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Le attività sportive popolari e proletarie sono state scarsamente prese in considerazione nella storiografia del movimento dei lavoratori del nostro Paese, anche se, come quelle in montagna, si sono intrecciate non di rado con passione politica, tensioni sociali e presa di coscienza collettiva. Questo volume si propone di colmare tale lacuna ripercorrendo una storia che già a fine Ottocento, intorno alla Società di mutuo soccorso e alle Camere del Lavoro, vede nascere in Italia le prime forme organizzate dell’associazionismo sportivo dei lavoratori – tra cui quelle dell’alpinismo e dell’escursionismo in montagna –, alle quali si legano le prime rivendicazioni sindacali per conquistare la «vacanza operaia». Con l’avvento del fascismo, insieme a quelle politiche e sindacali, anche tutte le forme di libero associazionismo vengono annientate o assorbite nelle strutture controllate dal regime. Non tutti però si rassegnano, e in quella fase storica un filo rosso, sottile ma resistente, unisce le esperienze dell’associazionismo proletario di montagna e quelle degli alpinisti «sovversivi». Subito dopo la Liberazione, grazie al movimento giovanile unitario e alla CGIL, nascono i Comitati per lo sport popolare e in seguito l’UISP. Arrivando ai giorni nostri, nel volume l’escursionismo e l’alpinismo popolari vengono indagati nel contesto delle vicende politiche e sindacali di un secolo e mezzo di storia del nostro Paese. E tra le pagine si incontrano molti dei protagonisti di questa storia, uniti dall’amore per la montagna, da Tita Piaz a Ettore Castiglioni, da Massimo Mila a Guido Rossa e a tanti altri.
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Per chi li indossa sono segno di giovinezza. Se sono scoloriti e dall’aspetto consunto hanno un fascino in più. Per chi li produce sono diventati causa di malattia e di morte. Dal 2005 quarantasei operai turchi che lavoravano nelle fabbriche di jeans hanno perso la vita uccisi dalla silicosi. L’ennesima strage del lavoro ignorata dai media. Jeans da morire la racconta con una appassionante ma rigorosa ricostruzione di dati, fatti e responsabilità, rompendo il silenzio che avvolge questa vicenda. Il volume propone anche la traduzione in lingua inglese dell’intero testo.
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L’emigrazione italiana in Francia (1880-1914) fu anche lotta di classe e partecipazione alle rivendicazioni del movimento operaio d’oltralpe. A partire dallo studio di fonti italiane e francesi, il libro offre un quadro d’insieme sulla presenza italiana nel Sud-est del paese e ricostruisce il ruolo di primo piano assunto dagli immigrati italiani negli scioperi dei principali centri del litorale. Questo importante traguardo era il frutto del lavoro di propaganda portato avanti dai socialisti italiani «fuoriusciti» che fecero da tramite tra gli immigrati italiani e i sindacati francesi. Le figure protagoniste furono quelle di Luigi Campolonghi a Marsiglia e Giovanni Petrini a Nizza, sorretti da un attivo gruppo di militanti che, a partire dai primi anni del Novecento, guidarono le rivolte dei lavoratori. In quegli stessi anni si realizzò una svolta importante nelle relazioni italo-francesi e, soprattutto, fra immigrati italiani e popolazione locale. Tuttavia, anche se violenze e scontri – particolarmente frequenti nell’ultima decade dell’Ottocento – tendevano a diminuire, all’alba del 1914 resistevano tensioni tra italiani e francesi, dalle quali emergeva lo scarso radicamento degli ideali internazionalisti all’interno delle stesse organizzazioni del movimento operaio. Lo scoppio della prima guerra mondiale interruppe un percorso fatto di luci e ombre: condivisione di battaglie comuni e conflitti, più o meno latenti, legati alla nazionalità dei lavoratori.
