• L'Annale 2016, il primo vero anno della «nuova» Fondazione Giuseppe Di Vittorio, è dedicato all’attività che in Europa svolgono tante strutture che, in modo analogo alla nostra, per il sindacato si occupano di formazione e di ricerca storica e sociale. Abbiamo coinvolto istituti con i quali abitualmente cooperiamo, rappresentativi delle realtà del Sud, Nord ed Est Europa (ETUI, ISTUR CITUB, Fondazione Hans Böckler, INE-GSEE, Istituto Bento de Jesus Caraça IBJC, Fundación Cultural 1° de Mayo, SALTSA, ESRITU, DIEESE, SEWA Academy), ampliando – a livello internazionale – l’esame ad altri due importanti paesi come India e Brasile. La scelta di fondo nel lavoro degli istituti sindacali, riscontrabile nei saggi pubblicati, è rappresentata dalla necessità di rimettere al centro le persone e i lori diritti, le condizioni di vita e di lavoro, gli interessi e le domande che esprimono. Le attività si svolgono attraverso campagne di informazione, rapporti di ricerca, corsi di formazione sindacale, pubblicazioni e libri che aiutano a sviluppare reti di esperti sindacali, a formare i rappresentanti dei sindacati ed anche a sviluppare un rapporto con università ed altri centri di ricerca esterni al sindacato stesso. L’approfondimento, la conoscenza e i saperi, la loro divulgazione, costituiscono un obiettivo fondamentale di un sindacato moderno, favorendo la discussione e il dibattito sia interno che esterno, e rappresentano sempre più un caposaldo dell’attività del sindacato per il futuro.
  • ll volume introduce il lettore all’epigenetica, lo studio biologico della continuità tra organismi e ambienti, attraverso la sua storia e le sue attuali applicazioni nella salute pubblica e nella ricerca scientifica. Sulla scia della divisione del mondo nei blocchi delineati durante la guerra fredda, l’epigenetica venne osteggiata dalle più importanti istituzioni scientifiche occidentali di inizio Novecento e dimenticata fino alla fine degli anni sessanta. Uno dei motivi di questo ostracismo da parte degli ambienti accademici risiedeva nel carattere di forte interdisciplinarità della sua genesi – prerogativa propria della scienza sovietica – mentre nell’assetto scientifico del blocco occidentale la specializzazione disciplinare e il conseguente ruolo degli esperti nelle istituzioni democratiche iniziava a prendere piede. Dopo aver percorso le tappe storiche dello sviluppo dell’epigenetica, vengono analizzati casi di studio in cui questa disciplina interagisce con la zoologia, la botanica e la sfera della salute pubblica per le generazioni presenti e future, nonché le linee di ricerca più recenti che aprono al ripensamento dei cardini culturali e scientifici delle nostre stesse società.
  • A quindici anni dalla sua scomparsa, l’interesse per l’opera di Bourdieu è così vivo da far sì che lo studioso francese sia oggi annoverato tra i classici della sociologia contemporanea. Il volume esplora, ripercorrendone la genesi e lo sviluppo, le categorie analitiche e i concetti di uno dei più controversi intellettuali del nostro tempo. Per rendere appieno la complessità della figura intellettuale di Bourdieu, analizza i rapporti tra teoria, concettualizzazione e ricerca empirica nell’opera del sociologo francese, individuando fecondità e limiti, luci e ombre, felicità e criticità relativamente al rapporto tra teoria e ricerca e tra concetti e loro traduzione operativa. Molteplici sono i riferimenti agli autori e alle principali scuole di pensiero che hanno esercitato un’in fluenza fondamentale su Bourdieu.
  • Una tappa storica nella vita di un popolo, che si proietta nell’avvenire come un progresso». Così nel 1946 Giuseppe Di Vittorio si augurava dovesse diventare la Carta Costituzionale, «fondata sul lavoro», che due anni dopo, a conclusione dei lavori della Costituente, sarebbe entrata in vigore il 1° gennaio 1948. E di fronte al dramma della disoccupazione aggiungeva: «[...] La Confederazione generale del lavoro non chiede allo Stato sussidi, ma chiede che si creino condizioni tali da dare lavoro ai disoccupati». A distanza di settant’anni, di fronte a uno scenario cupo per l’occupazione, la cui precarietà si esprime in un’articolazione infinita di modelli contrattuali, incontrollati e incontrollabili, che minano il rispetto della dignità della persona umana, di ogni singolo lavoratore, è legittimo chiedersi quale forza abbiano ancora quelle disposizioni volute dai Costituenti, quanto siano state attuate e, all’estremo, se siano davvero attuabili. Insomma, se anche i giovani millennials possano davvero dire, come l’umile Mugnaio di Sans-Souci: c’è un giudice a Berlino.
