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«PERSONE IN GRADO DI ADATTARSI ALLE NOVITÀ E AI CAMBIAMENTI, A PRESCINDERE DALL’ETÀ ANAGRAFICA» Sono i perennial, definizione coniata negli Stati Uniti, sdoganata in Italia dall’enciclopedia Treccani, con cui si indica chi, nonostante le tante primavere alle spalle, ha ancora voglia di imparare, conoscere, confrontarsi, fare e darsi da fare. In un Paese come l’Italia che invecchia velocemente e in cui non si fanno più figli, da cui i giovani scappano perché non c’è lavoro e quel poco che è rimasto è precario, sbaglia chi vede negli anziani una zavorra o una casta privilegiata adagiata su pensioni faraoniche. Il libro di Ivan Pedretti, segretario generale dello Spi-Cgil, passa al setaccio ogni angolo di questo mondo: 16 milioni di persone con un’aspettativa di vita che fortunatamente continua ad allungarsi, i pensionati rappresentano quel collante fondamentale chiamato a unire le diverse generazioni. Lo fanno tenendo allenati il fisico e la mente, adottando stili di vita salubri, dedicandosi al volontariato, partecipando attivamente alle dinamiche delle comunità e dei territori di cui fanno parte. C’è però anche chi se la passa meno bene. Sono i 3,5 milioni di non autosufficienti che per non spegnersi hanno bisogno di cure costanti. Per non abbandonarli a se stessi, all’operato spesso sottopagato e poco tutelato di badanti o alle Rsa andate in tilt durante la pandemia, serve rivoluzionare il sistema sanitario e il welfare sociale del nostro Paese: attraverso servizi che siano più di prossimità, formando meglio il personale sociosanitario, sfruttando le soluzioni offerte dalla robotica, dalla telemedicina e dalla domotica.
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L’inclusione capacitante degli innovatori e dei soggetti marginali nelle politiche per lo svi-luppo locale costituisce una leva cruciale per combattere le diseguaglianze territoriali e di riconoscimento. A sostegno di questa tesi, l’articolo analizza dapprima due meccanismi micro-fondati che presiedono la relazione tra potere di riconoscimento e diseguaglianze terri-toriali: il deficit di riconoscimento e il mis-conoscimento. Entrambi i meccanismi sono di-scussi alla luce delle relazioni di potere che presiedono e istituiscono. Nella seconda parte, a suffragio empirico di questi meccanismi, si prendono in considerazione tre diversi casi di politiche e azioni che – a diversi livelli di scala – hanno colmato il deficit di riconoscimento o riequilibrato situazioni di mis-conoscimento. Scopo dell’articolo è quello di mostrare come il potere di riconoscimento nasca e proliferi nel perimetro di un discorso pubblico performa-tivo, che assegna identità e valore pubblico a territori e persone, alla luce del primato dei target, dell’investimento senza risultati, dei risultati senza capacità di aspirare. Le conclu-sioni suggeriscono infine che questo discorso pubblico performativo sottende una logica dell’ec-cellenza che riproduce e accentua le diseguaglianze territoriali.
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La dimensione territoriale delle politiche pubbliche rappresenta un interessante ambito di analisi delle determinanti economiche e sociali delle disuguaglianze. Partendo da alcuni ri-ferimenti teorici sull’interpretazione dei divari territoriali, il contributo analizza la dimen-sione territoriale del welfare e la rilevanza dell’approccio place-based come strumenti di riequilibrio economico, sociale e territoriale. Le esperienze osservate nelle aree interne e nelle aree urbane periferiche mostrano la dimensione coesa del welfare locale come investimento sociale: integrano risorse e attori (pubblici e privati, profit e non profit), coinvolgono operatori sociali, organizzazioni, cittadini e valutano i risultati delle azioni.