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Dopo i tanti insuccessi registrati a partire dal 1990, nell’agenda politica di Roma è di nuovo presente una questione di scala: la possibile attuazione di una riforma del sistema di governo. Anche stavolta però il cambiamento è difficile per diversi motivi, politici e no, approfonditi nel volume. Cosa ne pensano, in particolare, gli attori sociali e istituzionali di Roma e provincia? Muovendo dai risultati di una ricerca sulle mobilitazioni della società civile nell’area metropolitana, il volume discute – collocandosi nel dibattito internazionale in corso su questi temi nelle scienze politiche e sociali – le trasformazioni di scala del potere politico locale. A Roma per diverse ragioni questi problemi rientrano con modalità contraddittorie nell’orizzonte strategico tanto della società civile che lotta per difendere i beni comuni, quanto dei governi di prossimità. Mentre la prima appare sostanzialmente indifferente, i municipi romani auspicano il cambiamento e i Comuni «minori» lo temono. Il Comune e la Provincia di Roma hanno idee fra loro diverse. Tali atteggiamenti, sommandosi alle esistenti asimmetrie di potere, rendono la riconfigurazione della scala una posta in gioco di prevalente interesse delle élite politiche ed economiche metropolitane. Queste infatti riescono meglio a strutturare le loro logiche di azione in una dimensione trans-scalare, in cui sono compresenti orizzonti locali nazionali e globali.
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Gli studenti delle scuole secondarie superiori del nostro Paese conoscono la Costituzione? Ne apprezzano i principi e i valori? È quanto ha voluto appurare un’indagine di «Proteo Fare Sapere», associazione di docenti e ricercatori, in collaborazione col CRS. L’inchiesta ha coinvolto oltre 7.000 studenti di licei, istituti tecnici e professionali di dieci regioni italiane. La riproposizione di quesiti utilizzati per un’analoga indagine condotta nel 1988 da A. Ardigò e C. Cipolla ha consentito confronti diacronici che mettono in evidenza i mutamenti intervenuti nel corso degli ultimi 23 anni nel rapporto tra universo giovanile e istituzioni, politica, modo d’intendere la cittadinanza. I risultati dell’inchiesta possono rivelarsi tanto più utili in seguito all’introduzione (con la legge n. 169 del 2008) nelle scuole di ogni ordine e grado dell’insegnamento di «Cittadinanza e Costituzione», offrendo agli insegnanti uno strumento in più affinché la «formazione del cittadino» si basi sulla conoscenza di ciò che effettivamente gli studenti italiani chiedono alla nostra democrazia. Ha collaborato Gennaro Lopez.
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L’annosa questione dell’evasione fiscale, significativamente definita in prima pagina «maxirapina» dal quotidiano cattolico Avvenire, è stata più volte al centro del dibattito sindacale e dei movimenti di tutela dei cittadini, senza peraltro trovare adeguato riscontro nelle forze politiche. Come è noto, il Parlamento si sta occupando in maniera prevalente di uno degli aspetti della materia, il federalismo fiscale, che, di certo, così come delineato, non inciderà in modo rilevante sulla lotta all’evasione, accentuando invece la sperequazione già esistente tra le diverse aree geografiche. Gli autori affrontano dal punto di vista giuridico e con una visione moderna e globale il problema dell’evasione, che coinvolge anche l’economia sommersa nei suoi complessi e diversi risvolti. Avanzano inoltre proposte concrete per una incisiva lotta contro «lo scandalo dell’evasione fiscale» mediante una più stretta collaborazione tra le autorità tributarie centrali e quelle locali. Il saggio è corredato di una serie di dati forniti dalle principali istituzioni che si occupano di evasione fiscale, così da offrire un quadro completo della gravissima situazione in cui è precipitato il paese.
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La crisi economica cominciata nel 2008, inizialmente caratterizzata per i suoi aspetti finanziari, ha avuto notevoli ripercussioni in materia di occupazione, inducendo gli Stati all’adozione di misure volte a far fronte ad un evento prevalentemente descritto come temporaneo e che, invece, ha assunto un carattere sempre più strutturale. Una ricerca sui provvedimenti legislativi adottati in Francia, Spagna ed Italia per far fronte agli effetti della crisi ha condotto a risultati del tutto differenti dall’ipotesi iniziale. A fronte di misure di carattere assistenziale e dichiaratamente transitorie, si è rilevato come assai più importanti siano state le riforme di carattere strutturale ispirate al modello della flessicurezza, ormai dominante nell’ambito dell’Unione Europea. Anche il sistema della contrattazione collettiva, sia per effetto delle riforme legislative adottate in Francia e Spagna, sia per l’aspro conflitto apertosi in Italia, si ispira alla linea di tendenza ideologicamente riconducibile al medesimo modello. La ricerca, realizzata con l’apporto di qualificati giuslavoristi dei tre paesi, a partire da una riflessione sul ruolo delle istituzioni dell’Unione Europea, offre un interessante quadro di sintesi e significativi dettagli sulle più recenti tendenze del Diritto del lavoro nei paesi dell’Europa mediterranea.