  • Questa memoria è la mia storia di militante comunista intrecciata con la storia del PCI, attraverso i leader che ho conosciuto più da vicino e che più mi hanno coinvolto per la loro personalità e originalità. Ho scelto di raccontare il partito attraverso i suoi leader maggiori come li ho visti io, i rapporti, anche critici, che ho avuto con loro, le suggestioni, i pensieri e, perché no, gli insegnamenti che mi hanno dato. Ne ho scelti dodici, quelli che, secondo me, hanno pesato di più nella vita del partito e soprattutto nella mia vita. La loro peculiarità era la serietà e persino la severità verso se stessi, prima che con gli altri e con il partito. Il che comportava una notevole autodisciplina e coerenza nei comportamenti e prima di tutto nel lavoro e nello studio. Non ignoro che vi era anche una punta di compiacenza elitaria... In tutti c’era un tratto comune che, a mio parere, era il collante principale, che, pur nel confronto più acceso, determinava la coesione e l’unità del gruppo dirigente: la ricerca di un comunismo democratico, prefigurazione viva e concreta della società del domani, in cui tutti, anche i più deboli e più umili, si sentissero utili e valorizzati. Inoltre un rapporto di verità con gli strati popolari fondato sulla coerenza tra parole e fatti: cercare di fare esattamente quello che si dice e di dire esattamente quello che si può fare. L’esatto opposto dell’odierno populismo.
  • Nel 1895 i fratelli Lumière filmano l’uscita degli operai dalla loro fabbrica a Lione. Il cinema inizia dal lavoro. Negli ultimi anni è tornato a descriverlo: nel Duemila, e in particolare dal 2008 con lo scoppio della crisi economica, i registi italiani, europei e americani ricominciano a riflettere su questo grande tema. I licenziamenti, la disoccupazione, la difficoltà di trovare un nuovo impiego. Le figure deboli come le donne e i precari. Il libro è una mappa del cinema sul lavoro nei nostri anni: da Ken Loach a Laurent Cantet, dai fratelli Dardenne a Lars von Trier, fa il punto su come i registi di oggi trattano il lavoro e il lavoro che non c’è. Da film manifesto come Full Monty alle provocazioni estreme come Il grande capo, passando per la strada italiana di Smetto quando voglio. In sei capitoli divisi per temi La dissolvenza del lavoro analizza oltre cinquanta titoli, decifrando lo stile degli autori: dal realismo sociale di Loach al cinema hollywoodiano de Il diavolo veste Prada. Dalla commedia alla tragedia, dal lieto fine al pugno nello stomaco. Una bussola per orientarsi nel cinema del nostro tempo difficile: colpito dalla di soccupazione, ma illuminato da grandi opere. I capitoli sono seguiti da una scheda tematica a cura di uno studioso dell’argomento.
  • Il congresso della Seconda Internazionale, riunito a Parigi nel luglio 1889, chiamò i lavoratori di tutto il mondo a manifestare simultaneamente per la riduzione della giornata lavorativa a otto ore. La grande mobilitazione planetaria, fissata per 1° maggio 1890, ebbe una straordinaria riuscita. Così, quello che era stato concepito come un evento unico e irripetibile divenne un appuntamento da rinnovare ogni anno. Iniziava la tradizione del Primo maggio, 130 anni di storia, ripercorsi con linguaggio chiaro ed essenziale in questo libro, che attinge a una documentazione anche inedita e valorizza testimonianze, cronache, episodi poco conosciuti. Si va dai turbolenti comizi anarchici di fine Ottocento alle infervorate piazze del «biennio rosso», prima che la festa ribelle fosse soppressa dal fascismo. Il Primo maggio tornò a celebrarsi nel 1945, a pochi giorni dalla Liberazione e l’anno seguente diede un forte impulso alla campagna per l’avvento della Repubblica. Nel 1947 fu scritta la pagina più sanguinosa: la strage di Portella della Ginestra. Poi la scissione sindacale, le dure contrapposizioni della guerra fredda, la lenta e difficile ripresa del discorso unitario, i cortei di fine anni Sessanta con operai e studenti «uniti nella lotta». Con le trasformazioni sociali, il mutamento delle abitudini e delle mentalità il Primo maggio ha perso molti dei suoi caratteri identitari, ma è riuscito a trovare altre e forti ragioni, sperimentando forme e linguaggi inediti, per affermare il valore del lavoro nel nuovo millennio.