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Dalla formulazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdgs) delle Nazioni Unite, la que-stione ambientale è entrata saldamente nell’agenda delle politiche pubbliche. Diversi livelli di governo stanno mettendo in atto misure e programmi per guidare le scelte di amministratori, imprese e cittadini verso il raggiungimento degli Sdgs. In ogni paese le politiche ambientali sono state strutturate sulla base di tre strumenti: la definizione degli obiettivi da raggiungere, l’in-dividuazione di sistemi normativi per vincolare l’azione degli attori pubblici e privati ed evitare che i loro comportamenti causino danni ambientali, la determinazione di incentivi economici per incoraggiare gli attori ad adottare comportamenti ecologici. Questo sistema di obiettivi, incentivi e regole si inserisce in un modo dominante di costruire le politiche di transizione, che si concentra sul mercato e sulla regolazione. È nel mercato che si formano le preferenze per le tecnologie e le pratiche sostenibili, ed è attraverso la regolamentazione che si interviene laddove il mercato non fornisce sufficienti benefici ambientali. Chiamiamo questo modo di strutturare le politiche ambientali «progetto di modernizzazione ecologica», un modello politico che non tiene conto delle diversità sociali e territoriali. Questa cecità alle diversità sociali e territoriali riproduce e genera nuove disuguaglianze, perché l’accesso e la reazione a incentivi e vincoli è diverso a seconda delle condizioni sociali e territoriali. Anche per questo, nelle scienze sociali, una vasta letteratura sta analizzando il rapporto tra transizione ecologica e disuguaglianza. È in questo insieme di lavori che si colloca il nostro contributo
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Il lavoro analizza le disuguaglianze nell’offerta e nell’accesso ai servizi educativi per la prima infanzia in Italia e presenta alcune politiche che disegnate in modo diverso e più partecipato potrebbero aiutare a contrastarle. Una breve introduzione presenta i principali risultati della letteratura in termini di benefici legati all’accesso e all’utilizzo dei servizi educativi per la prima infanzia mentre la seconda sezione è dedicata a un’analisi descrittiva della situazione italiana. Dopo aver presentato le novità introdotte con il Pnrr e l’introdu-zione dei Lep, le ultime tre sezioni sono dedicate alla presentazione di proposte che possono, da un lato, aiutare a superare l’approccio top-down nel disegno delle politiche rivolte ai luoghi e, dall’altro, a garantire una maggiore partecipazione nel processo di disegno e imple-mentazione delle politiche pubbliche, tra cui quelle che disciplinano l’offerta dei servizi edu-cativi alla prima infanzia. Infine, si sottolinea come, oltre alla necessità di coinvolgere mag-giormente gli attori del territorio nella definizione delle politiche, sia necessario lavorare af-finché venga conosciuta e riconosciuta l’importanza dei servizi educativi alla prima infanzia come strumento di contrasto alle disuguaglianze e di sviluppo delle competenze emozionali, relazionali e cognitive dei minori, sia dalla cittadinanza che dagli amministratori e dalle amministratrici locali.
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L’esistenza di una corrispondenza tra brevetti, innovazione e benessere sociale è spesso assunta come un dato inequivocabile nel dibattito pubblico, nonostante un’ampia letteratura economica, teorica ed empirica, abbia evidenziato i molti limiti del sistema brevettuale come strumento al servizio del benessere collettivo. La pandemia da Covid-19 ha reso più evidenti alcuni di questi limiti, e la difficile conciliazione di brevettazione e giustizia sociale. In questo articolo, a partire dalla ricognizione di alcuni nessi tra proprietà intellettuale e disuguaglianze, si esplora uno degli aspetti più controversi messi a nudo dalla pandemia: la circostanza che le attuali prassi in materia di gestione dei diritti sui risultati della ricerca finanziata con fondi pubblici limitano e distorcono la capacità di perseguire gli obiettivi sociali che ne costituiscono la ratio. È necessario un ripensamento dell’interfaccia fra ricerca pubblica e ricerca privata in tutti i settori e per tutti i soggetti coinvolti. Definire i diritti sui risultati delle collaborazioni pubblico-privato ex ante, in modo prevedibile, vincolante e orientato alla massimizzazione dell’accesso alla conoscenza derivante dalla ricerca pubblica consentirebbe miglioramenti non solo sul piano dell’accesso equo a prodotti e servizi innovativi, ma anche e soprattutto su quello dell’innovazione continua.
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Il Pnrr è ancora oggi una «grande occasione» in nuce. I suoi risultati dipendono da molte circostanze: dalla capacità delle risorse e delle misure di integrarsi con altre risorse, altre politiche e altri soggetti, e da variabili esogene, in primo luogo dalla guerra Russia-Ucraina, dall’inflazione, dalla persistenza della pandemia e, da ultimo, dalla recente crisi di governo. Conta moltissimo la capacità del Piano di indurre aspettative positive e azioni conseguenti tra gli italiani, in particolare tra le sue classi dirigenti, centrali e locali. Senza «credenze» e mobilitazioni collettive è difficile pensare che i paesi si trasformino, che nuovi paradigmi di sviluppo si affermino, che «grandi salti» si realizzino. Sotto questo profilo, i limiti sono evidenti. A parte l’ossessione retorica sulla straordinaria dotazione monetaria, il Piano è privo di un racconto mobilitante. Tuttavia la partita è appena iniziata e ci sono ancora ampi margini per cambiare la direzione al vento.