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Esiste e funziona egregiamente in Francia un Fondo vittime di amianto che indennizza indistintamente tutti i lavoratori affetti da malattie da asbesto, senza la necessità per questi di dover dimostrare la colpa del datore di lavoro. L’indennizzo viene così erogato sul solo presupposto del nesso tra esposizione ad asbesto e malattia anche ai lavoratori che, ad esempio, sono stati dipendenti di aziende non più esistenti o non solvibili. Anche in Italia esiste un Fondo vittime di amianto, che però, pur essendo stato istituito, non è mai decollato compiutamente. A differenza della Francia, infatti, il tema della «riparazione economica» per i lavoratori ammalati o per le famiglie dei lavoratori deceduti è stato integralmente devoluto al sistema giudiziario con una conseguente miriade di controversie giudiziali, civili e penali. Intanto agiscono in giudizio solo quei lavoratori che possono farlo nei confronti di aziende tuttora esistenti e soprattutto solvibili. Inoltre ad essi, per ottenere il risarcimento del danno, compete l’onere di provare non solo il nesso tra l’esposizione e la malattia, ma anche la colpa del datore di lavoro. I contributi di medici e giuristi raccolti nel volume fanno quindi il punto sullo stato della giurisprudenza, sul diritto sostanziale e sugli aspetti processuali, in tema di patologie da amianto e diritto al risarcimento.
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Il libro riporta in sintesi i risultati di un lavoro di ricerca svolto nell’ambito di un progetto sulla Prostituzione migrante che ha visto impegnate unità di ricerca delle Università di Siena, Firenze, Torino e Salerno oltre che l’IOM di Ginevra e l’UNODC di Vienna. Si è trattato di una ricerca originale condotta in situazioni caratterizzate da precarietà e illegalità, dove lo sfruttamento non è soltanto un dato economico ma pervade l’humus sociale delle realtà coinvolte dal fenomeno. Utilizzando il metodo dell’inchiesta è stato messo a fuoco in particolare l’aspetto dei clienti delle prostitute. La ricerca mostra come oggi, nel mondo globalizzato, da parte dei giovani intervistati il mercato del sesso sia considerato di facile accesso e del tutto aperto. I mezzi di comunicazione inoltre da tempo presentano il sesso secondo infinite modalità, facendolo diventare ad un tempo obiettivo di facile consumo ma anche di più sofisticata sostanza; ne consegue che il cliente consumatore riesce a soddisfare il maggior numero di variabili sul tema quasi soltanto con il ricorso alle prestazioni a pagamento. Gettata nuova luce sulla questione dei clienti, nel volume viene messo a fuoco come sia maturo il tempo per portare ad emersione tale problematica, favorendo un dibattito volto in primo luogo a far crescere, non solo tra i clienti, ma anche tra i cittadini in generale, la consapevolezza che le prostitute non sono una merce qualsiasi, bensì persone, e che la cosa riguarda tutti. Infatti il dato più preoccupante che le interviste ci consegnano è la completa indifferenza alla questione e una diffusa apatia a porsi per lo meno il problema di avviare forme di contrasto a questa deriva.
