• Il governo italiano sta procedendo a dare attuazione all’autonomia regionale differenziata. Consiste nell’attribuzione alle Regioni a statuto ordinario che ne fanno richiesta di mag-giori forme di autonomia in ambiti originariamente disciplinati in modo uniforme dallo Stato. Dopo anni di gravi difficoltà economiche e sociali, che hanno allontanato l’Italia dal resto dell’Europa e ampliato gli squilibri territoriali, l’autonomia differenziata rischia di aggravare la situazione del paese e indebolire il sistema di welfare. L’autonomia diffe-renziata mira, infatti, a dare maggiori competenze a chi può correre più velocemente, la-sciando inalterata – nella migliore delle ipotesi - la condizione di chi è rimasto indietro. A problemi comuni a tutte le regioni è invece necessario dare risposte a livello nazionale, a beneficio di tutti, rafforzando il welfare ed evitando soluzioni singole che aumenterebbero i costi di decisione e creerebbero disuguaglianze. Prima di procedere a qualunque ulteriore attribuzione di competenze alle Regioni è comunque indispensabile rafforzare il livello centrale, nella qualità e nella quantità delle competenze disponibili, affinché siano ben definiti i Livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali e affinché sia possibile il loro rispetto da parte di ogni regione.
  • Contro le ipotesi e i progetti di autonomia differenziata, che dividono il paese accelerando la secessione dei ricchi, è in atto da tempo una forte reazione dei sindacati dell’istruzione, mediante ogni forma di mobilitazione. Forte inoltre è stata la partecipazione alla raccolta di firme per il disegno di legge popolare per la revisione degli articoli 116 e 117 della Costituzione, nel quale si esclude ogni forma di autonomia differenziata per istruzione, sanità e welfare universale. L’autonomia differenziata, così come prevista dall’articola-zione del progetto Calderoli, va considerata un pericoloso sovvertimento dall’alto di ogni forma di uguaglianza e parità di accesso alla formazione e alla conoscenza determinati dall’articolo 3 della Costituzione. Inoltre, occorre riconsiderare la storia delle autonomie scolastiche, universitarie e accademiche degli ultimi trent’anni, e verificarne tenuta, limiti e possibilità, per evitare che gli errori del passato possano ancora pesare sulle decisioni del presente e del futuro.
  • L’articolo indaga le caratteristiche socio-demografiche, educative e, soprattutto, professio-nali dell’élite di potere europea di fama mondiale (top leader) appartenente al campo della comunicazione. A tal fine è stata condotta una ricerca quantitativa basata sull’analisi di 9.000 profili di personalità con notorietà internazionale. È fornita un’analisi descrittiva che evidenzia che i top leader della comunicazione sono principalmente uomini in età avan-zata. Si osserva una sorta di longue durée di dominio maschile e gerontocrazia a causa dei quali, per i componenti dell’élite europea, il sistematico ricambio generazionale e di genere sembra essere molto difficile da raggiungere. Infine, i risultati della ricerca eviden-ziano che, nel Vecchio continente, le top élite della comunicazione svolgono professioni che rimandano principalmente ai modi del comunicare tipici del Novecento piuttosto che del Nuovo millennio, sempre più orientato al mondo dei social media e del digitale.
  • La riflessione proposta si concentra sulle ragioni alla base della necessità di un rinnovato impegno in difesa della Costituzione. Il tema delle riforme costituzionali è complesso e può risultare estraneo e lontano dai problemi concreti dei cittadini. Diviene quindi necessario far comprendere come toccando l’architettura istituzionale della Repubblica si mettano a rischio i diritti fondamentali delle persone e la qualità della democrazia. In tema di autonomia differenziata il progetto del governo, attribuendo alle Regioni che ne faranno richiesta funzioni come istruzione, lavoro, salute, energia, beni culturali, infrastrutture, stravolge il principio costituzionale di autonomia cooperativa e solidaristica e prefigura un regionalismo competitivo e corporativo. Inoltre formalizza di fatto che le differenze tra Nord e Sud del paese non saranno più affrontate.
  • Il contributo si sofferma sulle proposte che in questi ultimi anni la Cgil ha avanzato in tema di lavoro. A tal fine si presentano alcune valutazioni di scenario e di contesto, alla luce dello stato del mercato del lavoro nel nostro paese e anche della considerazione sociale, del valore che ad esso viene attribuito, oltre che delle tendenze in atto.
  • Il mercato del lavoro italiano presenta aspetti paradossali, adatti a sostenere narrazioni diversificate: da un lato la forte incidenza della precarietà e del lavoro povero, dall’altro il massimo storico del tasso di occupazione, le «grandi dimissioni» e le difficoltà nel reperire la manodopera. Nel saggio si presentano analisi volte a problematizzare questi temi, interrogandosi in particolare sul significato e sui limiti degli indicatori sul livello di occupazione, sulle motivazioni della precarietà e sulle chance delle ricette per ridurla, sull’articolazione delle dinamiche salariali in funzione della diversa intensità di lavoro (per orario giornaliero o per continuità nel tempo) e sul possibile impatto del salario minimo.