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Pandemia e guerra stanno travolgendo i paradigmi affermatisi con la globalizzazione neo-liberista al punto che le stesse domande intorno alle quali si sviluppa il dibattito pubblico sul Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) – su cui si concentra il contributo con particolare riferimento al Mezzogiorno – assumono valore diverso quando non superate dalla realtà per come si sta manifestando. Con lo scoppio della guerra in Europa si molti-plicano le incognite con cui fare i conti. Ciò che purtroppo non muta sono la crescita delle diseguaglianze e dei divari nel contesto di un drastico peggioramento della crisi climatica. A questo occorre rispondere, sapendo che il tempo a disposizione è limitato; e a questo occorre guardare per valutare, e provare a correggere, il Pnrr e l’insieme delle politiche pubbliche di sviluppo.
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Il Patto per un nuovo welfare sulla non autosufficienza propone l’introduzione del Sistema nazionale assistenza anziani (Sna), che comprende tutte le misure di responsabilità pubblica – sociali e sanitarie – per l’assistenza agli anziani non autosufficienti. Lo Sna si fonda su un finanziamento pubblico atto a garantire il diritto all’assistenza, attraverso adeguati Li-velli essenziali delle prestazioni sociali (Leps) e adeguati Livelli essenziali sanitari (Lea). Si prevede una sola valutazione per accedere allo Sna e un percorso semplice e unitario, per anziani e famiglie, nella rete del welfare. Le proposte del Patto delineano la riforma dei principali interventi esistenti, a partire da domiciliarità, residenzialità e indennità di accompagnamento.
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L’Italia è il paese dell’Unione europea con la più alta percentuale di persone di 75 anni tra la popolazione ed è anche il paese in cui il problema degli anziani fragili è più pronunciato. A partire da questa evidenza, l’articolo rimarca come la promozione dei diritti delle persone non autosufficienti richieda la costruzione di un welfare sociale che sia basato sulla centralità della rete integrata dei servizi, superi la cultura dei bonus e dei trasferimenti monetari, valorizzi le relazioni umane, familiari, comunitarie e sociali, promuova le competenze di ciascuna persona e la partecipazione attiva dei cittadini e delle famiglie. La presa in carico delle persone non autosufficienti attraverso il progetto personalizzato e l’approccio olistico, biopsicosociale, ha come presupposto la continuità delle cure, l’integrazione dei servizi e delle prestazioni, il lavoro in squadra degli operatori sociali, sociosanitari e delle diverse figure mediche. Essa è dunque emblematica del processo di integrazione sociosanitaria e di una collaborazione tra i diversi livelli istituzionali. Per realizzarla bisogna incidere sui mecca-nismi di funzionamento del sociale e del sanitario e sulla cultura che ancora li governa. Si sottolinea poi come intercettare la domanda economica e sociale di questo «popolo» di anziani spesso soli, con scarse disponibilità economiche e senza aiuto, traducendola in un’offerta di servizi di sostegno, oltre ad assicurare loro una migliore qualità di vita, permetterà di evitare che la condizione di svantaggio si trasformi ed esploda come domanda sanitaria dalle dimensioni insostenibili.
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La letteratura ha ampiamente dimostrato che efficaci politiche educative e di cura per la prima infanzia apportano benefici non solo ai singoli, facilitando la conciliazione vita-lavoro delle famiglie e permettendo lo sviluppo delle capacità cognitive e non del bambino, ma gene-rano, allo stesso tempo, esternalità positive per la società, supportando la fecondità, l’occu-pazione femminile e contrastando la trasmissione intergenerazionale della disuguaglianza. Il presente contributo si propone di studiare i fattori determinanti il ricorso al nido nell’am-bito territoriale toscano: individuare le caratteristiche demografiche, educativo-culturali e so-cio-economiche dei nuclei familiari che ricorrono ai servizi educativi per la prima infanzia e investigare il ruolo e il valore a questi attribuito. Dall’analisi condotta si rileva la duplice funzione attribuita al nido dalle madri, la necessità di un sostegno nella custodia e l’oppor-tunità di sviluppo delle capacità sociali del bambino, e l’importanza di interventi di coinvol-gimento e sensibilizzazione ai benefici dei suddetti servizi.