deindustrializzazione e declino. Piombino è un esempio di strategie di policy che non hanno innescato processi di crescita economica e sociale basati su un modello di sviluppo diverso da quello della grande industria e, al contrario, hanno portato la città ai margini. L’articolo mostra come una serie di criticità nella governance locale e sovralocale e nelle politiche adottate in due giunture critiche per lo sviluppo dell’area hanno accelerato il passaggio della città da polo ad area marginale: la tempistica degli interventi implementati, il policy mix degli strumenti adottati, la presenza di attori che hanno agito secondo una logica estrattiva delle risorse locali, la mancanza di condizionalità negli stru-menti di policy nazionali e la fragilità degli interventi basati sul rafforzamento delle con-nessioni tra attori locali e sovralocali.
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Negli ultimi anni, specialmente dopo la pandemia da Covid-19, è emerso un rinnovato interesse per la montagna italiana come luogo di vita e lavoro, attrattivo per un numero crescente di persone provenienti da aree urbano-metropolitane. Il progetto di ricerca «Mi-grazioni climatiche interne nella metromontagna italiana» (Miclimi) ha esplorato il ruolo del cambiamento climatico nel co-indurre queste forme di mobilità umana verso le «terre alte», in un contesto in cui le città della Pianura Padana affrontano effetti sempre più critici legati ai cambiamenti ambientali. I risultati qui discussi mostrano che la percezione degli impatti climatici nelle aree urbane sta alimentando una crescente domanda di spo-stamento verso le aree montane. Tuttavia, per governare in modo efficace queste «migra-zioni climatiche verticali», è necessaria una riforma delle politiche pubbliche che valorizzi la metromontanità, ovvero le connessioni tra città e montagna, garantendo lo sviluppo di infrastrutture e servizi adeguati per sostenere questi nuovi flussi migratori.
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Questo articolo esplora le ragioni del restare dei giovani che vivono nelle aree marginali, proponendo una classificazione che sistematizza la varietà delle loro condizioni, basata sull’analisi del rapporto tra aspirazioni individuali e contesto di vita. L'obiettivo princi-pale è esaminare la scelta di rimanere in queste aree senza assumere che essa sia dovuta alla mancanza di risorse per realizzare un progetto migratorio, ma mirando altresì a sfatare le visioni romantiche che considerano il restare come una scelta avulsa dalle difficoltà dei contesti fortemente svantaggiati. L’analisi è stata condotta a partire da 30 interviste a giovani che vivono in quattro aree interne del Centro-Sud Italia, le cui storie di vita ci hanno permesso di definire sei profili di stayers: convinti, adattati, temporanei, incastrati, proattivi e acquiescenti. Oltre a si-stematizzare l’eterogeneità del fenomeno del restare nelle aree marginali e superare alcuni biases che caratterizzano la letteratura sul tema, la classificazione proposta offre spunti di riflessione per mettere a fuoco l’interazione tra disuguaglianze sociali e geografiche in Italia ed elaborare efficaci e non più procrastinabili politiche pubbliche per contesti territo-riali a crescente rischio di marginalizzazione.
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Lo spopolamento delle aree interne del nostro paese è una questione sempre più al centro dell’attenzione delle politiche pubbliche, sia sul piano dell’analisi che su quello degli stru-menti di contrasto. Interroga sia la dimensione della gestione dei servizi pubblici locali che quella delle tendenze di welfare di lungo periodo. Un caso di particolare interesse è quello della sanità. Negli ultimi decenni la politica sanitaria ha determinato un accentramento dell’offerta sanitaria per acuti in presìdi di dimensioni medio-grandi, solitamente collocati nei maggiori poli urbani. Al contempo, la lentezza della transizione verso il potenziamento della me-dicina territoriale ha determinato un depauperamento di servizi sanitari nelle aree interne del paese. Quali sono i meccanismi che si generano tra domanda e offerta sanitaria in queste zone? Il presente lavoro tenta di rispondere a tale domanda, mostrando dapprima l’evoluzione normativa riguardante la medicina territoriale nel nostro paese e fornendo una panoramica sulla Strategia nazionale delle aree interne. Successivamente verrà illustrato il caso della regione Marche per un’analisi del rapporto tra domanda e offerta sanitaria nelle aree più periferiche della regione.
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L’articolo si propone di entrare nel merito del dibattito sociologico ed economico sulle pro-spettive di sviluppo o declino delle aree interne, guardando alla realtà calabrese quale una delle aree più fragili del Mezzogiorno italiano. La riflessione si concentra sull’analisi delle variabili che incentivano una performance proattiva dei territori periferici rispetto all’in-tercettazione di opportunità di finanziamento e di crescita. In particolare, si analizza la propensione delle élite economico-istituzionali a fare rete e promuovere i territori. Il metodo utilizzato è di tipo quali-quantitativo. In un primo momento si è costruito un data base su dati di OpenPnrr sui comuni delle aree interne secondo la Snai 2014/2020. Successivamente, si è proceduto ad effettuare un’analisi di contenuto di 58 interviste dei sindaci dei comuni individuati. I risultati dimostrano che i territori con una presenza di società civile strutturata hanno maggiori opportunità di portare avanti progettazioni innovative e cooperative. Un tessuto civile vivo diventa un importante fattore nel disegno delle politiche locali, offrendo meccani-smi e incentivi positivi per costruire politiche innovative anche in luoghi remoti del paese.