  • È un punto d’arrivo perché sintesi di un lavoro plurale e collegiale che non risiede solo nelle competenze ed esperienze dei suoi autori. Infatti racconta il lavoro e l’impegno di molte altre persone: studiosi, dirigenti sindacali, esperti e docenti... Ma più di ogni altra cosa questo Manuale è la sintesi, certo ancora parziale e imperfetta, del lavoro di migliaia di delegate e delegati che hanno spostato dal piano teorico a quello contrattuale l’azione della CGIL e del sindacato sui temi della digitalizzazione con risultati incoraggianti. …Certo, di fronte alle sfide e alle incognite che le nuove tecnologie mettono in campo siamo consapevoli della parzialità di questi risultati. Per questo il Manuale è anche un punto di partenza. Non nasconde nessuna delle insidie e dei dubbi che i nuovi modelli tecnologici propongono, ma al netto di ciò, propone indirizzi di sperimentazione contrattuale, nella certezza che senza investimenti e innovazione non avremo mai un «buon lavoro» e neppure un «bel Paese». …Fare questo per noi significa essere parte di un progetto che tenga insieme innovazione e tutela del lavoro, per dare al futuro un’accezione di speranza, sottraendolo agli untori delle paure del nostro tempo… In questo volume abbiamo esposto le riflessioni, i confronti, le testimonianze, le buone pratiche raccolte in questi mesi dal «Progetto lavoro 4.0» della CGIL. Abbiamo preferito organizzare i contributi in capitoli che riguardano le trasformazioni tecnologiche in corso, gli effetti sul lavoro e le professioni, il punto di vista internazionale sul tema, la necessità di arricchire le competenze, l’esame di alcuni casi pilota di confronto sindacale sulle nuove tecnologie, gli indirizzi possibili per una contrattazione (confederale e di categoria) più adeguata all’innovazione. Contributi di Barbara Apuzzo, coordinatrice delle attività di Comunicazione CGIL Elena Battaglini, responsabile area Economica Territoriale Fondazione Giuseppe Di Vittorio Monica Ceremigna, responsabile progetti europei CGIL Fabrizio Dacrema, responsabile Istruzione e Formazione CGIL Alessio Gramolati, responsabile Ufficio Lavoro 4.0 CGIL Cinzia Maiolini, Ufficio Lavoro 4.0 CGIL Chiara Mancini, coordinatrice Idea Diffusa CGIL Simona Marchi, responsabile Formazione sindacale Fondazione Giuseppe Di Vittorio Massimo Mensi, FILCAMS CGIL Giancarlo Pelucchi, responsabile Formazione sindacale CGIL Cristian Perniciano, responsabile Politiche fiscali ed Economia pubblica CGIL Gaetano Sateriale, responsabile Piano del Lavoro CGIL
  • Negli ultimi anni si assiste a un fenomeno sempre più «innaturale»: la comparsa di un feroce ritardo delle giovani generazioni italiane nei percorsi di transizione all’età adulta. Le tappe tradizionali che definivano tale passaggio sono saltate: nuove istanze di libertà e cittadinanza premono per avere legittimazione e diritti. Nello stesso tempo si sono erose le condizioni di benessere dei giovani. La generazione maggiormente colpita sembra essere quella degli young-adults nati tra il 1975 e il 1985. Si ipotizza che le politiche pubbliche messe in atto a partire dalla seconda metà degli anni settanta abbiano contribuito ad alimentare tale «ritardo». Politiche economiche e del lavoro discriminanti; politiche abitative assenti; politiche familiari ridotte; una struttura del mercato del lavoro inadeguata ad assorbire high skills. Tutto parla di un’inversione di rotta all’alba del secondo ciclo dello Stato sociale. Le generazioni non sono attori neutri, esse rappresentano tempi sociali che immettono nuove strutture. I giovani vanno dunque inscritti dentro precise collocazioni storico-sociali. Le politiche di empowerment condotte negli ultimi anni non hanno tenuto conto di questo approccio, promuovendo una visione idealizzata delle giovani generazioni: choosy, bamboccioni o risorse attive, tutto ha parlato di loro come di soggetti totalmente dematerializzati. Le politiche, in quanto strumenti che danno forma al Futuro, hanno il dovere di volgere lo sguardo verso il recupero delle prerogative materiali che determinano, o meno, i percorsi di autonomia. Non vi può essere attivazione senza emancipazione sociale.