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Per chi emigra la parola ha una importanza decisiva e dop pia. La parola ha il compito di tenere vivo il ricordo, da una parte, e, dall’altra, di farsi spazio in un mondo nuovo. Chi emigra è così preso tra due «parole» e due lingue, una da ricordare, l’altra da imparare. Negli ultimi anni alcune donne, provenienti da paesi diversi e fra loro lontani, hanno compiuto una scelta coraggiosa: quella di utilizzare la lingua nuova, cioè la lingua straniera e «matrigna», non più soltanto in modo funzionale, per fruire al meglio delle opportunità offerte dalla società di accoglienza, ma per raccontare. Per queste migranti la scrittura, il racconto, la narrazione nella nuova lingua sono fondamentali strumenti di autorappresentazione e di «rappresentazione» dei mutamenti che intervengono in un contesto particolare come quello dell’emigrazione. Per chi ha alle spalle una famiglia di origine straniera, ma è da tempo cittadina del nostro paese, anche al di là del riconoscimento giuridico, scrivere è comunque anche un rapportarsi con una cultura e una terra più o meno lontane, con la propria identità mobile e ricca di esperienze. Anche le «native», sempre più spesso presenti e attive in associazioni interculturali, amano raccontare l’impatto che l’incontro con «l’altra» ha sulle loro vite. Questi racconti sono senz’altro una impareggiabile occasione di confronto e un momento di scambio reale e profondo attraverso la comparazione dei vari «punti di vista» e dei modi di narrare il nostro mondo comune. Per questo il «Caffè letterario» della Casa internazionale delle donne, con il sostegno e il patrocinio della Provincia di Roma, si è proposto di incoraggiare la «narrazione incrociata» tra migranti e native, residenti a Roma e provincia, tramite un apposito concorso letterario, rivolto alle donne, che avrà ricorrenza annuale. L’antologia è il primo risultato di questo lavoro. Con una prefazione di Cecilia D’Elia, assessore alla Cultura della Provincia di Roma, e l’introduzione delle componenti della giuria, contiene i dieci racconti delle vincitrici; la giuria ha comunque deciso di pubblicare tutti i 34 testi pervenuti, per il loro valore intrinseco. Sono infatti una preziosa testimonianza di quanto può essere lungo il cammino che ci porta alla reciproca conoscenza. E di quanto può essere ricco.
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Il 10 dicembre del 2010 a Sidi Bouzid in Tunisia si dava fuoco il giovane venditore ambulante Mohamed Bouazizi per protestare contro i soprusi della polizia. Fu l’inizio di quella che è stata chiamata la Primavera araba: una serie di movimenti di protesta, di manifestazioni, di occupazioni che hanno coinvolto decine di milioni di persone, giovani e donne, in tutto il Nordafrica e il Medioriente. In alcuni casi la protesta è stata essenzialmente pacifica, in altri si è fatto ricorso alla violenza, in altri ancora – in Libia, Yemen e Siria – si è arrivati alla guerra civile. A distanza di quasi due anni dall’inizio delle proteste il bilancio è ancora incerto: in Tunisia, Egitto, Libia e Yemen sono stati rovesciati i regimi al potere da decenni; in altri paesi (Giordania, Marocco, Oman) le proteste hanno dato impulso a movimenti di riforma già in atto; in altri ancora (Arabia Saudita, Bahrein, Mauritania) le proteste non hanno prodotto apprezzabili risultati. In Siria la guerra civile ha assunto caratteri sempre più sanguinari. Laddove sono stati rovesciati i regimi e si sono tenute libere elezioni vi è stata l’affermazione di movimenti religiosi legati ai Fratelli musulmani, la forza politica meglio organizzata in tutto il mondo arabo; mentre in Algeria e in Libia hanno prevalso i partiti governativi di carattere «laico». Quali che saranno gli esiti ultimi dei vasti cambiamenti in corso, essi hanno rappresentato un risveglio della dignità e della volontà di autogoverno del mondo arabo, un prepotente bisogno di libertà e di sviluppo economico che ha indotto i paesi europei e gli Stati Uniti a cambiare le loro politiche estere e a cercare nuove forme di collaborazione. Nonostante la recente pubblicazione su internet di video oltraggiosi nei confronti dell’islam, che hanno provocato un’esplosione di violenza nei confronti del mondo occidentale, le «rivoluzioni della dignità» sono altra cosa e continueranno ad operare in profondità cambiando – sperabilmente in meglio – i rapporti tra mondo islamico e Occidente.