  • Da sempre il tema delle pensioni è al centro del dibattito pubblico, in particolare negli ultimi anni, dopo l’approvazione, nel dicembre del 2011, della Legge Monti-Fornero. La discussione sulla riforma del sistema previdenziale, però, si è di fatto consumata lungo un crinale tutto propagandistico, trascurando il nuovo contesto sociale, economico e demografico che si è andato configurando nel nostro paese. Questo ha comportato il rincorrersi di inter-venti dettati dall’emergenza, non in grado di ripensare il modello nel suo complesso e di dare finalmente certezze alle lavoratrici e ai lavoratori. Non tutte le modifiche introdotte fin qui vanno messe sullo stesso piano. Il tratto comune è stato il tentativo di inserire, ex post, elementi di flessibilità in un sistema estremamente rigido. In alcuni casi si è almeno andati nella direzione giusta: come i provvedimenti che hanno introdotto l’Ape sociale, i «precoci» e il cumulo contributivo. Altri invece sono risultati parziali, temporanei e poco efficaci come «Quota 100», «Quota 102» e «Quota 103». Il Governo Meloni, che si era presentato al paese con la promessa di superare la Legge Monti-Fornero, ha deciso, nei fatti, di procedere in senso esattamente contrario.
  • Vent’anni di riforme prevalentemente sottrattive di ispirazione neoliberista (1992-2011) hanno ripristinato la sostenibilità economico-finanziaria del sistema pensionistico italiano, lasciando però criticità, sia nel breve che nel medio-lungo periodo, sul versante della soste-nibilità sociale e della connessa tenuta politica del sistema. Nel quadro delle compatibilità economiche-finanziarie, la sfida è dunque come ri-disegnare un modello pensionistico in grado di risolvere il «trilemma dell’adeguatezza»: l’efficiente, efficace ed equa combinazione tra 1) prevenzione della povertà e 2) mantenimento di un livello adeguato di reddito per i lavoratori pensionati, 3) ad età pensionabili ritenute con-grue e sostenibili. Elaborate entro la rigida cornice del metodo contributivo, gran parte delle proposte di riforma circolanti nel dibattito pubblico non sembrano però in grado di disattivare i trade-off che si generano tra le diverse dimensioni del «trilemma». Pare dunque necessario, a tre decenni dalle «grandi riforme» degli anni novanta e in un contesto strutturale comple-tamente trasformato, avviare una riflessione di più ampio respiro, che consenta di superare i cinque «miti» che costringono il dibattito pubblico sulle pensioni italiane, riducendo di fatto le alternative di riforma disponibili. Oltre i «miti previdenziali», in un paese che non può permettersi incrementi di generosità generalizzati e di espandere sensibilmente la spesa per pensioni, il principio a cui ancorare il disegno delle nuove regole dovrebbe essere l’«equità sostanziale» sia rispetto alle condizioni di accesso al pensionamento che nel calcolo delle prestazioni e nelle modalità di finanziamento.
  • Un’indagine sulle associazioni italiane nel mondo, tra le generazioni di migranti del dopoguerra e i flussi di nuova emigrazione degli ultimi 20 anni, che hanno portato all'estero oltre un milione di giovani italiani.
  • Un’indagine sulle associazioni italiane nel mondo, tra le generazioni di migranti del dopoguerra e i flussi di nuova emigrazione degli ultimi 20 anni, che hanno portato all'estero oltre un milione di giovani italiani.
  • QRS N. 1/2023

    22.00 
    Salari e inflazione
    • Il lavoro a Milano e Torino
    • Gli orientamenti politici e culturali dei lavoratori
    • Un nuovo scambio politico?
  • Da oltre quindici anni l’occupazione di artigiani e commercianti, la forma di lavoro indipen-dente tradizionale più diffusa in Italia, è in netta riduzione. Il declino interessa però solo i lavoratori nativi poiché il lavoro autonomo degli immigrati è notevolmente aumentato. Ma non si tratta dell’affermazione di economie etniche e di enclave poiché gli immigrati rilevano spesso attività autonome, poco qualificate e poco redditizie, che i nativi abbandonano, non di rado per la difficoltà della successione generazionale. Utilizzando i microdati della Rileva-zione sulle forze di lavoro dell’Istat e il modulo ad hoc sulle condizioni del lavoro indipendente del 2017, l’articolo analizza il lavoro autonomo degli immigrati evidenziando come la sua espansione sia concomitante al declino del lavoro autonomo e imprenditoriale dei nativi e come, tra le caratteristiche individuali, l’area di origine e l’anzianità migratoria sono quelle che esercitano la maggiore influenza. Utilizzando la rara informazione sulle motivazioni addotte per svolgere un’occupazione indipendente, l’analisi mostra che la quota di immigrati per cui la scelta è forzata è minoritaria, pur non trascurabile. Tuttavia le differenze per area di origine e per titolo di studio suggeriscono di non generalizzare l’ipotesi della prevalenza dei fattori di attrazione del lavoro in proprio, ma di considerare che il lavoro indipendente possa avere un diverso ruolo nei diversi gruppi di origine.