  • Popolo chi?

    14.00 
    Il libro presenta e analizza i risultati di una ricerca condotta fra ottobre 2017 e ottobre 2018 nelle periferie di quattro città italiane: Milano, Firenze, Roma e Cosenza. Attraverso 60 interviste in profondità, il gruppo di ricerca – composto da accademici e accademiche, attivisti e attiviste – ha cercato di portare alla luce tre grandi questioni: le condizioni sociali dei quartieri popolari, il rapporto delle persone intervistate con la politica (sia quella istituzionale sia la partecipazione dal basso) e il rapporto con i media e l’informazione. La ricerca ha voluto in primo luogo chiedere alle cosiddette «classi popolari», di cui spesso politici e partiti pretendono di essere portavoce, di prendere parola sulle esigenze, speranze e difficoltà della loro vita quotidiana. In secondo luogo si è cercato di capire quali rappresentazioni diffuse ci siano della politica e delle classi di rigenti. Ciò che è emerso traccia uno scenario molto più complesso di quello dipinto nelle narrazioni mainstream, difficilmente riconducibile alle etichette di «populismo», «razzismo» o «euroscetticismo» e che ci costringe a ripensare le categorie analitiche con le quali interpretiamo i fenomeni contemporanei. La ricerca è stata ideata e condotta dal Cantiere delle Idee, rete nazionale di ricercatori e attivisti. Insieme ai tre curatori, sono autori del volume Francesco Campolongo, Riccardo Emilio Chesta, Lorenzo Cini, Michele Sorice, Valeria Tarditi, Tommaso Vitale, Davide Vittori.
  • Il volume si basa sui risultati della ricerca internazionale Decoba condotta in cinque paesi europei: Italia, Spagna, Francia, Germania e Belgio. A partire dalla ricerca Decoba, l’opera approfondisce il caso italiano esaminando i rapidi e crescenti cambiamenti che nel corso dell’ultimo decennio hanno in te ressato il commercio. Lo studio ricostruisce le sfide affrontate in Italia negli ultimi dieci anni dalle organizzazioni di rappresentanza sindacale e datoriale nel settore del commercio met tendone in evidenza processi decisiona li, azioni collettive intraprese ed esiti ottenuti. Emerge un quadro nel quale, se da una parte il commercio conferma le proprie specificità settoriali, dall’altra si presenta come un settore in cui le trasformazioni in atto, anche per effetto di dinamiche sovranazionali, pongono agli attori collettivi (inclusi i governi) ulteriori sfide, più dif ficilmente gestibili a livello nazionale.
  • Il volume raccoglie i lavori del convegno svoltosi a Genova il 24 maggio del 2018 nell’ambito delle iniziative per il centenario della nascita di Alessandro Natta. I saggi contenuti nel volume sono frutto della rielaborazione delle ricerche presentate in occasione della giornata di studi genovese e tematizzano in particolar modo il nesso tra politica e cultura che ha caratterizzato la biografia di Natta. Sono state inoltre pubblicate le testimonianze, fonti preziose grazie alle quali emergono aspetti pubblici e privati della sua esistenza. Seguendo questo filo rosso e avvalendosi anche di fonti d’archivio solo di recente disponibili, i saggi affrontano alcuni snodi della vita del dirigente comunista: la formazione alla Scuola Normale di Pisa, il periodo di direzione dell’Istituto Gramsci, il rapporto col movimento studentesco, la collaborazione con Enrico Berlinguer tra il 1972 e il 1984, gli anni alla guida del Pci e infine il suo contributo alla conoscenza della storia del comunismo italiano e della Resistenza.